Bachelet. Testimoniare da cristiani nella vita e nella politica

Bachelet. Testimoniare da cristiani nella vita e nella politica,  La Scuola, Brescia 2011, 156 pagine, 9 euro

 

La scelta di Vittorio Bachelet


Un discorso del cardinale Martini del 1995 contestava il ruolo di un moderatismo cattolico come stampella di regime e  si rifaceva alla «vocazione ad una società avanzata» della dottrina sociale della Chiesa; una «socialità di tipo  relazionale, che punta sui diritti delle persone, delle comunità, a cominciare dalla famiglia, e dei gruppi sociali e infine  dello Stato di tutti…».
Non riguarda direttamente il protagonista della monografia dedicata da Angelo Bertani a Vittorio Bachelet, ma si  iscrive in un contesto nel quale attorno al personaggio si snoda una riflessione più generale. A partire dal titolo:  Bachelet. Testimoniare da cristiani nella vita e nella politica (La Scuola, Brescia 2011, 156 pagine, 9 euro). Il curatore –  he già in altre occasioni si è interessato di Bachelet – aggiunge oggi alcune valutazioni su un momento storico, come  l’attuale.
«Oggi – scrive Bertani – i cattolici si chiedono come fare ad essere più presenti nella società. L’interrogativo è  complesso e persino ambiguo, ma una risposta c’è: fare come Bachelet. Educare, aiutare a crescere tanti cittadini   redenti, laici cristiani come Vittorio Bachelet. Non è facile, ma forse non ci proviamo neppure perché troppo alta e  disinteressata appare la loro testimonianza, troppo pericolosa la loro libertà, poco redditizia la loro militanza».
Ma nelle cinquanta pagine dell’introduzione, un terzo del volumetto, su alcuni testi illuminanti del «messaggio  educativo» di Bachelet (esemplare nella sua «antropologia della mitezza») c’è la chiave di lettura di qualcuno che «ci  ha aiutato a uscire dal cristianesimo di cristianità: quello che si affidava al conformismo e all’intimidazione,  all’abitudine, alle strutture, alle leggi. E a camminare verso un cristianesimo della coscienza e dell’amore, di  comunione e di carità, dell’evangelo e del Concilio».
Troviamo ancora, nell’introduzione, una ricchezza di riferimenti: ecco che spuntano Giuseppe Dossetti, Aldo Moro,  padre Adolfo Bachelet, il gesuita fratello maggiore di Vittorio: non per il gusto della citazione appropriata ma con il  criterio della perennità che quelle parole attribuiscono ai valori.
E se è un raffinato riferimento quello al testo di una lettera inviata dal cardinale Ercole Consalvi nell’anno di grazia  1800 all’allora ambasciatore del Vaticano (non si chiamavano ancora nunzi) a Parigi, monsignor Annibale della Genga  – il futuro Leone XII –, e nella quale era avveniristicamente contenuta l’esortazione a rendersi conto che la rivoluzione  rancese c’era stata, è meritorio, come fa Bertani, ricordare, civicamente parlando, la trama di  riconciliazione tessuta da Adolfo Bachelet con alcuni protagonisti delle sanguinose vicende degli anni settanta.
Il «nucleo incandescente del linguaggio evangelico » viene evocato nel rapporto Dossetti-Bachelet, anche se con esiti  diversi. Bertani torna inoltre più volte sulla esemplare testimonianza espressa dalla famiglia di Vittorio Bachelet; e  riporta alcuni passi di una intervista nella quale, a vent’anni dalla morte, il figlio Giovanni rifletteva sul significato di  quel sacrificio che, ricorda, è stata «l’occasione, pur tristissima, di mettere alla prova quello che diceva papa Giovanni:  nche se qualcuno dice di essere nostro nemico, e si comporta come tale, noi non ci sentiamo nemici di nessuno».
Si rammenteranno le parole di Giovanni che, il giorno delle esequie del padre, inducevano al perdono e nello stesso  tempo alla giustizia in difesa della democrazia: «Vogliamo pregare per quelli che hanno colpito il mio papà perché,  senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, nelle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta,  sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».
Con questo spirito si potranno leggere gli otto interventi contenuti nella seconda parte del libro, che disegnano un  percorso culturale e spirituale. Del quale è stato un tornante la «scelta religiosa» impressa all’Azione cattolica in anni  di grande tensione: «Scelta religiosa – affermava Bachelet che ne era stato il gestore – è anche, allora capacità di  aiutare i cristiani a vivere la loro vita di fede in una concreta situazione storica, ad essere “anima del mondo”, cioè  fermento, seme positivo per la salvezza ultima, ma anche servizio di carità non solo nei rapporti personali, ma nella  costruzione di una città comune in cui si siano meno poveri, meno oppressi, meno gente che ha fame».

Angelo Paoluzi

L’ultima lettera di Alda Merini

Il 1° novembre di due anni fa si spegneva all’ospedale San Paolo di Milano Alda Merini. La notizia mi raggiunse a sera,  mentre rientravo da un viaggio in America Centrale, e a comunicarmela era un giornalista che naturalmente voleva  intervistarmi, riconoscendo la vicinanza che la poetessa aveva testimoniato a più riprese e in pubblico nei miei  confronti. Effettivamente l’amicizia era sorta quando io vivevo a Milano e si era manifestata da parte mia anche in tre  prefazioni che avevo scritto ad altrettanti suoi poemetti di forte intensità spirituale. Ma soprattutto il filo era tenuto  dalle sue interminabili telefonate che intrecciavano il suo affetto per me col libero sfarfallio della sua fantasia e con una  sorprendente caratteristica che la assimilava agli antichi rapsodi o aedi.
La Merini, infatti, creava spesso le sue poesie oralmente e spingeva il suo interlocutore a raccoglierle per scritto o  semplicemente – come nel mio caso – le affidava all’ascolto. Devo riconoscere di essermi pentito di non aver  cristallizzato quella voce nelle righe di un foglio, e d’essermi solo lasciato condurre dal flusso delle sue immagini, così  inquiete e cangianti, delle sue parole iridescenti come in un caleidoscopio, del balenare delle sue intuizioni spesso  folgoranti.
L’ultima telefonata fu da quel l’ospedale ove era ricoverata e ove veniva curata, credo, a fatica, dato il suo  temperamento insofferente di ogni continuità o regolarità, anche terapeutica.
Nello stesso timbro della voce intuivo la fatica che si univa a una sorta di «basso continuo» destinato esplicitamente a  me. Alda, infatti, non si era rassegnata alla mia partenza da Milano per Roma: la considerava come una fuga o un  tradimento nei confronti non solo suoi ma anche di una città che mi amava. Nella sua casa lungo i Navigli, immersa  nella confusione, persino nel degrado, lei mi aveva accolto la prima delle poche volte in cui la visitai, con una vera e  propria festa. Aveva costellato di mazzi di fiori il disordine estremo delle sue cose, aveva convocato un violinista e il  suo cantante preferito che metteva in musica i suoi versi e si era messa lei stessa al pianoforte, che suonava con  passione, per offrirmi un benvenuto caloroso secondo una sua tipica cifra simbolica, ossia l’eccesso nel donare.
Infatti, cercando spesso di rifiutare i suoi molteplici regali, io combattevo quella che chiamo la sua “autodepredazione”, che si manifestava nei confronti di tutti, attuando quel motto, che mi pare fosse di D’Annunzio,  secondo il quale «io ho solo ciò che ho donato». Ma, ritornando a quell’ultimo dialogo telefonico dall’ospedale, un  argomento era stato dominante. Di lì a poco io avrei presentato a Benedetto XVI, nella Cappella Sistina, quasi trecento  artisti provenienti da tutto il mondo, secondo ogni genere di arte. Naturalmente avevo invitato anche lei che  desiderava «dire alcune cose al Papa», come mi ripeteva. Già aveva pensato all’abito da indossare, mutando mille volte  parere e convincendosi alla fine che sarei stato io a trovarle quello adatto. Il 21 novembre 2009, data dell’incontro, si avvicinava e lei, dal letto dell’ospedale, percepiva l’impossibilità di quella sua enuta a Roma e ne  soffriva.
Mi confidò, allora, di essersi decisa a scrivere una lettera a Benedetto XVI che ammirava, pur essendo stata legata  idealmente e appassionatamente alla figura di Giovanni Paolo II.
Evidentemente ritenevo che fosse solo un sogno, nonostante l’ostinazione con cui mi ripeteva di farmi tramite per la  consegna. Lei confermava che l’avrebbe dettata ad alcuni suoi amici e amiche che l’assistevano e che aveva convinto a  preparare dipinti o foto o testi che accompagnassero la sua lettera. In verità, dopo la sua morte, preso com’ero dai  preparativi del l’incontro della Sistina, non pensai più a quel progetto di Alda, né ricevetti mai la lettera che avrei  dovuto presentare al Papa.
La sorpresa è stata forte quando alcuni mesi fa, per una semplice coincidenza – stavo preparando un altro incontro di  Benedetto XVI con gli artisti, in occasione dei suoi 60 anni di sacerdozio, evento che si è realizzato il 4 luglio scorso –  ebbi una fotocopia della lettera che effettivamente Alda Merini aveva dettato il 28 ottobre 2009, a tre giorni di  distanza dalla sua morte. Dattiloscritta su carta intestata dell’«Azienda Ospedaliera San Paolo Polo Universitario –  Ufficio Relazioni col Pubblico», lo scritto reca in finale la sua tipica firma-sigla e al suo interno custodisce tutta la trasparenza dell’umanità, della spiritualità, della storia sofferta della poetessa.
C’è il rimando ai suoi “allievi”, c’è la confessione delle colpe («io sono un guado pieno di errori»), c’è la dimensione  mistica della sua esperienza personale («ho incontrato faccia a faccia il Signore») e c’è anche il riferimento al suo  desiderio frustrato di incontrare nella Sistina il Papa: «Avrei voluto venire da lei ma me l’hanno proibito per la mia  salute e per riguardo ad Ella» (suggestivo questo segno di umiltà nella consapevolezza della sua “sregolatezza”). Ampio  è lo spazio riservato ai sentimenti materni che hanno tormentato tutta la sua esistenza. Le righe sono quasi intrise di lacrime e striate di amarezza e si fanno fin confuse attraverso il velo della sofferenza. Ritorna alla fine la sua confessione di colpa la fa equiparare alla Maddalena. E a suggello – al di là dell’invocazione di rito «per la malattia e la  guarigione di Alda Merini» – ecco un fulminante guizzo poetico: «Abbracci le donne, sono fredde come il ghiaccio».
Credo sia significativo – ora a distanza di anni – far conoscere questa testimonianza di una poetessa che è stata amata  da tanti lettori e lettrici e che è stata ascoltata con emozione da tanti giovani (ne sono stato spesso testimone) quando  in pubblico narrava senza pudore la sua esperienza drammatica nei manicomi, le sue lacerazioni, i suoi ardori, le sue  ascesi mistiche, la sua carnalità spirituale. È anche un modo per esprimerle gratitudine per un ascolto, una stima e un  affetto che mi aveva sempre riservato, giungendo fino al punto di dedicarmi a mia insaputa un’intera sua raccolta  poetica, La clinica dell’abbandono, pubblicata da Einaudi nel 2003.
A conclusione di questo ricordo molto personale mi tornano in mente alcuni versi di uno dei suoi scritti da lei  prediletti, il Magnificat dedicato a Maria la madre di Gesù, raffigurata nel gesto della “Pietà” michelangiolesca, ossia la  “deposizione” del corpo del Figlio, gesto che s’incrocia, però, con la memoria della maternità che accoglie il suo  bambino sulle ginocchia: «Miserere di me, che sono caduta a terra/come una pietra di sogno./Miserere di me, Signore,  che sono un grumo di lacrime./Miserere di me, che sono la tua pietà./Mio figlio,/grande quanto il cielo./Mio  figlio, che dorme sulle mie gambe…».

in “Il Sole 24 Ore” del 13 novembre 2011

Io sono come la Maddalena
di Alda Merini
Ospedale San Paolo
Milano, 28 ottobre 2009

Sua Santità Benedetto XVI
Santo Padre, mentre La ringrazio, La prego di tenere conto dei continui omaggi molto belli fatti da alcuni miei allievi,  fra i quali Giuliano, i quali, pur onorandoLa, sono assai lontani da Lei. Noi poveri peccatori cerchiamo di onorarLa con  disegni e preghiere, ma non vorremmo toccare l’ambito della superbia in cui è facile cadere. Grazie a Dio il  Cristianesimo trionfa ma attenti alle false meretrici e peccatrici perché Dio ama i peccatori come noi.
Io sono un guado pieno di errori che ho fatto e di cui mi pento.
Santo Padre ho sentito la Terra Santa perché ho incontrato faccia a faccia il Signore. Io sono vissuta nella sporcizia, ho  servito San Francesco e avrei voluto venire da Lei ma me lo hanno proibito per la mia salute e per riguardo ad Ella.  «Peccatore come sono» ma madre sicura che non meritava 4 figli. Sono belli ma non cattolici, alcuni di loro non sanno  di essere battezzati. Vanno a derubare la loro mamma ma sono sempre doni caro Santo Padre. Questi buoni ladroni  sono la mia consolazione e moriranno con me, con i miei dolori.
Hanno pianto, non avevano la mamma.
Ma la mamma è sempre stata con loro, non li ha mai abbandonati. Oh dolce è stato il mio destino al quale ho lasciato i  miei anni. Come è vera la storia di Maddalena, anche io come Maddalena.
Abbracci le donne sono fredde come il ghiaccio. Per la malattia e la guarigione di Alda Merini

Don Guanella, prete del fare

Nell’anno in cui don Luigi Guanella vedeva la luce, il 1842, moriva san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Nella sua vita egli avrebbe collaborato con san Giovanni Bosco. Nei suoi stessi anni santa Francesca Cabrini attraversava l’oceano  per essere accanto alla miseria degli emigranti italiani in America, e la stessa opera era compiuta dal vescovo di  Piacenza, Giovanni Battista Scalabrini.
Dopo la sua morte avvenuta nel 1915, sarebbe brillata la figura di don Luigi Orione, del quale Silone ha lasciato un  memorabile ritratto personale in Uscita di sicurezza (1965), frutto di un incontro con lui allora giovane ateo. Lo scorso  nno è stato proclamato beato don Carlo Gnocchi, il prete milanese che aveva dedicato la sua missione alle  piccole vittime della guerra e a una folla di malati. Ancora oggi è viva l’opera e la memoria di don Zeno Saltini, l’artefice  i Nomadelfia…
Potremmo continuare a lungo in questo elenco, risalendo anche nel passato. Abbiamo voluto riservare oggi uno spazio  articolare a un genere letterario che in passato ebbe una straordinaria fortuna e che ora sopravvive ai margini  della cultura più paludata, cioè l’agiografia.
Lo facciamo con una biografia dedicata appunto a don Guanella, un sacerdote della diocesi di Como, nato sulle  montagne confinanti con la Svizzera, a Campodolcino (Sondrio). Oggi la sua immagine salirà solennemente sulla facciata di San Pietro a Roma quando Benedetto XVI lo dichiarerà santo della Chiesa cattolica. Appartiene a quella  “nube di testimoni” – per usare una suggestiva espressione della neotestamentaria Lettera agli Ebrei (12,1) – che hanno  messo in pratica senza glossa il precetto cristiano fondamentale della carità, soprattutto nei confronti degli ultimi della terra.
La loro pagina evangelica di riferimento è stato il capitolo 25 del Vangelo di Matteo nei versetti 31- 46, quando Gesù  “sceneggia” l’approdo estremo della storia in quello che la tradizione ha chiamato «il giudizio finale». Una pagina di  straordinaria potenza che è suggellata da una frase lapidaria rivolta dal Cristo giudice supremo ai giusti: «In verità vi  dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me». E chi fossero questi  “piccoli” lo dicevano già gli stessi giusti quando, rivolgendosi a Cristo un po’ sorpresi, gli domandavano: «Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?

Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto  malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». Sfilano, così, le famose «opere di misericordia corporale e spirituale» che sono l’incarnazione del comando evangelico dell’amore e che sono la cartina di tornasole dell’autentica santità. Forse non è del tutto ineccepibile teologicamente, ma ha un’indubbia verità il verso pascoliano dei Nuovi poemetti  (1909) che affermava: «Chi prega è santo, ma chi fa, più santo».
Luigi Guanella fu un cristiano esplicito, sacerdote cattolico, ordinato nel 1866 da un presule in esilio, mons. Frascolla,  primo vescovo di Foggia, incarcerato prima e agli arresti domiciliari poi a Como, a causa dei contrasti risorgimentali  tra Chiesa e Stato. L’incontro con don Bosco e un temporaneo ingresso tra i Salesiani tra il 1875 e il 1878 lo  prepareranno a quella missione che fiorirà da un germoglio minimo, un gruppetto di giovani donne che, a partire dal 1886, inizieranno ad assistere orfani e bambini e poi si rivolgeranno a derelitti e bisognosi di ogni genere, sconfinando anche in Svizzera, bonificando persino aree paludose per costituire villaggi o colonie autonome, approdando anche a  Roma ove decisiva sarà l’amicizia di papa Pio X. Frattanto si univano a don Guanella anche dieci sacerdoti e così, accanto alle Figlie di Santa Maria della Provvidenza, sorgerà anche la comunità dei Servi della Carità, che  popolarmente saranno denominati come i Guanelliani.
Gli autori della biografia, Michela Carrozzino, che è un’esperta nell’ambito della disabilità, e Cristina Siccardi, che è  ormai una veterana nel genere agiografico, seguono in forma narrativa ma anche con rigore documentario il percorso di questo semplice e appassionato sacerdote.
Egli non esiterà a raggiungere nel 1912 gli Stati Uniti per dedicarsi anche agli emigrati italiani, ma i suoi viaggi  ‘avevano  ià condotto in Terrasanta, a Londra, a Treviri. Alle soglie della morte, nel gennaio 1915, accorrerà in  Marsica, devastata dal terremoto, per impegnare i suoi sacerdoti e le sue suore in un’opera di assistenza. Il suo corpo  era da tempo debilitato dal diabete mellito, alla fine l’aveva colpito anche una paralisi che l’aveva ferito nella parola. Il   24 ottobre 1915, a 73 anni, si spegneva nella casa di Como dalla quale era partita la sua avventura spirituale e  caritativa. Il santo Luigi Guanella si definiva «un atomo perduto nello spazio», ma questo microscopico seme era destinato a generare l’evangelico albero maestoso della carità sul quale si posano gli uccelli del cielo. Parliamo delle  persone dalle disabilità più atroci e, in particolare, vorrei evocare (anche per una mia esperienza diretta) la straordinaria attenzione rivolta dai Guanelliani ai malati mentali: a Roma in una loro grande struttura ho potuto  scoprire la finezza e l’originalità del loro impegno nel seguire questo orizzonte così drammatico della sofferenza umana.

Uno dei capitoli della biografia si intitola appunto «Liberare i poveri dal manicomio» e don Guanella aveva intuito la  necessità del sostenere le famiglie in quest’opera delicata perché i disabili mentali hanno «il diritto di crescere, vivere e  morire dentro le pareti del domestico focolare».

in “Il Sole 24 Ore” del 23 ottobre 2011

 


Vangelo fede e politica: don Enzo Mazzi

La storia gira le sue pagine inesorabile e lenta. Ieri la storia di Firenze e della Chiesa italiana ne ha girata un’altra: s’è chiusa la vita terrena di don Enzo Mazzi. Uno spirito indomito e contestatario che  lo portò a più riprese ad entrare in  antagonismo con i suoi arcivescovi. Un nome che fa tutt’uno con «l’Isolotto», in una vicenda che il semplicismo  ideologico – subito o prodotto – chiamerà «dissenso».
Quello che accade attorno a un parroco (nominato nel 1954, a 27 anni) e alla sua parrocchia prima del 1968 è qualcosa  di ben più complesso ed emblematico. L’Isolotto diventa il mito di un cattolicesimo ribelle perché lì è cresciuta prima  una esperienza di comunione, un segno di fraternità popolare che testimonia della fecondità del Vangelo nel tempo.  Era questo che La Pira, inascoltato mediatore nel momento topico del conflitto voleva forse salvare, senza riuscire, in  mesi — quelli fra il ’68 e il ’69 — nei quali la prepotente vitalità della primissima ricezione del Valicano II in Italia vira. Perché anche in Italia, come in tutto il mondo, il post-Concilio rafforza l’idea che si possa e si debba anticipare il tempo  che verrà: e che dunque sia necessario trascinare nell’oggi, con la distruzione dei sistemi di potere, un domani quasi  escatologico. Ma, a differenza di altri Paesi, in Italia il post- Concilio naufraga sulla politicizzazione della fede  (politicizzata da sinistra, anziché dal collateralismo), come se solo l’organizzazione di un contropotere potesse  «inverare» la fraternità attesa.
Di questo percorso don Enzo Mazzi è un protagonista che trova nella rigidità del cardinale Florit più d’una occasione di  scontro. Dapprima insieme ad altri preti nella solidarietà con i ragazzi della Cattolica sgombrati dalla polizia dalla  cattedrale di Parma, che avevano occupato per protesta contro i doni della banca locale per le nuove chiese. Poi nel  momento in cui Florit – lo aveva già fatto per le elezioni del 1966 – lancia quell’ultimatum all’Isolotto che fa assurgere il  caso alla ribalta nazionale.
Infine, subita la condanna della rimozione comminata nel dicembre 1968 e perfino un processo penale, nel  superamento della forma parrocchiale e nella nascita della comunità di base.
Una comunità che alla fin fine — al netto di un linguaggio autocelebrativo e di un lessico politico patinato dal tempo –  ha fatto della polemica con l’autorità la propria cifra. Con don Mazzi se ne va un pezzo di quella Firenze di cui egli  interpretava un’anima più protestataria e che era stata per quindici anni il chiostro, per usare una espressione russa,  dei «folli Dio»: una Firenze che aveva saputo dare al Paese il senso che ad alcuni, governati col solo sguardo  dall’austero prestigio di Dalla Costa, premeva solo la fede. Cosette: di cui forse ci sarebbe bisogno anche oggi, se  Firenze volesse averle.

 

di Alberto Melloni
in “Corriere Fiorentino” del 23 ottobre 2011

 

ALTRI ARTICOLI

 

Continuiamo a presentare materiali su don Enzo Mazzi, con l’intervento di Giovanni Gennari, che fa una lettura forse più ecclesiastica che evangelica: “A differenza del suo grande confratello, don Milani, e di altri pionieri della fede nella chiesa fiorentina, forse don Mazzi si è lasciato strumentalizzare anche da chi con la Chiesa fiorentina non aveva e non voleva avere alcuna prossimità, e fu autore di dichiarazioni e azioni di rottura vera e propria anche in materie importanti come i sacramenti e la dottrina morale di fondo…”
“fino all’ultimo è stato punto di riferimento non solo per le prese di posizioni pubbliche che facevano rumore sui giornali (come quella a favore di papà Englaro) ma soprattutto per un’azione concreta, silenziosa e quotidiana di aiuto a chi aveva bisogno.” “Quello che appassionava molti cattolici (e li appassiona) di don Mazzi era che non faceva politica per sé, per fare carriera o per arricchirsi. O per difendere il posto di lavoro, come molti politici italiani attuali. Ma semplicemente per stare dalla parte degli ultimi. Questo dice il Vangelo. Altro che nuovo partito dei cattolici.”
“Guardando all’indietro, l’esperienza della Comunità di Base dell’Isolotto… potrà sembrare datata, legata come fu, al suo nascere, a una ben precisa temperie storica e di vita della Chiesa. Ma di sicuro le “rotture” che l’hanno contraddistinta… restano… prove sincere di un progetto di «chiesa di popolo» di cui il mondo cattolico sembra oggi avvertire di nuovo l’urgenza”
“è un saluto corale, fatto di abbracci e lacrime, di ricordi e testimonianze personali del sacerdote rimosso dalla parrocchia dell’Isolotto nel 1968 dal cardinale Florit. E diventato poi pioniere del dissenso cattolico”
“Mazzi questo rischio (quello di restare fermo alla nostalgia del ’68) l’ha corso, però credo che abbia sempre cercato di limitarne le conseguenze. Si è sempre misurato con l’attualità, la globalizzazione, con la dimensione di sacro e laicità nei nostri tempi. Sempre coerente alla sua radicalità, alla limpidezza di intenti. Una qualità che mai come in questi giorni è apprezzabile”
“«Vuoi andare in Africa? Ti mando in un posto forse più pericoloso, l’Isolotto». Così l’Arcivescovo Elia Dalla Costa rispose al giovane sacerdote Enzo Mazzi che voleva partire come missionario. Dalla Costa scelse un altro futuro per quel 27enne. Comincia così la storia del «prete eretico». Un simbolo di una generazione, quella dei preti «contro» di Firenze. Mazzi è scomparso venerdì no
“Nonostante la sua età, 84 anni passati, Enzo Mazzi conservava nel cuore tutte le caratteristiche della gioventù… Sulle nostre pagine ha tracciato un sentiero unico, spesso in assoluta solitudine. Per un cammino che veniva da lontano, dagli stessi giorni del ’68 che portarono alla nascita della Comunità dell’Isolotto a Firenze e all’esperienza in tutta Italia delle Comunità cristiane di base.”
“Come ogni domenica, anche oggi l’appuntamento della Comunità dell’Isolotto è alle 10.30… «socializzeremo l’assenza di Enzo, e la continuità della sua presenza». Nel solco di quella esperienza comunitaria che Enzo Mazzi considerava essenziale… Di cui ha fatto dono, non solo metaforico, alle donne e agli uomini della comunità… Grazie a loro, e ai tantissimi che… anno dopo anno hanno socializzato negli appuntamenti comunitari della domenica, Enzo Mazzi continuerà ad esserci”

«La buona politica per il bene comune»

 

è il tema dell’incontro di Todi delle associazioni cattolicche italiane sull’impegno politico oggi

 

In questo articolo vorremnmo dare rilievo al dibattito che si è aperto, in queste ultime settimane  Italia, sulla presenza dei cattolici nella vita politica italiana.

La rete di associazioni che coinvolge milioni di persone, ma che costituisce ancora un’entità pre-politica si incontrerà il prossimo lunedì a Todi sul tema «La buona politica per il bene comune». E’ il primo passo di quella «la straordinaria sfida» lanciata dal cardinal Bagnasco, «Non possumus nunc silere», «non possiamo ora tacere».

 

 

Il Cardinale Bagnasco a Todi
Bene comune, di terra e di cielo

“Il punto sorgivo della presenza sociale e civile dei cattolici: il primato della vita spirituale, quel guardare fermamente al volto di Cristo”, senza il quale “i cristiani sarebbero omologati alla cultura dominante e a interessi particolari”.
Lunedì 17 ottobre, a Todi, invitato dal Forum del mondo del lavoro, il card. Angelo Bagnasco – Arcivescovo di Genova e Presidente della CEI – ribadisce che “la Chiesa non cerca privilegi, né vuole intervenire in ambiti estranei alla sua missione, ma deve poter esercitare liberamente questa sua missione”. I cristiani, infatti, “sono diventati nella società civile massa critica, capace di visione e di reti virtuose, per contribuire al bene comune che è composto di “terra” e di “cielo”.
“La sensibilità e la presenza costante della Chiesa sul versante dell’etica sociale è sotto gli occhi di tutti” ha evidenziato il Cardinale Presidente, facendo riferimento “ai grandi problemi del lavoro, dell’economia, della politica, della solidarietà e della pace: problemi che oggi attanagliano pesantemente persone, famiglie e collettività, specialmente i giovani”.
“La giusta preoccupazione verso questi temi – ha aggiunto – non deve però far perdere di vista la posta in gioco che è forse meno evidente, ma che sta alla base di ogni altra sfida: una specie di metamorfosi antropologica”.
E ha spiegato: “Senza un reale rispetto di questi valori primi, che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità. Ecco perché nel “corpus” del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva”.
“Il bene – ha concluso il Presidente della CEI – è possibile solo nella verità e nella verità intera”.

file attached Relazione Todi.doc

 

 

«Per l’Italia una rotta, non un salvagente»

intervista ad Andrea Riccardi a cura di Giovanni Grasso

in “Avvenire” del 13 ottobre 2011

«Vorrei subito invitare tutti alla calma: l’appuntamento di Todi non è l’atto fondativo di nuova formazione politica. Per essere espliciti: niente cose bianche, balene, pesciolini e men che meno ambizioni leaderistiche da parte di nessuno». Lo storico Andrea Riccardi , fondatore della Comunità di Sant’Egidio (che tiene a precisare di essere tra gli «invitati e non tra gli organizzatori» del convegno tuderte) spiega: «I cattolici (o, come leggo sui giornali, il Vaticano, la Cei…) non stanno lanciando un’Opa sulla politica italiana. Questa è pura fantasia. Stanno invece cominciando a riflettere in modo approfondito su qual è la domanda che oggi rivolge il Paese e quali possono essere le risposte agli italiani».


