intervista a Gianfranco Ravasi, a cura di Andrea Tornielli
«La dimensione antropologica e teologica della malattia: Il Signore guarisce tutte le malattie (Salmo 103,3)».
È il tema del convegno dell’Associazione medici cattolici italiani che si apre questa mattina al Centro congressi Assolombarda di ilano. Dopo l’introduzione del professor Giorgio Lambertenghi Deliliers, la prima parte del convegno vedrà confrontarsi Alessandro de Franciscis, Presidente del «Bureau Medicale» di Lourdes, la psicoterapeuta Paola Bassani e padre Carlo Casalone, Superiore provinciale d’Italia dei gesuiti. Nella seconda parte si terranno le relazioni di Massimo Cacciari (su «Malattia e male») e del cardinale Gianfranco Ravasi. Le conclusioni sono affidate al professor Alfredo Anzani, della Pontificia accademia per la vita.
«Vengo invitato sempre più spesso a convegni medici: sta crescendo la consapevolezza che la malattia e il dolore sono un tema globale e simbolico, non soltanto fisiologico. L’accompagnamento umano, psicologico, affettivo e spirituale è tutt’altro che secondario. C’è bisogno di tornare a una concezione umanistica della medicina».
Il cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio consiglio per la cultura, è abituato a confrontarsi con chi non crede. Ma di fronte alla domanda drammatica sul perché della sofferenza e del dolore – tema del convegno organizzato oggi a Milano dai Medici cattolici – non si rifugia nelle formule di rito.
Come risponde al quesito sul perché della malattia?
«La scrittrice americana Susan Sontag nel 1978 raccontò la sua esperienza di ammalata di cancro in un libro intitolato “La malattia come metafora”. Definizione interessante: la malattia non è mai solo una questione biologica. Quando siamo ammalati abbiamo bisogno di essere confortati, guardiamo alla vita in modo diverso, cambiano le priorità e se la alattia si aggrava cambia la scala dei nostri valori. E anche chi non crede può arrivare a chiedere a Dio il perché di quanto gli accade.
Comunque la prima risposta è semplice, logica e razionale».
Qual è la «razionalità» iscritta nella malattia?
«Il dolore è una componente della finitezza delle creature. Un dato che nella nostra società orgogliosa e tecnologica, che qualcuno ha definito “post-mortale”, non si vuole accettare. Si occulta in tutti i modi la morte, o magari si insegue la possibilità di vivere fino a 120 o 130 anni, continuando ad allontanare l’appuntamento. Dobbiamo invece avere il coraggio di guardare in faccia malattia e morte come componenti dell’esistenza».
Una capacità che sembra perdersi in Occidente, ma che è ancora presente in altre culture…
«È vero. Quando ero in Iraq a fare degli studi archeologici, un giorno uno dei miei collaboratori locali mi invitò a casa sua, così avrei potuto vedere suo padre che stava morendo. Ci andai e vidi quel vecchio adagiato al centro dell’unica grande stanza della casa, con le donne che cucinavano da un lato e i bambini che giocavano dall’altro e che ogni tanto si avvicinavano al nonno per toccargli la mano».
La coscienza della finitezza non basta a spiegare il dolore innocente, la malattia dei bambini,
la sorte che si accanisce con chi ha già sofferto.
«Il problema è la distribuzione del male. Resta drammatica quella pagina de “La peste” di Albert Camus, dove davanti alla morte di un bambino si afferma: non posso credere a un Dio che permette questo. È l’eccesso del male. Qui ha inizio a frontiera in cui si attestano le religioni con le loro risposte, che non esauriscono il mistero. Nel Libro di Giobbe, al culmine della disperazione umana, Dio parla e spazza via tutte le spiegazioni e i tentativi di razionalizzare. La oluzione può essere solo meta-razionale, globale e trascendente e si trova nell’incontro con Dio».
La risposta del cardinale Ravasi?
«È quella cristiana, totalmente diversa dalle altre religioni. Perché nel cristianesimo è Dio stesso, in Cristo, che non solo si piega verso di noi per spiegarci il significato della sofferenza, non solo in qualche caso guarisce grazie alla sua onnipotenza con i miracoli, ma entra nella nostra umanità e prova tutto il dolore dell’uomo. Il dolore fisico, morale, la paura, il silenzio del Padre. E alla fine anche la morte, che è la carta d’identità dell’uomo, non di Dio. Diventa un cadavere, senza mai cessare di essere Dio, soffre tutta la sofferenza umana e vi depone un germe di trasfigurazione, che è la resurrezione, fecondando la nostra natura mortale».
Questo però non cancella e il dolore né la domanda. Anche per chi crede.
«Gesù Cristo, il Figlio di Dio non è venuto a cancellare il dolore, tant’è vero che lo ha vissuto. Ma lo ha assunto su di sé e trasfigurato con il germe dell’infinito, che è preludio d’eternità per noi. Il cristianesimo è una religione fieramente carnale e vicina al dramma di chi soffre – al contrario di tante altre religioni – perché per i cristiani Dio è diventato un uomo ed è morto in croce. I cristiani, come attesta la nascita degli ospedali, hanno sempre avuto questa attenzione verso i malati, perché credono in un Dio che è stato sofferente, ha conosciuto la morte ed è risorto».
Il suo dicastero ha organizzato di recente un convegno dedicato alle staminali adulte, via alternativa all’uso di quelle embrionali. Chiesa e scienza si possono ritrovare insieme?
«L’utilizzo delle cellule embrionali sta ottenendo risultati minimi rispetto a quelli ottenuti con le staminali adulte: si cancella così il luogo comune che ci attribuisce la responsabilità di non voler alleviare le sofferenze di tanti malati. Proprio le staminali adulte, che non hanno alcuna controindicazione di tipo etico, stanno portando risultati incoraggianti in campo oncologico, e contro il Parkison e l’Alzheimer».
in “La Stampa” del 26 novembre 2011