Dio sparse i semi della diversità
Dopo il diluvio e la scialuppa di salvataggio di Noè, l’umanità ricresce e si raccoglie nella valle di Scin’ar. Costruisce una montagna a forma di torre per abitare in cielo. Nelle illustrazioni dell’episodio si vede un’opera incompiuta, ma secondo la lettera della scrittura sacra l’edificio ha raggiunto il suo culmine. L’impresa di abitare il cielo non viene interrotta, è invece fallita. E il più fantastico edificio mai concepito da una storia, degno perciò di un grandioso insuccesso. La divinità interviene dopo l’ultima pietra. Sulle labbra dei costruttori spiccano a zampillo le innumerevoli lingue del mondo, napoletano compreso. Non è un castigo ma un dono. L’umanità, fornita di un solo indirizzo e di una sola lingua, si era ridotta alla concordia di un termitaio, di un alveare. Il fervore dell’ opera aveva cancellato le scelte e le diversità. Erano diventati maestranze di una sola impresa.
La divinità con la consegna delle lingue restituisce la varietà, il viaggio, l’arbitrio. Babele è la parola che riassume il balbettio frenetico di una lingua sbriciolata in mille altre nuove. Così la divinità disperde la specie umana «sopra i volti di tutta la terra». Il progetto è chiaro: la sparge a seme dai ghiacciai ai deserti per farla attecchire ovunque, inestirpabile. Si allontanarono dall’ombelico di una valle, si moltiplicarono i suoi centri. Il dono delle lingue non servì solo a disperdere ma pure a attecchire. I nostri emigranti impararono le parole delle patrie seconde per radicarsi in fretta nella terra nuova. Sovrapposero ai loro affettuosi dialetti i vocabolari delle nazioni, generose con loro più della patria matrigna che non li riconosceva per figli. Scrive Garcìa Màrquez in Cent’anni di solitudine: «Non si è di nessun posto finché non si ha un morto sottoterra». Penso diversamente che non si è di nessun posto finché non se ne cantano le canzoni, finché non si è invitati a ballare a una festa di nozze.
Ho imparato a scuola il latino e il greco. Ho poi aggiunto per mio conto altre grammatiche, alfabeti.
Quando inizio una nuova lingua mi sembra di piantare un albero dal seme. Lentamente affiora dal silenzio, come da sottoterra e avvia la sua lenta crescita. A volte non arriva a farsi albero e resta cespuglio. Mezza vita fa ascoltavo e parlavo kiswahili in un villaggio della Tanzania, di sera sotto un gran mandorlo indiano. Come allora mi accorgo che una lingua è un albero e pronunciarla è stare nel campo della sua ombra.
in “Corriere della Sera” del 10 novembre 2011