E, dunque, qual è l’interpretazione autentica del convegno di Todi?
Non è un convegno ecclesiale né un congresso di partito. Ma un momento di concertazione e di concentrazione di intelligenze e volontà che intendono riflettere sulla crisi del Paese. Un gruppo di laici cattolici, tra l’altro provenienti da diverse esperienze, che intendono cominciare a ragionare su quale possa essere il loro contributo per la rinascita del Paese.

Eppure si continua a sospettare e a straparlare di un nascente partito della Chiesa o di Bagnasco…
L’iniziativa è stata promossa autonomamente da un gruppo di laici, che da sempre dialogano con la gerarchia, ma che sono consapevoli della loro autonoma e specifica responsabilità rispetto all’impegno politico e civile.


Le chiedo: perché muoversi proprio oggi?
Un ciclo politico si è chiuso, quello della mai nata II Repubblica. Una fase, l’età di Berlusconi, in cui il Paese ha pensato di affidare le proprie sorti a partiti o fronti capeggiati dall’uno o l’altro leader. Ora c’è da riscoprire il valore dell’impegno e della partecipazione, perché si è creato un profondo distacco tra Palazzo e Paese. Le istituzioni comunitarie del nostro Paese sono in difficoltà e  tra queste la famiglia sta sopportando un peso tremendo. Ma per promuovere la partecipazione e rilanciare l’Italia bisogna ridare idee, pensieri, sentimenti.


E quale può essere oggi il contributo dei cattolici all’Italia?
Credo che oggi l’Italia domandi ai cattolici, ma ovviamente non solo a loro, un contributo di responsabilità e pensiero. Responsabilità, di fronte alla crisi economica internazionale, nella quale si colloca il nostro Paese con gravi difficoltà. Pensiero, rispetto ai grandi cambiamenti avvenuti nella nostra società, che deve interrogarsi sul modello antropologico dell’uomo e della donna come si  è andato configurando in quella che io chiamo la ‘ triste époque’ degli ultimi dieci anni; che deve fare i conti con un futuro che non è di crescita, ma caratterizzato da tante difficoltà. E allora le  sfide che ci attendono sono quelle della difesa della vita, della riscoperta del lavoro e del sacrificio, della solidarietà tra le generazioni, con particolare attenzione ai giovani e alla terza età, vere  questioni del presente e del futuro.


I tempi, però, stringono… Il Paese ha bisogno di un rilancio immediato.

Rilanciare il Paese significa innanzitutto rilanciarlo in Europa, il che implica un pensiero europeo, che oggi difetta. Come confrontarci con l’Asia, con gli emergenti, con i Brics, se non nel quadro europeo? Altrimenti saremmo una fragile barchetta. Inoltre dovremo affrontare una stagione di sacrifici, dopo un periodo caratterizzato dallo sperpero. E tutto questo implica un pensiero. L’Italia non ha solo bisogno di salvagenti, ma soprattutto di una rotta.


E quale può essere questa rotta?
Ci troviamo in un momento delicato: all’emergenza internazionale ed economica si somma l’emergenza politica nazionale. Vedo che si parla di elezioni nel 2012. La politica ha bisogno di pensieri  lunghi, di ricreare innanzitutto cultura politica. Il grande divario è avvenuto tra politica e cultura: le culture politiche si sono spente. Una vera cultura di destra, nel nostro Paese, forse non c’è  nemmeno mai stata. Mentre quella di sinistra è in crisi da tempo. Non così la cultura dei cattolici, che in questi anni è stata alimentata e promossa.


Si parla molto oggi della necessità di una svolta. La chiedono le opposizioni, ma anche molti  sponenti della stessa maggioranza. Si parla di transizione, decantazione, unità nazionale. Lei che ne dice?
La storia recente del nostro Paese è caratterizzata da una serie di cicli che si sono interrotti drammaticamente: pensiamo alla crisi dello Stato liberale, con l’avvento del fascismo, alla fine del regime con la guerra, alla caduta nell’ignominia della Prima Repubblica. Dobbiamo dare una svolta, ma anche assicurare una transizione pensata e responsabile. Si è già rotto il ciclo dell’età del bengodi, non possiamo permetterci altri traumi.


Tra le forze politiche è polemica permanente su federalismo e su sistema elettorale. Lei che ne pensa?
L’Italia a mio parere è più municipalista che federalista. Non è tanto il Paese delle venti Regioni, quanto quello delle cento città e dei villaggi di campagna. Da qui dovremo ripartire. Quanto al sistema elettorale, credo che occorra ristabilire un rapporto autentico tra elettore e cittadino, restituendo a quest’ultimo il diritto di scelta. Per il resto non ho mai creduto al potere messianico dell’ingegneria costituzionale. Oggi il primato è ricostruire un tessuto responsabile nella vita di una società atomizzata.


C’è un’attenzione spasmodica da parte dei media e della classe politica sull’appuntamento di Todi, ci si chiede in modo quasi maniacale dove sfocerà…
Io dico questo: le reti della società sono distrutte o molto danneggiate. Nelle periferie urbane non ci sono più le sezioni di partito, rappresentanze un tempo forti si sono rattrappite, i legami  familiari e di amicizia si sono allentati. C’è molta solitudine. Restano solo le parrocchie, con le associazioni e le comunità che accolgono e promuovono. Di fronte a questo spettacolo desolato, il  mondo dei laici cattolici può rilanciare delle idee forti: famiglia, vita, solidarietà, lavoro, mondo. Mi sembrano cose importanti, più di sapere se ci sarà o meno un nuovo partito, se sarà di centro, di  destra o di sinistra. Lasciamo correre la forza disarmata e disarmante delle idee, in un mondo troppo povero di idee e di speranza.

 

 

“C’è un grave problema etico dobbiamo ridare la speranza”

intervista a Franco Miano, presidente dell’Azione Cattolica, a cura di Annalisa Cuzzocrea

in “la Repubblica” del 13 ottobre 2011

Passare dalla rassegnazione alla speranza, coniugare coscienza personale e coscienza collettiva, recuperare un terreno comune di valori, saper coniugare politica e morale. E’ il messaggio che l’Azione cattolica porta all’incontro di Todi. «E’ urgente – dice il presidente Franco Miano – bisogna insegnare ai giovani il coraggio e la responsabilità. Per ora stiamo dando solo il cattivo  esempio».


Perché è importante in questo momento un confronto tra le più diverse componenti del mondo cattolico?

«Il Paese ha bisogno di esercizi di dialogo e di impegno comune. Serve un nuovo patto educativo per rilanciare il Paese, bisogna ristabilire una base condivisa di valori per poi passare all’azione, e mettere al centro concetti come lavoro, famiglia, giustizia sociale, legalità, sviluppo del mezzogiorno».

C’è un decadimento di valori, un impoverimento dell’etica?
«C’è un grande problema etico. Come ha detto il cardinale Bagnasco nella sua prolusione, come lo stesso Papa ha ricordato a Lamezia Terme, è necessario che ciascuno – anche come credente – sappia assumersi le proprie responsabilità. Serve una cultura della serietà e del sacrificio per imparare a assumere responsabilmente la vita».

Il mondo cattolico cerca unità per pesare di più?
«Se pesare vuol dire essere una lobby, imporre un potere, prendere interessi di parte, no, non ci interessa. Ma se significa pesare per il bene comune, incidere nella realtà per renderla migliore, allora ben venga».

Ben venga l’unità dei cattolici in politica?
«Non è ancora chiaro l’obiettivo verso cui andiamo, non vedo ancora passi tali da far pensare a uno scopo simile. Vado a partecipare al seminario, e si vedrà. Quel che penso sia fondamentale, è dare speranza alle giovani generazioni».

Stiamo dando il cattivo esempio?
«Non c’è dubbio, è così. E invece bisogna insegnare il coraggio, non quello della pacca sulla spalla, ma quello che viene dalla responsabilità che come generazione di adulti siamo in grado di  esercitare fino in fondo».

 

 

“È un Paese pieno di macerie ma non rifonderemo la Dc”

intervista a Gennaro Iorio, rappresentante dei Focolari, a cura di Marco Ansaldo

in “la Repubblica” del 13 ottobre 2011

«I vescovi, ma anche noi come associazioni cattoliche, ci rendiamo tutti conto che è il momento di una riflessione comune. Ci sono risposte da dare di fronte a un Paese alle prese con macerie da un punto di vista etico, culturale e di prospettiva politica. Todi sarà una tappa importante, ma noi è già da tempo che parliamo di questi argomenti anche in altri centri». Gennaro Iorio è il  rappresentante del movimento dei Focolari.


È dunque da tempo che state affrontando questo argomento?
«È un cammino che la Chiesa e i cattolici fanno da anni. C’è una ricchezza di movimenti e di associazioni che avevano l’esigenza di confrontarsi sui valori».


Ma ora il contesto è cambiato.
«Sì, questo incontro assume una rilevanza diversa. Anche a causa della crisi economica. Ma ci è ben chiaro in ogni caso che possiamo salvare l’Italia solo stando in Europa. E a partire dalla  prolusione  che farà il cardinale Bagnasco vogliamo essere l’humus culturale che poi potrà essere raccolto da progetti nuovi o da partiti politici. Di quest’ultimo aspetto tutti parlano, la cosa però  non è all’ordine del giorno della riunione».


Il direttore dell’Avvenire, Tarquinio, ha scritto che in passato i cattolici si sono trovati ad essere più marginali stando nel centro-sinistra. Si possono già stabilire  ora delle appartenenze nello schieramento politico?
«Dopo la fine della Dc la presenza dei cattolici in politica si è un po’ diluita. E mi pare che sia nel centro destra che nel centro sinistra non ci siano stati protagonisti cattolici. Certamente  l’esperienza di Romano Prodi è stata importante. E credo che di fronte alla crisi sia necessario interrogarsi come rispondere. C’è ancora tanta strada da fare, e non tutti i cattolici ritengono che  l’unica da percorrere sia quella di un partito. Tuttavia, di fronte al berlusconismo che ha monopolizzato il Paese da vent’anni, si aprono degli spazi».


L’obiettivo può essere una rinascita della Dc?

«Io sono nato dopo il 1970. Ho pianto per la caduta del Muro di Berlino. Sono domande che forse si fanno altre persone. Ma vedo il mio Paese che affonda, e questo non mi piace».

 

 

 

“Gli ultimi 10 anni una triste époque serve un nuovo progetto per i cattolici a Todi le basi per un confronto”

intervista ad Andrea Riccardi a cura di Marco Ansaldo

in “la Repubblica” del 14 ottobre 2011

«Ci interrogheremo sul futuro dell´Italia, non sul fare un partito o no. C´è da fare un investimento sul tessuto della società, un investimento culturale. In questa fase sono importanti le idee».

Rifugge dal ruolo di “deus ex machina” dell´iniziativa. «Macchè “deus”. Intanto, manca la “machina”», risponde con spirito sottraendosi alla domanda. Ma il professor Andrea Riccardi, storico  cattolico e fondatore della Comunità di Sant´Egidio, è l´uomo su cui stanno convogliando molte delle attenzioni riguardanti il Forum delle associazioni cattoliche. Lunedì, a Todi, il convegno potrebbe fare da grembo alla nascita di un nuovo soggetto politico.


Siamo alla vigilia di una riunione che potrebbe segnare un momento importante per la politica italiana. Ma non ci sono forse troppe attese?

«È vero, si è caricato questo convegno di tante attese. Non perché non sia importante, ma perché c´è una grande domanda fra la gente e nel Paese. Domanda di idee, di prospettive e di visioni. Si tratterà però di un momento significativo, come approdo al lavoro svolto dagli attori del Forum, in particolare da Raffaele Bonanni. C´è poi il lavoro quotidiano di tanti movimenti ecclesiali  accanto alla gente. Se Todi si è caricato di attesa probabilmente è perché c´è bisogno di luoghi di speranza».

 

Sotto il profilo concreto di che cosa si discuterà?
«Insisto sull´aspetto delle idee. Idee con i piedi per terra, maturate nella realtà, nel mondo del lavoro, nel radicamento sociale, in una Chiesa ben inserita nel tessuto del Paese e che “vede” la crisi».

 

Però non c´è il rischio di trovarsi in conflitto con un´altra iniziativa che punta alla nascita di un nuovo soggetto politico, quella in embrione di Luca di Montezemolo?
«Montezemolo ha avuto il merito di porre il problema del dopo. Si tratta di cose diverse. Nel processo che porta al convegno di Todi, e che andrà oltre, c´è un pensare prossimo alla politica, ma distinto. Più che la matrice di un partito, c´è un grembo di idee, di visioni e di speranze. Un percorso che nel variegato tessuto cattolico è in atto da tempo. È un´amicizia pensante fra cattolici, ma  dialogante con i laici. Un´amicizia responsabile».

 

Non sono formule vacue?

«Queste non sono parole, né un fumo che nasconde qualcosa. La nostra società ha bisogno di pensieri lunghi e di sguardi in avanti. Perché la nostra politica si è impoverita di cultura, con un dibattito urlato che interessa la gente sempre meno».

 

Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, terrà la prolusione dei lavori. C´è chi ha scritto che questo sarà il suo partito. Non ci metterà il cappello sopra?
«Guardiamo alla prolusione di Bagnasco ai vescovi: è il suo messaggio all´Italia. Lui ha partecipato a vari convegni di riflessione. La sua presenza a Todi non mi meraviglia. Non so cosa dirà, ma non credo che su questa iniziativa voglia mettere il cappello nè la corona. Fra i suoi messaggi è rimasto ignorato quello che sottolinea la responsabilità dei laici cattolici nella vita politica. Un  passaggio da guardare con attenzione. Bagnasco non prenderà la testa delle legioni cattoliche verso la politica. Piuttosto, darà un contributo autorevole a un dialogo polifonico».

 

Dunque prima il progetto e poi la ricerca di un leader?
«Sì, condivido l´impostazione. Penso che in Italia si conoscano poco tante personalità in grado di emergere. E in un momento in cui siamo tutti dominati dalla fretta trovo estremamente positivo il fatto di prenderci il tempo per un progetto da proporre. È anche questa la novità e lo spirito di diversità che contraddistingue Todi: dialogare con i politici, ma non farsi travolgere dal botta e risposta. Poi, per la mia formazione di studioso, è l´approccio giusto».

 

Avete dei nomi, dei punti di riferimento negli attuali schieramenti?
«Parlarne sarebbe sviante. Come detto, ci troviamo all´inizio di un discorso pre-politico».

