Siria, ecco il monastero dove le fedi si incontrano
Un diario dal deserto. Gli articoli che padre Paolo Dall’Oglio ha scritto dal 2007 per il mensile internazionale «Popoli» sono ora raccolti nel volume La sete di Ismaele, in libreria da domani (Gabrielli, pagine 144, euro 12,00, introduzione di Stefano Femminis). Il libro è arricchito dalla prefazione – di cui anticipiamo una parte – del giornalista e scrittore Paolo Rumiz, che ha visitato l’antico monastero in cui ha sede la comunità monastica di (www.deirmarmusa.org), fondata da padre Dall’Oglio nel 1991 e dedita all’accoglienza e al dialogo interreligioso, in particolare con l’Islam. È dei giorni scorsi la notizia che il religioso ha ricevuto dal governo siriano un decreto di espulsione, a causa del suo impegno a favore della riconciliazione: sono in corso trattative con la Chiesa locale affinché l’effettività del decreto sia sospesa e il gesuita possa restare.
Deir Mar Musa. Il nome mi chiamava come una fata morgana, come la nostalgia di qualcosa di antico, qualcosa che avevo dimenticato ma continuava ad agitarsi nel fondo dell’anima.
Quella fortezza della fede, arroccata sugli ultimi precipizi del Monte Libano davanti al deserto siriano, era una tappa ineludibile del mio viaggio verso la Terra Santa. Cercavo i cristiani d’Oriente, eppure a parlarmi per primo del monastero retto dal gesuita Paolo Dall’Oglio non era stato un prete ma un musulmano d’Italia. «Vai a vedere – aveva detto – un luogo dove la tua fede ha imparato a convivere con l’islam». E aggiunse parole lusinghiere sulla capacità di quel suo priore molto sui generis di capire il mondo musulmano pur tenendo dritta la barra del cristianesimo in quel difficile avamposto.
Così andai, e già la lunga strada di avvicinamento lungo l’Anatolia fino alle terre alte del Tigri (dove comunità cristiane di lingua aramaica vecchie di quasi due millenni resistevano miracolosamente alla pressione del nazionalismo islamico urco) aveva ribaltato molte delle mie false certezze. Credevo, prima di prendere quella lunga strada, di allontanarmi dal baricentro, dai punti di riferimento più forti della mia fede, e invece constatavo che proprio allontanandomi da Roma avvertivo la presenza di un messaggio cristiano più limpido, cristallino, sempre più vicino alla sua fonte originaria, e sempre meno disturbato da tentazioni di egemonia e di potere. Era come se mi fosse possibile prendere atto della mia identità e della mia cultura religiosa d’origine solo in terre dove il cristianesimo era decisamente minoritario, se non addirittura perseguitato.
Erano passati, non dimentichiamolo, appena quattro anni dall’attentato alle Torri gemelle, e il discorso del conflitto di civiltà era stato semplificato ad arte dai seminatori di zizzania come scontro religioso. Era anche per reagire a questa semplificazione che avevo intrapreso quel viaggio tra i miei cugini d’Oriente, un viaggio che mi portava fatalmente a sconfinare, un giorno sì e uno no, nei territori dell’ebraismo e della fede musulmana. Così, quando in una sera di temporale imminente arrivai al monastero fortificato di Mar Musa, mi ero già reso conto che religiosi da prima linea come Paolo Dall’Oglio si trovavano, con la loro semplice presenza, non soltanto a combattere con le infinite suscettibilità del mondo musulmano, ma anche a scontare sulla loro pelle (con molte eccezioni s’intende) le incomprensioni e i pregiudizi dei loro referenti d’Occidente. Di queste il priore di Mar Musa non volle mai parlarmi, ma era mia ferma convinzione che esse ci fossero.
Ebbi la conferma, lì a Mar Musa, che per farsi riconoscere, il cristianesimo aveva anche bisogno di capire come Cristo e discepoli erano visti dagli altri popoli del Libro. Nel suo ineguagliabile L’Usage du monde, Nicolas Bouvier racconta del viaggio compiuto negli anni Cinquanta fino al subcontinente indiano. Nella tappa afghana egli narra di aver trovato nel bazar di Kabul una raffigurazione di Gesù che ascendeva al cielo circondato da apostoli armati. Per un musulmano era magari concepibile che un profeta della bontà di Isa accettasse di essere catturato senza difendersi, ma era assolutamente inammissibile che i suoi uomini rinunciassero a difenderlo. Vili, codardi, non avevano reagito. E soprattutto, rinunciando a uccidere dei malvagi, essi avevano favorito la catena del male. La raffigurazione di discepoli armati altro non era che il desiderio dei musulmani di rendere più presentabile il martirio di quel sant’uomo. Ancora più interessante la visione degli ebrei ortodossi, così come mi era stata vivacemente spiegata da un rabbino gerosolimitano di nascita italiana. Il difetto maggiore di Cristo? Non si era sposato, non aveva figli. Chi non fa figli non è un uomo e non ascolta i comandamenti di Elohim: crescete e moltiplicatevi. E allora, mi disse, come fa a essere dio uno che non è nemmeno uomo? E che dire dei discepoli, questi scioperati perdigiorno che avevano rinunciato alla fatica della terra e del lavoro? Che garanzie di serietà potevano dare questi scapoloni a zonzo capaci di vivere solo alle spalle altrui? Sì, era fondamentale ascoltare storie così, sentire il parere degli “altri” per raccontare la “nostra” identità con maggiore forza e consapevolezza.
Una sera pregammo insieme, in quel monastero che altro non era che la “reception” di un arcipelago di grotte eremitiche sparse nelle rocce circostanti. Risuonarono antiche litanie, sentii la bellezza della preghiera cristiana formulata in lingua araba, e la parole-chiave attorno cui tutto ruotava era “nur”, luce. Cantava Paolo Dall’Oglio dentro una chiesa buia, dove la luce, appunto, era solo un raggio che entrava da una feritoia verso Oriente. Fu da quel viaggio che cominciai a cercare la mia fede proprio nelle periferie, negli avamposti, nelle trincee di mondi considerati a rischio nel profondo di stati marchiati come “canaglia” dalla geopolitica banalizzata dell’Occidente.
Ad Antiochia – incontrando la mia compagna di viaggio Monika Bulaj – una donna che si era convertita al Cristianesimo e subiva per questo non poche ritorsioni, aveva spostato una tendina in casa sua e mostrato, dietro, un foglio di giornale illustrato con la raffigurazione di Cristo. Sospirò e spiegò perché aveva deciso di seguirlo. «Come fai a non fidarti di uno con un viso simile?», riassunse così il concetto, prima di riempirci il sacco da viaggio di frutta secca e caffè che a lei dovevano essere costati una fortuna.
Paolo Rumiz
in “Avvenire” del 4 dicembre 2011