Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso.
La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione, anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un’Italia in cui l’appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni religiose.
In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l’esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta nell’avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell’idea di far parte di un mondo di spiriti e di mistero che trascende l’esperienza terrena.
Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano ercepiti e ricercati più all’esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un’eco attuale (o di un restyling) della religiosità popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata. Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un’immagine che contrasta l’idea che l’epoca attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo – parafrasando Peter Berger – non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta» che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale.
L’immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l’80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l’appartenenza cattolica ha una funzione rassicurante per la nazione?
Perché molti continuano a identificarsi – pur in modo ambivalente – con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di salvezza?
L’idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero, per confinarlo nell’oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi dell’esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un’immagine del cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come criterio di vita, più per l’educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali.
Nella società dell’insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si conciliano con la propria cultura e abitudini.
Parallelamente, l’adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un’identità
nostrana in un’Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul
territorio e enfatizzato dai mass media.
Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell’adesione di molti italiani alla fede della tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell’epoca attuale. L’avvento del pluralismo culturale e religioso non produce necessariamente l’abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l’espressione. Si può essere convinti che non c’è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive dell’esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa di attribuire un’ anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall’altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.
in “La Stampa” del 1° novembre 2011