 

Todi può essere l´inizio di una risposta al dopo Berlusconi?
«Vedo che si parla di elezioni nel 2012. Gli italiani hanno bisogno di risposte alle loro tante domande. Siamo in un periodo grave, con un tessuto sociale lacerato e a rischio di tensioni conflittuali. Ci vuole una transizione verso un nuovo ciclo politico: responsabile, paziente e pensata.
Ci siamo trovati negli ultimi dieci anni in quella che chiamo la “triste epoque”. Forse in Italia una vera cultura di destra non c´è mai stata. Quella di sinistra si trova in crisi. Non è così, però, per  la cultura dei cattolici. Che in questi anni, come si vede, è sempre stata alimentata e promossa».

 

 

 

«Il Pd raccolga la sfida di una nuova politica»

intervista a Beppe Fioroni, a cura di Maria Zegarelli

in “l’Unità” del 14 ottobre 2011

Un’entità pre-politica, per ora. Una rete di associazioni che coinvolge milioni di persone.
L’appuntamento dei cattolici a Todi, in programma lunedì prossimo, «La buona politica per il bene comune», è infondo la conseguenza diretta di quel monito lanciato durante l’ultima prolusione dal cardinal Bagnasco, «Non possumus nunc silere», «non possiamo ora tacere». Per Beppe Fioroni è «un treno partito, che non si fermerà». Il punto è chi nell’attuale quadro politico sarà in grado  di coglierne «la straordinaria sfida».

 

Fioroni, lei da cattolico impegnato politicamente come guarda all’appuntamento di Todi?

«Credo che nel panorama dell’Italia di oggi Todi rappresenti un elemento di novità molto importante. In un Paese dove paure e insicurezze portano tutti a chiudersi nel proprio egoismo, con una  politica che dà l’idea di essere lo strumento con il quale i furbi realizzano i propri interessi a discapito degli altri, trovare una mobilitazione all’insegna della responsabilità penso sia il segnale  di una rivoluzione del bene. Da lì si parte non per ricostruire un partito nuovo ma per lavorare, come sale e lievito, affinché si torni al futuro con una politica nuova».

 

Ma è o no la premessa per dare vita alla cosiddetta Cosa bianca?
«Da Todi parte un messaggio che diventerà un messaggio di popolo, si calerà nei territori per chiedere una vera offerta politica diversa da quello che c’è oggi. E si lancia una sfida ai soggetti politici esistenti: chi vuole interloquire deve dimostrare di essere all’altezza».

 

E il Pd secondo lei è all’altezza, può essere l’interlocutore di questo soggetto culturale e sociale, come si definisce?
«Se i cattolici fanno questa iniziativa è perché avvertono la necessità di una politica diversa e il Pd deve rendersi conto che se ritiene quel mondo un interlocutore fondamentale, senza il quale  non si governa l’Italia, deve saper rispondere a una richiesta di proposte e iniziative politiche concrete. E i primi ad avere interesse ad avviare questo percorso devono essere i cattolici impegnati  n politica».

 

Cioè, in buona sostanza, secondo lei il Pd così come è oggi non è all’altezza?
«Il Pd e il Pdl fanno entrambi un errore sostanziale. Non hanno capito che per incrociare quel mondo bisogna essere rispettosi e la prima cosa da fare è smettere di pensare che siano un “franchising”. Il Pd non può pensare di rispondere su tre o quattro cose e dire di tacere su tutto il resto. Quello è un mondo che nella seconda Repubblica ha guardato a destra e se oggi avvia una iniziativa di interlocuzione è perché vuole un cambiamento ».

 

Il Pdl li ha delusi, il Pd non li convince. Dipende dal fatto che non è sufficiente parlare di giustizia sociale e povertà, ma bisogna dare segnali concreti anche sui temi  ticamente sensibili. È questo che pensa?
«Dico che il Pd deve cambiare approccio perché etica della vita e etica sociale hanno il medesimo fondamento. La testimonianza e l’impegno di un cattolico in politica in questo senso non deve essere considerata dal Pd come pesante libertà di coscienza, ma come una straordinaria opportunità per rappresentare la società e dire a quel mondo che può stare in questo partito. Nel campo dei diritti non può esserci la “valorialità fai da te”: sarebbe la codificazione del relativismo».

 

Che succede se il Pd non assume questo approccio? Lei se ne andrà e contribuirà a trasformare questo soggetto sociale e culturale in soggetto politico?
Se il Pd non saprà raccogliere la sfida vuol dire che decide di rivolgere la testa indietro e rinunciare a essere quello che voleva per tornare a essere ciò che è già stato. Sarebbe un grande peccato».

 

Ma lei non risponde alla domanda. È tentato di lasciare il Pd davanti a questi nuovi scenari in evoluzione?
«Io voglio che il mio partito rappresenti quel mondo, che mi dia la possibilità anche attraverso la mia azione di far sentire quel mondo rappresentato. Questo voglio».

 

Lei sostiene che il Pd rischia di tornare ad essere quello che era. E i cattolici non sono tentati di tornare ad essere quello che erano, tutti uniti nella Balena bianca  eppur del nuovo Millennio?
«Quello che può diventare questo movimento è funzione di quello che i cattolici impegnati in politica sapranno fare. Se non saranno all’altezza quel treno è comunque partito e non si fermerà».

 

Il direttore di Avvenire, Tarquinio, sostiene che i cattolici hanno avuto un ruolo marginale in politica.
«Vorrei ricordare al direttore che se la legge 40 è stata approvata, lo si deve ai popolari che l’hanno votata e sostenuta. Se le scuole paritarie e cattoliche oggi hanno molti meno fondi di quelli che  ha garantito Prodi quando era al governo è perché i cattolici di centrosinistra non sono stati affatto irrilevanti».

 

Lei è uno degli interlocutori di quel mondo. Ci aiuta a capire in che cosa consiste questa richiesta di nuova politica?
«L’iniziativa di Todi parte da alcune riflessioni su quanto la politica ha fatto durante la seconda Repubblica. Sono tre i fondamenti su cui si è retto questo impianto che oggi quel mondo ci dice di modificare profondamente. Intanto la politica ha pensato che fosse nuovo e moderno rimuovere il concetto dell’agire fondato sui valori e quindi ha scardinato identità e appartenenze. In secondo luogo ha proposto una scissione tra il desiderio e il valore, ancora a scapito di quest’ultimo. Infine ha barattato la partecipazione con l’esaltazione della comunicazione, facendo saltare il rapporto  tra l’eletto e l’elettore».

 

Come si dovrebbe ricostruire su queste macerie?
«Tornando all’idea che l’impegno in politica sia finalizzato al bene comune e non personale. Per questo il cardinale Bagnasco ha lanciato un monito ai cattolici, perché c’è bisogno di una nuova partecipazione per “pulire l’aria”, per rimettere al centro valori, etica della vita e etica sociale».

 

 

 

Campanini: cattolici spaventati dalla politica

Alberto Bobbio

Su Famiglia Cristiana 20 01 2011

«Il cattolicesimo italiano sta diventando intimistico», dice il professore, «e soffre ormai della stessa malattia che affligge la nostra società: ciascuno si fa gli affari propri».

 

 

Premette e avvisa: «La fede non può in alcun modo sostituire la conoscenza puntuale dei problemi, che è una condizione necessaria perché le decisioni assunte dalla politica siano efficaci e producano buoni risultati». Giorgio Campanini, per lunghi anni professore di Storia delle dottrine politiche all’Università di Parma e poi di Etica sociale a Lugano e di Teologia del laicato alla Pontificia Università Lateranense a Roma, ha appena compiuto 80 anni e ragiona di politica e di fede, di religioni e di Stato e del rapporto non sempre facile tra cristianesimo e potere. E riflette sull’Italia e sulla Chiesa, i suoi vescovi e i suoi laici impegnati e disimpegnati, in un travagliato momento politico per il Paese. Voce di riferimento per la comunità ecclesiale durante la stagione postconciliare, senza sconti per nessuno.

Professore, perché la conciliazione tra il cristiano e la politica è difficile?
«Per un cristiano la politica è “servizio”, ma poi deve stare attento e non fare pasticci tra l’etica del successo e l’etica della testimonianza ».

Ma lei da cosa parte?
«Dal Vangelo, perché lì dentro ci sono gli strumenti per l’analisi. Prenda la questione della competenza. Rilegga Luca, quando il Signore spiega che chi ascolta le sue parole è come un uomo che ha costruito la casa sulla roccia e quando viene la tempesta e il fiume rompe gli argini la casa sta in piedi perché era costruita bene. Insomma, per operare bene in politica non basta la buona volontà, la buona fede, come si dice, e nemmeno una personale vita di pietà».

E lo spirito di servizio, altra formula spesso abusata?
«C’è un’ipocrisia con la quale spesso il potere usa quella formula, mentre essenzialmente persegue fini di successo e di affermazione personale o di gruppo. È il tema delle distorsioni: clientelismo, favoritismi vari, uso improprio della capacità di persuasione del politico fino ad arrivare alla corruzione. Ma c’è un’altra questione da analizzare, e cioè la zona grigia che sta tra la vera e propria corruzione, cioè un reato, e l’esercizio del potere discrezionale, che non è reato ma non vuol dire che sia ammesso, se esso diventa improprio. Per un cristiano che fa politica non basta astenersi dalla corruzione, occorre anche dare un’esemplare testimonianza, per esempio stando lontani da chi – parenti, amici, finanziatori, sostenitori – sollecita un uso disinvolto del potere, aiuti, posti e via di seguito. Si chiama “rigore morale” e oggi è una sorta di chimera».

Come giudica l’attuale momento politico?
«È uno dei più tristi della storia della Repubblica, ma non è tutta colpa della politica. Una notevole responsabilità l’ha l’opinione pubblica, che ha preferito l’intrattenimento televisivo, che non chiede informazione corretta, che ha deciso di non partecipare alla vita civile. E quando sono i cattolici ad aver perso passione per la città, cioè l’amore per le cose comuni, per dirla con Giorgio La Pira, il guaio è grande. Negli ultimi trent’anni i cattolici se ne sono andati dalla politica, hanno messo nel cassetto le proprie “virtù sociali”, hanno deciso di non andare a votare».

Peccato di omissione?
«Non faccio il confessore. Osservo solo che la disinformazione va bene, che si è accettata la delega passiva, che in giro c’è una riluttanza forte a informarsi sui programmi dei partiti e le personalità dei candidati, che “tutto va bene” e chi dissente è guardato con sospetto. Domando: davvero è senza importanza che l’etica pubblica sia sparita dall’orizzonte?».

Secondo lei da quando è accaduto?
«Da Craxi in poi è iniziata una fase involutiva della politica».

Che i cattolici non sono stati in grado di contrastare…
«Esattamente. Da una parte ci si era illusi che occupando ancora il potere con la Dc si poteva salvare qualche cosa. Dall’altra, l’episcopato italiano ha creduto, venuta meno la Dc, di poter gestire direttamente il rapporto tra la Chiesa e la politica. Ma ha demotivato i laici cattolici. Se l’episcopato parla sempre, perché dovrebbero poi intervenire i laici? L’esempio più recente è la Settimana sociale di Reggio Calabria: attenzione al messaggio del Papa e alla relazione del cardinale Bagnasco e silenzio sul lavoro delle commissioni dove parlavano i laici. Qualche difetto c’è».

Senza il cardinale Ruini in questi anni sarebbe stato peggio?
«Da molti anni la Cei gestisce in prima persona il rapporto con la politica. Io credo che, invece, i vescovi dovrebbero intervenire solo in casi eccezionali. La Gaudium et spes sottolinea la responsabilità dei laici. C’è qualcosa che non va nell’applicazione del Concilio».

Cosa bisogna cambiare?
«Bisogna scovare qualche organismo ecclesiale che dia voce ai laici ed esprima l’opinione dei cattolici e non solo dei vescovi. Può essere il Comitato permanente delle Settimane sociali, ma deve essere guidato da un laico e non da un vescovo. Oppure il Forum del progetto culturale, ma vescovi e cardinali devono fare un passo indietro».

Per dire che cosa?
«Per parlare, innanzitutto. Le faccio un esempio: sui 150 anni dell’unità d’Italia non c’è alcun documento su cosa i cattolici si attendono, su cosa vogliono che sia realizzato. Hanno parlato solo vescovi e cardinali. Sulla crisi politica non è stato elaborato nulla e non basta assolutamente per essere contenti mettere in fila le prolusioni del cardinale Bagnasco alle Assemblee e ai Consigli permanenti della Cei. I laici cattolici parlano e scrivono in ordine sparso e non c’è nessuno che si preoccupi di dare loro voce unitaria».

È soltanto questione di forma o anche di contenuto?
«La passione civile latita anche dai pulpiti, dalla catechesi, dalla prassi quotidiana: è paura della politica. Il cattolicesimo italiano sta diventando intimistico e soffre della stessa malattia della società: ciascuno si fa gli affari propri».

E sui “valori non negoziabili”?
«Sull’argomento ho delle riserve. L’esistenza di Dio è un valore non negoziabile. Ma quando si dilata troppo questa categoria si cade in più di un equivoco e si impedisce alla politica di avere cittadinanza. La politica è l’arte della mediazione. Prenda la vita, pacificamente valore non negoziabile. Ma non basta l’affermazione, perché poi si tratta di capire come la si difende in un particolare momento storico, cioè come si negozia sulle scelte. Qui i cattolici possono anche dividersi tra loro, arrivando a scelte politiche diverse, senza che ciò debba creare scandalo».

L’attuale Governo su questo piano secondo lei va promosso?
«Si può dire che ha impedito qualche deriva radicale sulla questione dell’eutanasia. Ma sulle politiche a favore della famiglia il mio giudizio è pesantemente negativo. E poi ci sono problemi come la questione dell’etica privata distinta da quella pubblica, la sindrome da presidenzialismo, la subordinazione dei valori agli interessi, l’uso strumentale, a volte, dell’etica evangelica, l’apparenza a scapito della sostanza».

Molti tendono a dare la colpa a Silvio Berlusconi. Lei che ne pensa?
«Magari fosse così! Auguro a Berlusconi lunga vita da pensionato. Ma non è lui il problema. È la cultura che in questi anni è stata imposta: arrivista, erotizzata, basata sulla visibilità. Piace agli italiani, ma non dovrebbe piacere ai cattolici».

 

 

 

 

IL DIBATTITO SULLA STAMPA

IL FORUM DI TODI

 

 

I cattolici, la politica, il futuro dell’Italia
“Sembra stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che sia promettente grembo di futuro”. Così il cardinale Bagnasco accennava il 26 settembre, nella sua Prolusione, al profilarsi di una nuova stagione di presenza dei cattolici al servizio del Paese. Una necessità sempre più avvertita nel laicato cattolico; è stato questo il fondamento del Forum di Todi di lunedì 17 ottobre, al quale hanno partecipano cattolici di diversa ispirazione impegnati nella società, nella cultura, nell’economia e nell’informazione, radunati dalla consapevolezza che c’è bisogno di un nuovo slancio per far uscire l’Italia dal pantano di una crisi – etica e non solo economica – di difficile soluzione. In questo dossier raccogliamo tutta la documentazione prodotta da Avvenire sul tema.

 

“Oggi la Chiesa non sembra più accontentarsi di questi riconoscimenti formali, o anche di alcuni vantaggi che i governi assegnano alla religione prevalente nella nazione, a fronte del prezioso ruolo che essa svolge a vari livelli. Di qui la domanda ai cattolici di essere più presenti e propositivi sulla scena politica”
“Parlare di un partito dei cattolici rivela un’esigenza generale e un pericolo da scongiurare. La prima risponde al bisogno dell’intero Paese di recuperare l’accezione negletta di «bene comune»… Il pericolo è che, sull’onda dell’emergenza, si creino attese di rinnovamento fondate solo sulla buona volontà (con frustrazione collettiva in caso di insuccessi)… Il contributo dei cattolici alla rigenerazione del Paese è possibile se frutto di un’elaborazione di cultura politica…”
“Ciò che emerge è la volontà di non farsi strumentalizzare da chicchessia. I cattolici di Todi non intendono diventare solo un serbatoio di voti per le formazioni politiche esistenti: anche per questo Costalli ha avvertito che «chi si chiude nel fortino degli attuali partiti rischia di essere travolto». Libertà è reclamata infine anche nei rapporti con i vescovi.” (ndr.: la libertà non è una concessione. La si sceglie)
“lavori in corso a pieno ritmo, il cui esito finale sembra essere la costruzione di un’area clerico-moderata – lobby o partito che sia – di centro-destra, senza Berlusconi, ancorata ai «valori non negoziabili» di vita e famiglia declinati dai vescovi e ai temi cari al mondo cattolico (scuola confessionale e sussidiarietà), sul modello del Ppe”
“Le verità strettamente religiose… messe in secondo piano. In primo piano, invece, quelle che riguardano l’etica sociale. Così il cristianesimo si è assicurato un ruolo importante anche in una società secolarizzata come l’attuale…. In questo quadro di accettazione della laicità si deve intendere anche l’attuale sforzo per ridare voce ai cattolici anche in Italia.”
“quale atteggiamento può assumere il Pd di fronte a queste novità dell’arcipelago cattolico? Spesso non si hanno orecchie attente ad ascoltare e comprendere… Talvolta vi è persino una diffidenza, alimentata da radicati pregiudizi laicisti… Proprio i cattolici, che insieme ad altri hanno contribuito a scrivere la Costituzione e a tessere la rete delle istituzioni democratiche, possono essere una risorsa per chi vuole un Paese più libero e più giusto”
“Il 19 luglio scorso è stato presentato alla stampa il manifesto «La buona politica per il bene comune»… Il 17 ottobre, sui contenuti del manifesto, sarà organizzato un seminario [Todi] … All’orizzonte non c’è la prospettiva del partito dei cattolici, ma l’esigenza di ricercare laicamente nuove modalità per incidere nella formazione di nuovi equilibri delle rappresentanze con altre espressioni culturali e politiche della società italiana”
“Il segnale mediaticamente più recente e rilevante è stato l’intervento (quasi una lectio magistralis) di Ermanno Olmi in… uno spazio da grandi ascolti per un padre nobile della cultura cattolica contemporanea… In vista di Todi, la domanda è legittima: qual è lo stato di salute della cultura cattolica? I fermenti non mancano, e nemmeno le scelte di prospettiva”
“la domanda che dobbiamo porci di fronte al fermento politico che sembra attraversare il cattolicesimo italiano non è «Dc o non Dc?», ma «Gentiloni o Sturzo?». Un abisso separa la soluzione clerico-moderata gentiloniana… che vede i cattolici come supporto ad uno schieramento esistente… da quella sturziana… [in cui] dei cattolici si assumono l’onere di elaborare una mediazione politica… che riflette la loro ispirazione e che può essere condivisa da altri”
“E l’assemblea di Todi può aiutare a riempirlo? «L’incontro di lunedì non sarà politico in senso stretto… Eppure avrà a che fare con la politica»… «La crisi è profonda ed è urgente interrogarsi sul futuro del Paese. I cattolici… oggi sentono la responsabilità di essere parte di una comunità nazionale. È questa, credo, la coscienza con cui ci si incontra a Todi»”
“All’inizio dei lavori del seminario ci sarà una prolusione affidata al presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, e questa scelta non è facilmente comprensibile alla luce della necessaria laicità dell’avvenimento: sa tanto di ipoteca clericale su un incontro nel quale i protagonisti sono i laici cattolici impegnati nelle varie realtà associative.” “Il Pdl e i suoi alleati più o meno prezzolati hanno corroso l’impalcatura ideale su cui è stata costruita la Costituzione. In mezzo a tanta incertezza, chiaro è dunque il rischio che si profila: un Pdl in salsa cattolica con timbro vaticano. Una “Cosa bianca”, irrimediabilmente vecchia e ben poco attraente, rispetto alla quale i cattolici hanno un solo dovere: opporsi.”
“Lunedì, a Todi, si riunisce la carovana cattolica. Un’assemblea mai vista dal dopoguerra ad oggi. Oltre cento rappresentanti. Per la prima volta saranno insieme tutte le principali sigle dell’area bianca….”
“Dall’incontro di Todi ci si aspetta «uno spirito d’apertura al confronto e alla ricerca tra esperienze di impegno diverse… Non abbiamo risposte predefinite» scandisce il presidente dell’Azione cattolica. «Prima vi è da far maturare tra i cattolici un “nuovo sentire” che abbia al centro il bene comune… Poi si vedrà quale sarà la forma anche organizzativa più utile per far maturare un legame più stretto tra i cittadini e le istituzioni»”
“Altri ancora – mi sembra il progetto migliore – sperano nasca non un «partito» né solo una «scuola di politica», ma un luogo di studio, di libero confronto tra cristiani liberi e adulti, «un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni».”
“L’appuntamento [di Todi] sarà aperto da Bagnasco in persona con una prolusione che molti prevedono «impegnativa» sul piano delle scelte future. «Il cardinale ha accettato il nostro invito e ne siamo lietissimi. Ma l’obiettivo è sollecitare i laici a darsi da fare». Il titolo del meeting è la “La buona politica per il bene comune. I cattolici protagonisti della politica italiana»… «In un nuovo modello di sviluppo… i politici devono essere dei francescani, devono dare l’esempio»”
“«A creare questa nostra Italia, il cattolicesimo fu d’ostacolo: gli elementi cattolici che vi parteciparono furono per lo più imbevuti di semi-giansenismo e di giobertismo della cui perfetta ortodossia è lecito dubitare». Bisogna partire da questa frase di Adolfo Omodeo per capire l’ispirazione del nuovo saggio di Massimo Teodori, ‘Risorgimento laico. Gli inganni clericali sull’unità d’Italia’”
“Il pluralismo delle scelte politiche dei cattolici è una realtà consolidata ed evocarne l’unità sul piano sociale e culturale non è meno fuorviante che farlo sul piano politico.” “”Animare” è verbo impegnativo; ed è molto diverso dal verbo “contare”. «Non vogliamo essere più contati, ma contare» ha detto il rettore della cattolica Lorenzo Ornaghi a coronamento volontaristico delle sue tesi “neoguelfe”. Ma se questo è lo scopo basta un patto scritto o tacito con il potere di turno, specie quando si dichiara “compiacente”, come nel caso di Berlusconi. Con il noto seguito di amarezze. Se invece si tende ad “animare”, il percorso è più arduo”
“Nell’area ecclesiastica ha vinto alla fine la strategia tenacemente portata avanti da Casini da due anni: nessuna alleanza con Berlusconi, rimozione del premier e poi creazione di un partito moderato non confessionale”
“In zona di ‘ndrangheta, di crisi, di disperazione, Benedetto XVI sceglie l’immagine della «terra sismica», e non solo «dal punto di vista geologico» ma anche «strutturale, comportamentale e sociale»: una terra «dove… una criminalità spesso efferata ferisce il tessuto sociale, in cui si ha la continua sensazione di essere in emergenza». Di qui l’elogio alle «sorprendenti» capacità di reazione dei calabresi… E l’appello prepolitico all’impegno nella società”
“Papa Benedetto XVI torna a lanciare il suo invito, questa volta particolarmente pressante, al laicato cattolico perché «non faccia mancare il suo contributo di competenza e di responsabilità per la costruzione del bene comune». E non per interessi di parte.” (ndr.: anche della chiesa)
“La sintesi quantitativa – la ricerca non si pone l’orizzonte qualitativo-valutativo delle scelte – mostra una interessante mappa dell’Italia, sicuramente utile a operatori politici e a gerarchie ecclesiastiche per elaborare strategie e pastorali.” (ndr.: ci si può basare solo su dati numerici quantitativi?)
“l’Italia cattolica è cambiata, e molto rapidamente, negli ultimi anni. Lo dimostra con dovizia di dati e con esemplare chiarezza il libro di Roberto Cartocci che fornisce una mappa della dimensione e della distribuzione territoriale dei cattolici in Italia…” “Questa ulteriore conferma della diversità territoriale del nostro paese pone ai cattolici e alla Chiesa una doppia sfida: recuperare il nord in via di accentuata secolarizzazione, e sottrarre il sud confessionale a quell’ attaccamento alla ritualità e a quella fascinazione per gli aspetti magico-tradizionali della religione che hanno a lungo depresso l’espressione autentica della fede e lo sviluppo dei movimenti cattolici. Senza soddisfare questo duplice obiettivo un nuovo partito dei cattolici non potrà farsi troppe “illusioni”.”
“Come si fa a pensare anche solo per un attimo di costringere la cultura dei cattolici in una nicchia? E per fare cosa poi? Una Dc degli anni Duemila? Un partito confessionale o di testimonianza? Si tratterebbe di iniziative anacronistiche, germinate più dal tentativo di occupare… uno spazio politico di mero potere che dalla volontà di affermare valori e cultura cattolici”
“Il referendum – o comunque una nuova legge elettorale – può aprire una strada nuova, comune a cattolici e laici, per una democrazia con meno polemiche – anche interne al Pd – ma più trasparente e rappresentativa.”
“a me interessa di più registrare questa vivacità del risveglio dei laici credenti. Auspico però che nel fare le scelte e nel decidere gli schieramenti consultino quella bussola. Perché tutti e quattro quei punti cardinali sono decisivi per una “politica buona” e possono rivelarsi decisivi per il bene del Paese che in questa crisi sembra davvero aver perso la bussola.”

Storia di un uomo

 

Aldo Maria Valli, Storia di un uomo, Ancora, 2011, pp. 206, € 16

un «ritratto di Carlo Maria Martini» che ridà voce all’ormai anziano cardinale, reso afono dall’implacabile morbo di Parkinson.

 

 

Martini, sognare secondo il Concilio

di Enzo Bianchi

in “La Stampa” del 15 ottobre 2011

«Una memoria umile e grata»: è questo lo spirito che animò, ormai dieci anni fa, l’ultima lettera pastorale del cardinal Martini alla sua diocesi di Milano. Nell’accomiatarsi da quella chiesa cui aveva dedicato il meglio di sé durante ventidue anni di servizio pastorale, esplicitò «l’assillo quotidiano», la domanda decisiva che l’aveva accompagnato: «Ciò che sto proponendo è davvero secondo il Vangelo?». Umiltà di chi si è interrogato ogni giorno sull’essenziale del proprio ministero e gratitudine verso chi ha assecondato, accompagnato, arricchito quel lavoro quotidiano.

Ma una memoria umile e grata è anche la qualità che ha guidato Aldo Maria Valli nel raccontare la Storia di un uomo (Ancora, pp. 206, € 16: un «ritratto di Carlo Maria Martini» che ridà voce all’ormai anziano cardinale, reso afono dall’implacabile morbo di Parkinson.
Valli è uno dei giornalisti che ha seguito più da vicino il cardinal Martini durante tutti gli anni del suo ministero a Milano, ed è anche un «cattolico ambrosiano», un credente che nell’accostarsi a colui che è stato per lunghi anni il «suo» pastore, ha sempre saputo conservare un prezioso e fecondo equilibrio tra il professionista al lavoro e il credente in ricerca di una conferma alla propria fede. In questo avvincente percorso tra libri, scritti, omelie, gesti e aneddoti del cardinal Martini vi è una parola che ritorna e che il libro aiuta a cogliere nel suo significato più profondo:  «sogno».
Personalmente diffido di chi abusa di questo termine, come se la realtà che siamo chiamati a vivere e le responsabilità che dobbiamo assumere nei confronti di quanti ci sono accanto o verranno  dopo di noi dovessero essere relegate nel mondo onirico, minacciate costantemente dall’inevitabile risveglio. Ma per il cardinal Martini il «sogno» non è questo. È, invece, un altro nome della contemplazione cristiana, è, secondo le sue stesse parole, ridestare con la riflessione e l’agire concreto «quella capacità di sognare che il Concilio aveva comunicato alla nostra Chiesa e che ci procurò tanta gioia»; è quel «mondo visto con gli occhi di Dio, con gli occhi della fede, con gli occhi della preghiera» che l’arcivescovo di Milano va a contemplare da Gerusalemme una volta terminato il suo ministero episcopale.
Così si esprimeva il cardinale in un’intervista circa il suo lascito a Milano: «Spero di aver lasciato l’amore per la parola di Dio, la coscienza della sua esistenza e la certezza che questa parola ci  guida in ogni momento». Dalle pagine amorosamente curate da Aldo Maria Valli, possiamo dire che questa speranza è esaudita e che la «memoria umile e grata» di tanti credenti e non credenti si aggiunge a quella dei suoi fedeli ambrosiani e degli abitanti di quella metropoli che il cardinale ha saputo capire, servire e amare.

Cristiani perseguitati e persecutori

 

un libro in cui Franco Cardini affronta il tema del rapporto tra cristianesimo e violenza subita e inflitta (Salerno, pp. 186, €12,50).

 


Non facile il compito che si è dato Franco Cardini nel suo recente Cristiani perseguitati e persecutori (Salerno, pp. 186, €12,50): affrontare il tema del rapporto tra cristianesimo e violenza subita e inflitta non attraverso una «conta» delle vittime di persecuzioni religiose nei duemila anni di cristianesimo, né con una contrapposizione del numero di uccisi o dell’efferatezza dei crimini compiuti da parte di opposti schieramenti, ma piuttosto attraverso una ben più approfondita disamina di un nodo e un’epoca cruciali: come e perché tra il I e il VI secolo d.C. i cristiani da perseguitati diventano anche persecutori. Un lavoro accurato da storico onesto e documentato, quale è Cardini, svolto «non al fine di giudicare e tanto meno di condannare, ma, semplicemente, per comprendere».

 

Lo spunto è fornito dall’amara realtà che si è venuta affermando in questi ultimi trent’anni: la rinascita di «appelli a guerre sante», l’apparire di «nuovi carnefici e nuove vittime tali anche e magari soprattutto nel nome di Dio».
Ma l’analisi di quanto accaduto – dalle violenti persecuzioni contro i cristiani nei primi quattro secoli dell’era volgare fino all’affermarsi nei due secoli successivi di una società cristiana anche attraverso l’imposizione di «una fede di pace e d’amore con strumenti che furono … anche quelli dell’intimidazione … e della vera e propria violenza» – porta a un’amara constatazione: «le persecuzioni condotte e i massacri perpetrati nel nome della croce non sono stati né eccezioni confermanti la regola, né fatali ma casuali incidenti di percorso». Sarebbe piuttosto l’inevitabile conseguenza di una fondamentale impossibilità a vivere il Vangelo come cristianità: «il Vangelo non solo non è stato attuato nel cristianesimo, ma questo non si esaurisce affatto in quello».

 

L’equilibrio di giudizio di Cardini, docente di Storia medievale, riesce a svelenire la polemica senza tacere fatti e misfatti e fornisce chiavi di interpretazione solo apparentemente paradossali, come quando ricorda che la società cristiana che si afferma dal IV secolo in poi «è composta per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensì dei persecutori».

 

Certo, il quadro che emerge ha toni amari, ma in questa luce cupa che ferisce la «buona notizia» portata da Gesù di Nazaret assumono un significato ancor più pregnante quei discepoli di Cristo restati «costantemente fedeli alla consegna di pace affidata dal maestro tanto da rinunziare perfino a difendersi». Non si tratta di evocarli quasi a coprire o sminuire i misfatti di altri, servono invece a ricordare che vivere da cristiani non è impresa sovrumana ma umanissima, che nulla e nessuno può impedire a un discepolo di seguire fino in fondo il suo Signore e restare fedele al Vangelo.

 

È quanto due celebrazioni chiave del Giubileo del 2000 mai troppo ricordate: la giornata del perdono e la commemorazione ecumenica dei martiri del XX secolo – hanno idealmente accostato: solo quando la chiesa riconosce i peccati commessi nel nome del cristianesimo può anche gloriarsi della luminosa testimonianza di tanti suoi figli che – con semplicità e risolutezza, con fierezza e senza arroganza alcuna hanno affermato con la loro vita e la loro morte che sì, il Vangelo è vivibile fino in fondo anche quando ogni cosa attorno, perfino in ambito cristiano, sembra spingere a un
compromesso con le forze del male.

 

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 21 maggio 2011

 

 

Dal prologo:



La ricerca storica e magari le ragioni della discussione e perfino della polemica, ispirate talvolta anche da convinzioni o da propensioni anticlericali ma sostenute sovente anche dal ridimensionamento di certi eventi e dall’approfondimento di certe ricerche, ci avevano indotti a ritenere che non sempre i “martiri della fede” fossero stati tanto frequenti e numerosi quanto in passato era stato sostenuto. Gli eventi dell’ultimo trentennio circa hanno presentato invece l’allarmante ritorno di un incubo che credevamo dissolto: nuovi appelli a “guerre sante”, nuovi carnefici e nuove vittime tali anche e magari soprattutto nel nome di Dio. Come dice Pascal, sembra proprio che l’uomo non sia mai tanto capace di fare del male come quando lo commette nel nome di una fede religiosa: una sentenza che mantiene la sua verità anche da quando, cioè dal tardo Settecento in poi, sono sorte le “religioni laiche”.

Vero è altresí che, a partire dall’ultimo quarto circa del XX secolo, abbiamo assistito a una sorta di “ritorno selvaggio di Dio” e a un riaffermarsi di nuove forme di “guerra santa”. Da molti ambienti dell’immenso mondo musulmano alle regioni induiste del subcontinente indiano alla Cina, all’Africa, all’America latina, molti religiosi e anche semplici credenti laici sono stati uccisi: e, sempre piú spesso, si è trattato non solo di cristiani vittime della violenza, ma di vittime della violenza tali proprio in quanto cristiani. In effetti – a parte casi molto particolari e specifici, per esempio in Irlanda o in Libano o in Rwanda – in linea di massima i cristiani hanno rivestito il ruolo, nelle tristi effemeridi degli ultimi anni, mai di carnefici e persecutori bensí sempre di vittime e perseguitati. (…)

Ma, al di là delle forzature e delle vere e proprie calunnie, secondo le idées reçues che al riguardo circolano ordinariamente, episodi come i massacri dei sassoni pagani in età carolingia, le violenze compiute durante le crociate in Terrasanta o la Reconquista iberica, la repressione inquisitoriale, la liquidazione del catarismo nella Linguadoca duecentesca, le campagne dei Cavalieri Teutonici nel Nordest europeo, le stragi di native Americans che accompagnarono la conquista spagnola e portoghese dell’America centrale e meridionale o quella francese, inglese e olandese di quella settentrionale e infine la Riforma e le “guerre di religione” cinque-seicentesche con relative mattanze di “eretici”, cacce alle streghe e “Notti di San Bartolomeo”, altro non furono se non eccezioni confermanti una regola di pietà e di misericordia: incidenti di percorso d’una fede d’amore che di quando in quando ha tuttavia potuto venir meno a se stessa (e ciò varrebbe soprattutto per la Chiesa cattolica) e i cui fedeli hanno agito in contraddizione con la natura della loro religione e con le loro stesse convinzioni. (…)

Le pagine che seguono non intendono affatto costituire un j’accuse non diciamo contro il cristianesimo in quanto tale, ma neppure contro le società che nei secoli si sono dette cristiane o contro le Chiese e le confessioni cristiane storiche. Non si proporranno dunque piú o meno grandguignoleschi cataloghi di errori e di orrori, non si allineeranno argomenti “scandalosi” e recriminatorii, non si procederà ad alcuna macabra e ripugnante computisteria funebre. Ci si limiterà a richiamare i caratteri fondamentali delle persecuzioni delle quali i cristiani furono vittime tra I e IV secolo per mostrare come, nei due secoli successivi, la società divenuta a sua volta cristiana – e composta, non dimentichiamolo, per la stragrande maggioranza di figli e di nipoti non già dei perseguitati, bensí dei persecutori – si sia affermata a sua volta proponendo, ma anche imponendo, una fede di pace e d’amore con strumenti che furono non certo soltanto, ma tuttavia anche quelli dell’intimidazione, della costrizione legale, della seduzione e perfino della corruzione morale, della legislazione restrittiva o addirittura inibitrice della libertà di coscienza, dell’esibizione della forza militare e della vera e propria violenza. Ne sarebbe derivata una storia lunga secoli, che dall’alto Medioevo all’età coloniale andò di pari passo con l’impegno missionario: senza nulla togliere, beninteso, ai meriti di tanti missionari che anche in tempi recenti e recentissimi si sono sacrificati per amore dei poveri e degli ultimi.

Quel che intendiamo qui ricordare è che, all’origine delle pagine piú nere e sconcertanti non già del cristianesimo – che a sua volta non consiste tuttavia semplicemente ed esclusivamente nel rispetto dei valori evangelici –, ma della storia della società cristiana e delle Chiese storiche, non stanno momentanee fasi di obnubilamento bensí lo sviluppo e la conseguenza di premesse intrinseche non ai loro princípi, ma senza dubbio alla loro natura e alla dinamica secondo la quale esse si sono affermate nel mondo.

don Michele Do: “qui è nato un uomo”

don Michele Do

 

 

 

«Quando in un branco un compagno dà una zampata,

l’immediato istinto dell’animale è la ritorsione.

La prima volta che un animale trattiene la zampata,

avverte l’orrore del sangue e non reagisce alla violenza:

qui è nato un uomo».

 

Di lui mi avevano spesso parlato amici comuni, ma anche laici e sacerdoti che accorrevano lassù nel paesino della Val d’Aosta ove aveva trascorso la maggior parte della sua vita, nella purezza assoluta della natura e della sua meditazione e testimonianza. Sto parlando di don Michele Do (1918-2005) e oggi lo rievoco attraverso queste sue righe che vogliono rappresentare simbolicamente quando si compie la vera ominizzazione.

Noi passiamo dallo stato bestiale a quello umano nel momento in cui il nostro pugno lascia cadere a terra il sasso di Caino o la spada della vendetta o la zampata dell’assalto, e proviamo nausea e orrore della violenza.
Questo è, certo, il primo grande passo verso la nascita dell’uomo, ossia la scoperta del perdono e dell’amore. Ma don Michele va oltre e continua così, prospettando un’altra tappa fondamentale:

 

«Quando uno degli animali che procede nel branco,

alza gli occhi e vede le stelle,

quando ne avverte per la prima volta lo stupore, la meraviglia, il mistero,

quando – come dice Fogazzaro – sente su di sé, sul proprio cuore,

il peso delle stelle: qui è nato l’uomo».

 

La nostra realtà è, infatti, bidimensionale. Noi non guardiamo solo orizzontalmente, incontrando con gli occhi le altre
creature; noi abbiamo un altro sguardo che sale verticalmente, verso l’infinito e il Creatore. È questa l’estrema avventura dell’uomo e della donna, affacciarsi sulle immensità del mistero e cercare di raggiungerle. Siamo un microcosmo che può contenere il cosmo e persino l’infinito, come suggeriva Pascal.

 

di Gianfranco Ravasi
in “Avvenire” del 19 maggio 2011

 

 

 

Don Michele Do
di Carlo Carozzo
in “Il Gallo” del maggio 2011

 

Fra le persone che hanno influito sulla mia formazione spirituale di adulto c’è sicuramente Michele Do, un prete che aveva scelto di vivere in montagna a St. Jacques, un paesino della Valle D’Aosta per ripensare nel silenzio e nella solitudine la sua formazione appassionandosi alla lettura, tra l’altro, dei teologi francesi e di alcuni autori del modernismo. Dopo non molto tempo la sua solitudine prese a essere molto frequentata da cristiani in ricerca e da studiosi di spicco come padre Turoldo e Panikkar che salivano fino alla rettoria per scambiare con lui e attingere alla sua sapienza.

 

Uomo dell’amicizia

Personalmente lo conobbi al Gallo verso il 1964 quando, come ogni anno, passava a salutare e conversare con la

nostra Katy Canevaro. Era l’uomo dell’amicizia considerata da lui «sacramento dell’amore di Dio», fedelissimo agli amici che trovavano sempre in lui accoglienza, comprensione delle loro traversie e dei loro dubbi. Dal 1979 ogni anno salivamo in gruppo da lui come discepoli a un discepolo perché, come diceva lui, non c’è altro maestro oltre Gesù. Noi ci attendevamo che ci parlasse di Dio, come poi accadeva, ma prima ci spiazzava con domande rivolte a noi per stimolare la nostra responsabilità e partecipazione alla conversazione.
Non amava scrivere se non qualche lettera agli amici, era l’uomo della parola appassionata, lucida, serena, mentre la voce si incrinava talvolta quando parlava del mistero del male, suo grande tormento.
Ci voleva allora la pazienza e l’amore di due suoi grandi amici, Piero Racca e Silvana Molina, per sbobinare, ordinare e raccogliere in un libro dal titolo Per un’immagine creativa del cristianesimo le sue relazioni in gruppi, omelie, appunti con lunghe prefazioni di Piero e Silvana, un intervento di Giancarlo Bruni e preziose note di Clara Gennaro. Don Michele aveva affrontato e lungamente macinato i grandi interrogativi dell’esistenza, il male, Dio, il senso della vita, l’uomo che considerava abitato da una legge profonda, «una legge ascensionale, di ascensione in ascensione» (p. 157).

 

Un cammino e una fatica che
non possono essere annullati né abbreviati, neppure da Dio. La pienezza divina, l’interiorizzazione di Dio, il diventare uno con Dio, è come il pane che deve essere guadagnato con il sudore della nostra fronte. Leonardo diceva: «Dio cede tutti i suoi beni a prezzo di fatica e il sommo bene, che è Dio, a prezzo di somma fatica». Non si salta a piedi giunti nel regno di Dio e neanche a colpi di miracoli e di sacramenti, neanche con quello del battesimo (p. 224).

La meta, che è diventare, come in Gesú, «uno con Dio» è dunque senza fine, giorno per giorno, età per età, una fatica sfibrante, si potrebbe dire, ma non è cosí perché Dio attrae nell’intimo e ci dona la forza dello Spirito senza di cui si rimane immobili, ripetitivi, vecchi anche a vent’anni. Questo perché Dio, è Dio, l’inesauribile:

Siccome Dio è l’inesauribile, l’uomo non esaurirà mai il suo cammino ascensionale verso la pienezza. Un traguardo appena raggiunto diventa inizio per un nuovo cammino. Questa è la visione cristiana della vita. Dio è nel cuore dell’uomo, è immanente, ma anche trascendente. Gesú ci dice: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli». L’uomo è, dunque, una realtà che deve essere continuamente trascesa e superata. È una gioiosa trascendenza che fa ascendere, trasfigura e veste l’uomo di grazia e di verità fino al suo compimento, quando Dio sarà tutto in tutte le cose e quindi Dio sarà tutto in tutto l’uomo (pp. 155-156).

 

Due letture del cristianesimo

C’è da un lato la lettura tradizionale. La creazione, e quindi l’uomo, nascono perfetti, poi subentra il peccato di Adamo ed è lí la sorgente del male che intacca la natura e l’uomo in profondità al punto che occorrerà il sacrificio espiatorio di Gesú in cui il Verbo si è incarnato, per placare la collera del Padre, è la Redenzione; in questa logica Cristo fonda la chiesa la quale applica a tutti noi con i sacramenti, in particolare con il battesimo, i meriti, la salvezza e la giustificazione ottenuti da Cristo sulla croce. Ma c’è tuttavia anche una seconda lettura:

Dio non crea il mondo e l’uomo nella sua divina pienezza, lo crea come il fiore del campo che nasce dalla povertà originaria della zolla (…) All’inizio del Genesi si dice: «Dio creò il cielo e la terra, ma la terra era vacua, informe, tenebrosa» (Gn 1, 2). In questa lettura non c’è un peccato originale ed originario, c’è una povertà originaria.
E su questa terra povera, vacua, informe e tenebrosa aleggia lo Spirito. E, a mano a mano che la terra si apre e lo Spirito la penetra e la intride, lí incomincia il cammino ascensionale: dal caos originario, alla bellezza e al miracolo del cosmo
(pp. 219-220).

 

Purtroppo nella sua vicenda storica, senza escludere l’oggi, nella pratica e nella riflessione cristiana ha prevalso il giuridismo stretto alleato del moralismo che non solo hanno impoverito il mistero cristiano, ma anche, se non soprattutto, lo hanno alterato facendo di Dio un grande Faraone dispotico e dell’uomo una creatura infima, pressoché impotente e tenebrosa:

Ricordate il prologo di Giovanni: «E la luce venne e le tenebre non l’hanno accolta … ma a coloro che l’hanno accolta, ha dato il potere di diventare figli di Dio». Ecco il miracolo: compiere questo cammino ed essendo figli di Dio poter fare cose che Dio solo sa fare; questo è il potere che ci è stato dato, non il potere che noi abbiamo impoverito interpretandolo carnalmente. Perdonare i nemici, trasfigurare il dolore, immedesimarsi nel prossimo, queste sono cose divine: qui c’è, infatti, un salto oltre il biologico, oltre l’umano (p. 220).

L’essenziale della fede non è soltanto rispettare la morale nei comportamenti, ma prima di tutto lasciarsi guidare dallo Spirito per giungere a «interiorizzare Dio e fare le cose di Dio: questa è la salvezza» (p. 220), siamo quindi lontanissimi, a tutt’altro livello da quello etico e giuridistico!
L’azione liberatrice della creatura costitutivamente imperfetta è quindi una realtà molto profonda perché essa

è qualcosa in via di creazione, in divenire; è, direi, una realtà in cammino, siamo tutti in itinere, siamo degli itineranti, non dei passanti. Nella visione nichilista, invece, noi siamo dei passanti; veniamo da un nulla e torniamo nel nulla, fuochi fatui nella notte, momenti effimeri dell’effimero, siamo pura inconsistenza. Nella visione religiosa cristiana, veniamo, sí, dal nulla, ma siamo pellegrini verso una patria e verso una pienezza. Homo viator, spe herectus, noi siamo ontologicamente tensione verso Dio, in cammino verso Dio. (…)

Il vero grande esodo, è l’esodo dal nulla alla divina pienezza, e, in fondo, alla radice di ogni religiosità, c’è la grande preghiera indú: «guidami, luce benigna, dall’irreale (dal nulla originario) al reale, dalla tenebra alla luce» (pp. 222-223).
Questi itineranti che noi siamo camminano guidati dallo Spirito verso una divina pienezza, una ascesa che non è indolore, né facile, incontra difficoltà, tentazioni, e conosce anche la croce, nessuno può essere sottratto alla  condizione umana, tanto meno i seguaci di un Crocifisso:

Questo cammino ascensionale dal vacuum, dal caos che è in noi si compie nella lotta, nella fatica, nel dolore e nel travaglio. (…) Non c’è strada di circonvallazione che possa evitare la strada che porta al calvario. Il caos, l’inanis, il
vacuum è legge strutturale (pp. 224-226).

A differenza del Dio di Gesú annunciato forse per secoli, questa immagine delineata, annunciata, vissuta da don Michele non desta paura, ma suscita gioia e una grande serenità, quella che egli ha sperimentato durante una gravissima crisi cardiaca nella quale aveva rischiato di morire:

Il volto di Dio, infatti, è infinitamente piú grande e del cuore e del sogno dell’uomo, ma non contro, né il mio cuore, né il mio sogno. Per questa immagine di Dio allora, amici, lietamente do la vita. Cerco in questa direzione. Cerco perché, in fondo, è una ricerca: non ho soluzioni. Di cominciamento in cominciamento, di ripresa in ripresa, di cominciamenti e riprese senza fine (p. 232).

 

Il male e Dio


Nell’età della cristianità durata per secoli la presenza di Dio era quasi un’evidenza, la società e la cultura erano come impastate con le religioni che in qualche modo spiegavano pressoché tutto. Pure per il Dio di Gesú è stato abbastanza cosí, anche se non solo per il popolo, la sua immagine era spesso perversa, era il Dio che premiava i buoni (non sempre però!) e castigava i cattivi, addirittura la peste veniva da Lui. Oggi nel nostro mondo secolarizzato per lo piú non è cosí. Tutt’altro! Oggi si cercano spiegazioni immanenti per tutto, talvolta pure per i miracoli, riconosciuti dalla chiesa dopo
un lungo processo di ricerca, molti pensano che non esistono perché è quello che la scienza non ha ancora spiegato, ma lo farà in futuro. Quindi credere è diventato molto piú difficile, e in particolare per la presenza del male non sempre spiegabile con le negatività dell’uomo e della natura. Il male, infatti, è l’opposto di Dio, se per troppa buona sorte non esistesse

Dio rientrerebbe nel novero di quelle verità che non si rifiutano se non per difetto di intelletto (…) Ma il male c’è, il male esiste. Ed è l’ostacolo: ostacolo non solo che nasconde o muro che impedisce, ma scandalo che piú radicalmente dice non Dio, dice negazione di Dio. Il male non è solo il silenzio, è assenza di Dio (p. 198).

Talvolta pensiamo che per i santi non sia cosí perché hanno uno sguardo piú profondo e, soprattutto, piú libero e fiducioso in Dio. Eppure santa Teresina di Lisieux, oggi dichiarata dal magistero dottore della chiesa, parlava di un buco nero in cui non si vede piú niente ed era il luogo dove lei stava con il corpo e con lo spirito. E inoltre diceva: «Quando io canto la bellezza, la pienezza e la gioia del regno, voi pensate che il velo per me si sia squarciato; ma non è un velo, è un muro che dalla terra si alza fino al cielo. Io canto quello in cui voglio credere» (p. 206).
La constatazione della presenza del male e dei disastri che provoca è dunque una potenza negativa cosí forte e intensa da non sfuggire a una santa dottore della chiesa. Non è incomprensibile perché le devastazioni che produce hanno interrogato l’uomo di tutti i tempi e ogni cultura ha cercato di rispondere all’unde malum di Agostino elaborando le ipotesi e talora anche le spiegazioni piú diverse. Quella cristiana è stata per secoli ed è tuttora, tranne eccezioni di qualche teologo, il peccato di Adamo che ha prodotto una caduta ontologica della creazione a cominciare dall’essere
umano. Don Michele definisce «follia» (p. 231) questa spiegazione se anche salva l’innocenza di Dio. Da dove dunque il male? Ecco che cosa scrive:


La radice del male originario non è una radice morale, il peccato dell’uomo o il peccato di Dio, ma una radice metafisica. La creazione non è segnata dalla colpa né dell’uomo né di Dio; è segnata ontologicamente dal suo nulla originario. Questa, mi pare, è la radice del male che è nella creazione e che è presente anche nell’uomo» (p. 222).

Al punto che
la vita è ancora, per tanta parte, vacua, inanis et tenebrosa. Simone Weil vede una «dura legge della necessità», che domina, nella vita domina la negatività, e dunque il non-Dio. Ma siamo in cammino (p. 225).

Appunto, questa è la risorsa per non cadere nel nichilismo e attingere la speranza:
…Occorre salire. L’ascensione è legge fondamentale dell’essere, costitutiva dell’essere: salendo conosco, salendo capisco, ma se non salgo non capisco e non conosco, (…) ma questo cammino, amici, è fatica nostra, è conquista nostra, certo in sinergia con la luce» (p. 226).

Dunque salire. È la «legge ascensionale» di cui tante volte ci ha parlato don Michele. Una legge di vita. Una legge di speranza. Nessun automatismo. È una conquista e, insieme, da lasciar essere in noi. Scavando con intelligenza e cautela per scartare tutto ciò che in noi la impaccia. E allora si sprigiona la vita.

 

Vita  Pastorale n. 2 febbraio 2009 - Home Page

In ricordo del grande sacerdote proveniente dalla diocesi di Alba e vissuto in Valle d’Aosta, è statopubblicato il volume Per un’immagine creativa del cristianesimo, curato dai suoi amici.

 

Shahabz Bhatti: il testamento spirituale di un martire

Una lezione di santità

“Fino all’ultimo respiro continuerò a servire Gesù

e questa povera, sofferente umanità”.

 

Lo scorso 2 marzo è stato ucciso, da terroristi islamici, Shahbaz Bhatti,  perché “cristiano, infedele e bestemmiatore”. Era il ministro delle minoranze religiose.

Un mese dopo, al termine dell’udienza generale di mercoledì 6 aprile, Benedetto XVI ha ricevuto suo fratello, Paul Bhatti, medico, per molti anni in Italia, rientrato in patria proprio per proseguire la sua missione e nominato consigliere speciale del primo ministro del Pakistan per le minoranze religiose.

Con Paul ha incontrato il papa anche il grande imam di Lahore, Khabior Azad, amico personale di Shahbaz.

La Bibbia che Shahbaz aveva sempre con sé è ora a Roma nel memoriale dei martiri dell’ultimo secolo, nella basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina.

In Pakistan, su una popolazione di 185 milioni di abitanti, i cristiani sono il 2 per cento, un milione dei quali sono cattolici. Ma anche tra i musulmani vi sono delle minoranze in pericolo: sciiti, sufi, ismailiti, ahmadi.

La legge contro la bestemmia è un’arma impugnata contro le minoranze. Fu introdotta dagli inglesi nel 1927 e mantenuta in vigore nel 1947, dopo l’indipendenza e la separazione del Pakistan dall’India. Per trent’anni non fu applicata. Ma a partire dal 1977, dopo il colpo di stato militare di Zia-ul-Haq, in Pakistan l’islamizzazione è andata crescendo e alla legge contro la bestemmia – rimessa in auge con aggravanti – si sono aggiunte altre norme basate sulla sharia. Ad esempio, occorrono quattro testimoni perché sia provata la violenza sessuale su una donna, che altrimenti è considerata adultera. Oppure, altro esempio, un musulmano che violenta una cristiana, ma poi la obbliga a sposarlo e a convertirsi all’islam, non è più perseguibile per stupro.

Per chi bestemmia Maometto è stata introdotta la pena di morte, e per la profanazione del Corano l’ergastolo. La commissione Giustizia e Pace dei vescovi cattolici del Pakistan ha calcolato che dal 1987 al 2009 sono state 1032 le persone ingiustamente colpite dalla legge contro la bestemmia.

Una di queste è Asia Bibi, una cattolica di 45 anni madre di cinque figli, condannata all’impiccagione nel novembre 2010 e in attesa della sentenza di appello. Fu accusata da altre donne del suo villaggio che erano al lavoro con lei nei campi, tra le quali era scoppiata una lite per l’utilizzo dell’acqua. Anche se venisse assolta o graziata, Asia non si sentirebbe al sicuro, perché vari esponenti musulmani l’hanno minacciata comunque di morte.

Un nuovo caso definito dai vescovi pakistani “di abuso della legge contro la bestemmia per vendette personali” ha colpito nei giorni scorsi un altro cristiano, Arif Masih, nel villaggio di Chak Jhumra.

Una giornata di preghiera per Asia Bibi, Arif Masih e tutte le altre persone arrestate per la medesima accusa sarà celebrata il 20 aprile, mercoledì santo, in Pakistan e in altri paesi. A Roma, nella cappella del parlamento italiano, il cardinale Jean-Louis Tauran celebrerà una messa, che sarà anche in memoria di Shahbaz Bhatti.

Le denunce di bestemmia si fondano sulla parola dell’accusatore, che non può però riferire i contenuti precisi dell’offesa per non essere imputato del medesimo delitto. I giudici temono a loro volta di essere uccisi, come talora è già avvenuto, se assolvono un imputato. Quindi tendono spesso a ritardare la sentenza, senza però concedere la libertà su cauzione. Inoltre, come regola generale, un non islamico, in tribunale, deve avere avvocato e giudice dei musulmani.

Su ciò che la sua uccisione ha significato in Pakistan e nel mondo intero, uno degli articoli più informati e allarmati è senz’altro quello uscito su “La Civiltà Cattolica” con la data del 2 aprile 2011.

 

 

 

 

 

L’ASSASSINIO DI SHAHBAZ BHATTI

di Luciano Larivera S.I.

 



[…] C’è uno stato, il Pakistan, il cui arsenale atomico continua a crescere. Ma la cui stabilità politica è minacciata ogni giorno, e in modo sistematico, da violenza e odio etnico e religioso. Il suo tragico esempio è l’avvertimento, per altri paesi islamici, di come il virus dell’intolleranza religiosa possa andare fuori controllo e condurre progressivamente una democrazia al collasso. […] Per questo non si può dimenticare un eroico e generoso politico pakistano, Shahbaz Bhatti. Un cristiano mite e serio.

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“Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio e nella crocifissione di Gesù. Fu il suo amore che mi indusse a offrire il mio servizio alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo soltanto tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

“Mi è stato chiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solamente un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino di me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considero un privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia.

“Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, di amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: la gente non odierà, non ucciderà nel nome della religione, ma si ameranno gli uni gli altri, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.

“Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù e io potrò guardarlo senza provare vergogna”.

È il testamento spirituale di Shahbaz Bhatti, ministro federale delle minoranze religiose del Pakistan, nato il 9 settembre 1968 e assassinato lo scorso 2 marzo da un commando estremista nella capitale Islamabad. Era membro del principale partito di governo, il PPP, Partito Pakistano del Popolo. Poche settimane prima aveva chiesto: “Pregate per me. Sono un uomo che ha bruciato le sue navi alle sue spalle: non posso e non voglio tornare indietro in questo impegno. Combatterò l’estremismo e mi batterò a difesa dei cristiani fino alla morte”. Bhatti abitava con la madre e altri familiari. Aveva deciso di non sposarsi per consacrarsi alla sua missione. Non aveva scelto il sacerdozio “perché voleva stare in mezzo alla gente, a contatto diretto con le persone e le loro difficoltà, cosa che spesso i sacerdoti non riescono a fare nel suo paese”.

Il 2 marzo il ministro si trovava con l’autista e una nipote nell’auto di servizio, non blindata nonostante le richieste. Il commando terrorista ha strappato Bhatti fuori dalla vettura e lo ha massacrato con 30 colpi di arma da fuoco. L’assassinio è da attribuire ai talebani pakistani del Punjab. Hanno agito indisturbati e hanno lasciato sul luogo del delitto alcuni volantini firmati Tehrik-e-Taliban-Punjab. Il ministro non aveva voluto la scorta, memore che il suo amico e collega di partito Salmaan Taseer, governatore del Punjab e musulmano, era stato ucciso proprio da un membro della sua scorta, senza che gli altri uomini a sua protezione intervenissero. Era avvenuto due mesi prima, il 4 gennaio. E il suo assassino è stato trasformato in eroe, con una gara tra avvocati per difenderlo gratis.

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Taseer e Bhatti perseguivano l’ideale di Muhammad Ali Jinnah, padre fondatore del Pakistan, di un paese dove, rispetto ai musulmani sunniti, le minoranze religiose (sciiti, musulmani sufi, ismailiti, ahmadi, cristiani, sikh, indù, zoroastriani, bahai…) godano di uguali diritti. Entrambi sono stati “puniti” per aver lottato per l’abolizione o almeno la riforma della legge sulla blasfemia, la radice dei problemi dei cristiani pakistani. Voci estremiste chiedono che venga considerata blasfemia qualsiasi richiesta di modificare la “legge nera”. Tale legge sembra intoccabile. E se ne fa un uso strumentale, soprattutto nel più popoloso Punjab, per dirimere controversie personali anche tra musulmani. C’è l’impunità per chi la fa applicare in forme extragiudiziali. Ma come ha osservato di recente il direttore della sala stampa vaticana, p. Federico Lombardi, questa legge “in sé è veramente blasfema, perché in nome di Dio è causa di ingiustizia e morte”. […] Bhatti voleva tenere in vita la commissione per la revisione della legge sulla blasfemia, voluta dal presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, e presente nel suo programma elettorale per il voto del 6 novembre 2008.

Un’ulteriore colpa del governatore musulmano e del ministro cattolico è di aver chiesto la liberazione di Asia Bibi, una cattolica di 45 anni madre di cinque figli, condannata all’impiccagione nel novembre 2010 per avere offeso il Profeta Maometto, ma in attesa della sentenza di appello. Bhatti non alimentava clamore mediatico sulla vicenda di Asia Bibi, per non rinfocolare la reazione fondamentalista. E, in generale, i cattolici si dissociano dalle iniziative che tendono a innescare un conflitto con le istituzioni pakistane. Ciò nonostante, in occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, la Chiesa cattolica pakistana e i cristiani indiani hanno lanciato l’ennesimo appello per la liberazione di Asia Bibi, che rischia di essere uccisa in carcere. Inoltre hanno affermato che questa donna simboleggia tutte le altre, dietro le sbarre o in apparente libertà, oppresse da disparità, intolleranza e violenza a causa del sesso o della fede professata.

Dopo i funerali di stato nella capitale, il “martire” Bhatti è stato sepolto, alla presenza di 10.000 persone di ogni credo, a Khushpur nei pressi di Faisalabad, in Punjab. In questo villaggio cattolico fondato dai domenicani, il ministro passò la sua fanciullezza. Con l’ultimo rimpasto di governo, il premier Yousaf Raza Gilani del PPP aveva confermato l’incarico a Bhatti, viste anche le insistenze occidentali, nonostante il taglio dei ministri da 60 a 22 per contenere la spesa pubblica, e le pressioni dei partiti islamici di coalizione per eliminare quel dicastero. Bhatti era, inoltre, il solo non musulmano nel governo federale del Pakistan.

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Benedetto XVI, lo scorso settembre, lo aveva incontrato nella sua qualità di ministro; e, nel discorso al corpo diplomatico del 10 gennaio, il pontefice aveva menzionato la legge contro la blasfemia in Pakistan, incoraggiando “di nuovo le autorità di quel paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla”. Inoltre aveva reso omaggio al sacrificio coraggioso del governatore Taseer. Ma una parte dei pakistani non intende ascoltare le parole del papa. In particolare, i partiti religiosi considerano gli interventi di Benedetto XVI un’ingerenza nella politica interna. I fondamentalisti controllano la mente dei loro seguaci, fomentando odio e violenza. Eppure i cristiani hanno buoni rapporti con la maggioranza dei musulmani. Dopo l’Angelus dello scorso 6 marzo, il papa ha rivolto questo appello e ulteriori gesti per confortare i cattolici pakistani traumatizzati dall’omicidio: “Chiedo al Signore Gesù che il commovente sacrificio della vita del ministro pakistano Shahbaz Bhatti svegli nelle coscienze il coraggio e l’impegno a tutelare la libertà religiosa di tutti gli uomini e, in tal modo, a promuovere la loro uguale dignità”.

La gigantografia di Bhatti dal 5 marzo è esposta sulla facciata del ministero degli esteri italiano, per non dimenticare l’uomo e per affermare l’impegno della diplomazia italiana a difesa della libertà religiosa nel mondo. Il ministro degli esteri Franco Frattini, intervistato da “Avvenire” il 3 marzo, ha riferito una confidenza avuta da Bhatti, nel suo modesto ufficio di Islamabad lo scorso novembre: “Mi disse che i suoi avversari stavano cercando di togliere i fondi al ministero per le minoranze religiose, un modo per ridurlo all’insignificanza e, quindi, alla chiusura. E mi disse di aiutarlo a far conoscere il suo lavoro nella comunità internazionale, perché soltanto così avrebbe potuto salvare il suo ministero”. Frattini ha poi aggiunto: “Adesso i codardi di quell’Europa che rifugge dalla condanna del fondamentalismo religioso verseranno le loro lacrime di coccodrillo, alleati di quei codardi che in Pakistan conoscono solamente il sangue degli attentati […]. Penso a coloro che in Europa sono molto attenti al ‘politically correct’, fino al punto di non utilizzare mai, nei documenti ufficiali, le parole ‘cristiani perseguitati’. La ritengo una codardia politica che oggi, di fronte a un nuovo martire, è ancor più scandalosa”. […]

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Davanti a questo crimine terroristico, i vescovi pakistani hanno subito dichiarato e confermato che “si tratta di un perfetto, tragico esempio dell’insostenibile clima di intolleranza che viviamo in Pakistan. Chiediamo al governo, alle istituzioni, a tutto il paese, di riconoscere e affrontare con decisione tale questione perché si ponga fine a questo stato di cose in cui la violenza trionfa”. Essi hanno anche inviato la richiesta alla Santa Sede perché Bhatti sia proclamato martire, ucciso “in odium fidei”. Lo stesso imam della moschea Badshahi a Lahore, Khabior Mohammad Azad, sconvolto per la morte del suo “buon amico” Bhatti, ha denunciato che “la gente non ha più il diritto di esprimere le proprie opinioni” e che “quanti hanno rivendicato l’assassinio non sono musulmani, né esseri umani”, perché “l’islam è una religione di pace, che insegna a rispettare le minoranze”.

Purtroppo gli omicidi motivati dalla religione sono perorati pubblicamente da estremisti islamici come atti che fanno piacere ad Allah e che garantiscono l’immediata salvezza. Ma lo stato pakistano non riesce a prevenire e a sanzionare la violenza contro le minoranze. Anzi, l’odio religioso è alimentato addirittura nelle scuole pubbliche pakistane. Nei testi ufficiali di studio sono esclusi i riferimenti alle minoranze religiose, non considerate parte della nazione. Oltre alla istruzione deformata, ci sono predicatori nelle moschee, in televisione e su internet che proclamano la lista dei nemici da abbattere e così alimentano la “cultura” dell’intolleranza religiosa. Adesso all’indice c’è la deputata Sherry Rehmam, che nel 2010 aveva proposto una modifica della legge sulla blasfemia, senza ricevere l’appoggio del suo partito, il PPP, che l’ha costretta a ritirare l’iniziativa. Vive semi-nascosta e riceve continue minacce di morte. Per altri non resta che cercare asilo all’estero.

Oltre ai cristiani, in Pakistan, sono legalmente discriminati gli ahmadi in quanto non-musulmani ma eretici, e per questo boicottano le elezioni. Ci sono tensioni tra le due scuole sunnite dei Deobandi e dei Barelvi. E la violenza religiosa è sistematica e può colpire tutti. Così, ad esempio, il 4 marzo dieci musulmani sufi, in quanto considerati eretici da altri musulmani, sono stati uccisi nei pressi di un loro luogo sacro vicino a Peshawar. Ma le manifestazioni di piazza delle minoranze o dei musulmani moderati non fanno paura, e la loro voce si perde, oltre che essere esposte ad attentati suicidi. Il 5 marzo, un musulmano, Mohammad Imran, è stato assassinato in un villaggio vicino a Rawalpindi. Era stato scarcerato per mancanza di prove con l’accusa di aver offeso Maometto. Il 15 marzo è morto in carcere Qamar David, un cristiano condannato ingiustamente all’ergastolo per blasfemia. Aveva ricevuto percosse e maltrattamenti dalle guardie penitenziarie. E la sua morte, per arresto cardiaco, desta molti dubbi tra i cristiani. Cadono vittime degli estremisti anche gli attivisti dei diritti umani, come Naeem Sabir, ucciso nella provincia del Beluchistan lo scorso 1° marzo.

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Il Pakistan soffre di innumerevoli lacerazioni etniche e politiche. Il clima di intolleranza è alimentato dagli estremisti omicidi e da leader religiosi radicali, ma anche da avvocati, giornalisti, politici per loro fini egemonici. Nel Beluchistan sono ancora attivi i movimenti separatisti, anche perché la distribuzione della ricchezza è molto disuguale sul territorio pakistano. L’etnia pasthun, pur non cercando la secessione e l’annessione con una parte del territorio afghano, è sempre più dominata dall’ideologia fondamentalista e antigovernativa. Poi ci sono le tensioni con l’India per il Kashmir. C’è inoltre insofferenza nei confronti del governo filoindiano di Hamid Karzai in Afghanistan. Con Pechino, l’alleato più stretto di Islamabad in chiave anti-indiana, si è rafforzata la cooperazione per costruire centrali nucleari. La relazione del Pakistan con gli Stati Uniti è invece sempre più difficile. E il sentimento antiamericano è diffuso anche perché, in territorio pakistano, l’azione della CIA è parzialmente indipendente dalle autorità nazionali, e proseguono gli attacchi dei droni statunitensi contro i talebani afghani e i membri di Al-Qaeda nel Pakistan occidentale.

Inoltre gli estremisti religiosi si sono infiltrati nelle forze armate e nei servizi segreti, che sostengono i talebani afghani ma sono in conflitto con parte dei talebani pakistani, coordinati a loro volta con gli jihadisti che lottano per l’annessione del Kashmir indiano al Pakistan. La costellazione dei gruppi estremisti è ampia e nebulosa. Dietro il paravento di attività educative e caritative, il loro reclutamento si rafforza nelle madrasse, le scuole coraniche, e nei campi dei profughi afghani o degli sfollati dopo le alluvioni della scorsa estate. Per di più le forze armate hanno un forte potere di veto sul governo; ma non sembrano disposte a un colpo di stato, magari su ispirazione islamista, perché la soluzione dei problemi sociali ed economici del paese è fuori della loro portata, e i militari non vogliono rischiare l’impopolarità. Purtroppo il governo e la magistratura spesso sembrano aver capitolato davanti alle ingerenze degli estremisti e dei servizi segreti pakistani. La legge antiblasfemia, nelle sue varie applicazioni, giustifica il terrore politico e scoraggia i pakistani liberali. I musulmani moderati sono stritolati dall’autorità delle forze armate, dal fanatismo religioso e dall’ingerenza dei paesi stranieri, quando favoriscono corruzione, abuso di potere e crimini contro i diritti umani, come la tortura. Le rivendicazioni sociali stanno quindi diventando appannaggio dei fondamentalisti, che però non hanno gli strumenti culturali, tecnici e burocratici per risolvere i problemi di cronico sottosviluppo economico del paese.

L’intimidazione e l’impunità delle violenze estremiste e delle rappresaglie militari sono i cardini su cui si regge il caos pakistano. La stessa fragile identità nazionale rischierebbe di svaporare se queste due pratiche guidassero la costituzione materiale del paese. Inoltre, benché improbabile, non si può escludere che la crescente anarchia pakistana permetta a gruppi jihadisti di impossessarsi di materiale e armi atomiche, di cui gli USA non sembrano conoscere interamente l’allocazione. È il Pakistan il boccone più ghiotto per al-Qaeda, che sta nutrendo ideologicamente l’estremismo interno, affermando che il governo civile di Islamabad è illegittimo, perché irreligioso, e andrebbe distrutto. Così, purtroppo, l’esecutivo e il PPP sembrano ostaggio dei partiti fondamentalisti e degli estremisti.

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Tuttavia Paul Bhatti, fratello dell’ucciso, è stato nominato consigliere speciale del premier per le minoranze religiose. Se nella “Terra dei puri” arriverà quello che resta della “primavera democratica” araba, il nuovo patto sociale pakistano, per bloccare la spirale autodistruttiva, richiede il rapido ristabilimento di un sistema giudiziario penale funzionante. Ciò include necessariamente la riforma radicale della legge antiblasfemia, che giustifica l’uso extragiudiziale della violenza, anche contro chi si converte dall’islam. Nel medio e lungo periodo è indispensabile un sistema scolastico pubblico universale e aperto a un’educazione più moderna, anche per creare valide competenze lavorative. Nuove idee di giustizia e veritiere ricostruzioni della storia del paese possono fare capitalizzare la ricchezza del pluriforme popolo pakistano. Ciò impone che la spesa pubblica non possa essere drenata in modo sproporzionato dalle spese militari, e che la pace con l’India e in Afghanistan sia ritenuta necessaria per lo sviluppo sostenibile del Pakistan. Nel paese non è in atto un conflitto religioso ma politico, col rischio di guerra civile. E il dialogo interreligioso è impotente quando una religione è usata come strumento di potere, di oppressione e di sottosviluppo.

 

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La rivista da cui è stato ripreso l’articolo, stampata con il previo controllo e l’autorizzazione della segreteria di stato vaticana:

> La Civiltà Cattolica

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Khushpur, il villaggio natale di Shahbaz Bhatti, nella fertile pianura del Punjab, è stato fondato da missionari cattolici un secolo fa e i suoi 5 mila abitanti sono quasi tutti battezzati.

Il villaggio è pulito, operoso, ospitale. Ha scuole frequentate. C’è parità tra uomo e donna. Padre Piero Gheddo del Pontificio Istituto Missioni Estere, che l’ha visitato, lo descrive in un articolo su “Tempi” come “un esempio concreto e ben visibile della differenza che passa tra cristianesimo e islam”:

> Ecco perché i cristiani in Pakistan danno fastidio

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Un libro-intervista di Shahbaz Bhatti è uscito in Italia nel 2008, per i tipi di Marcianum Press, l’editrice del patriarcato di Venezia:

Shahbaz Bhatti, “Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza”, Marcianum Press, Venezia, 2008.

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La scheda sul Pakistan del rapporto internazionale sulla libertà religiosa curato dal dipartimento di stato degli Stati Uniti:

> Pakistan

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La catechesi di Benedetto XVI sui santi non canonizzati, sui santi “semplici”, la cui “bontà di ogni giorno” è però “la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità”:

> Udienza generale di mercoledì 13 aprile 2011

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