Religioni, cultura e integrazione

I leader di tutte le religioni, presenti nel nostro Paese, si sono ritrovati ieri a Palazzo Chigi per trovare insieme una via italiana all’integrazione.

L’incontro è stato promosso dal ministro alla Cooperazione internazionale e all’Integrazione, Andrea Riccardi, che in collaborazione con il ministero dell’Interno, rappresentato dal ministro Annamaria Cancellieri, ha indetto una Conferenza permanente “Religioni, cultura e integrazione”.

“Ci unisce – ha detto il ministro Riccardi – la preoccupazione per un passaggio delicato della società italiana: l’integrazione”. In questo senso, “le comunità religiose e i loro responsabili posso essere mediatori per l’integrazione virtuosa nella società italiana”.

Riproponiamo qui l’intervista a Gino Battaglia realizzata dal SIR:

Quali le finalità e le novità dell’incontro di ieri?
“È stato un incontro dei responsabili delle diverse comunità religiose in Italia. Comunità che ovviamente non sono omologabili tra loro, data la disparità di questi mondi religiosi, per cui si andava dal vescovo della Chiesa ortodossa romena al presidente dell’Unione buddista italiana. E poi erano presenti alcuni rappresentanti del mondo accademico coinvolti a vario titolo in questo tipo di problematiche. La finalità dell’iniziativa, credo sia quella di esaminare alcuni grandi dossier che riguardano l’integrazione, e di affrontarli da un punto di vista anche religioso. Si è parlato, per esempio, della scuola, delle intese, dei luoghi di culto, della formazione e dell’ingresso dei ministri di culto, ecc. C’è stato poi un momento di riflessione comune in cui i diversi esponenti religiosi hanno espresso le loro problematiche e le loro attese. L’intenzione, dunque, è quella di esaminare, di volta in volta, alcuni argomenti sensibili e importanti che possono avere una rilevanza per l’integrazione di queste comunità nel nostro Paese. Non è stata stabilita un’agenda, però c’è la prospettiva di ulteriori incontri”.

Ma che cosa ci si attende dai leader religiosi?
“Mi sembra che lo sfondo sia la ricerca di un modello d’integrazione italiano. C’è la preoccupazione di arrivare a delineare una via d’integrazione italiana, considerando che quello dell’immigrazione e dell’immigrazione di cittadini di altra religione, oltre che di altra nazionalità, sia un fatto relativamente recente per il nostro Paese, che necessita di una riflessione che chiami in causa anche i responsabili religiosi di queste comunità. Mi sembra poi che l’aspetto positivo è l’aver individuato nei leader religiosi dei possibili mediatori d’integrazione. I leader religiosi possono fare qualcosa a questo livello perché hanno un pulpito e hanno un seguito e perché, in fondo, l’appartenenza religiosa è un aspetto importante dell’identità di chi è immigrato, che anzi può essere addirittura riscoperto nell’esperienza della migrazione”.

La riunione a Palazzo Chigi è coincisa con il giorno in cui a Tolosa un uomo ha sparato davanti ad una scuola ebraica ammazzando 4 persone, di cui 3 bambini. È un monito per i leader religiosi?
“L’attentato di Tolosa è stato ricordato durante la riunione. Si tratta di un gesto antireligioso perché non ci può essere nessuna religione che accetta o che ammette l’uso della violenza per dare la morte ad altri. Certo, occorrerà attendere di capire la reale matrice che sta sotto all’attentato di Tolosa. Sembra che ci sia una motivazione neonazista. Rimane comune il problema di purificare, disintossicare il clima, perché certi discorsi circolano e, alla fine, una certa predicazione del disprezzo o dell’intolleranza può anche ispirare gesti folli”.

Ripensare l’integrazione degli immigrati

“Il presidente ha ragione bisogna ripensare la legge o siamo destinati al declino”:

intervista ad Andrea Riccardi, a cura di Marco Ansaldo.

 

«Sì, il presidente Giorgio Napolitano ha ragione: c’è la possibilità di riprendere in mano le politiche sull’immigrazione. E dunque occorre ripensare la legge sulla cittadinanza. Perché l’integrazione è un tema centrale di quest’epoca. Lo  faremo, allora, nell’interesse del Paese, della generazione dei bambini immigrati e delle loro famiglie».
Per Andrea Riccardi è un periodo davvero intenso. Citato pubblicamente ieri dal capo dello Stato per l’importanza del nuovo ministero che gli è stato affidato, ma anche elogiato da un ministro del passato governo (Gianfranco Rotondi, il  quale ha detto che lo storico della Chiesa e fondatore della Comunità di Sant’Egidio «ha una bella storia personale»), sa  di avere dietro di sé anche l’attenzione del Vaticano e dello stesso Pontefice, che lo conosce bene e lo stima. Riccardi  allora si schernisce, e si dice ancora «scombussolato» per la chiamata del premier Mario Monti a partecipare al nuovo esecutivo in un ruolo chiave, benché senza portafoglio. E tuttavia «felice» per la nuova avventura.
Lo incontriamo mentre esce dal suo ministero, a Roma, a Largo Chigi.

Il presidente della Repubblica ha parlato di «assurdità e follia» per il fatto che i figli degli immigrati nati in Italia non siano cittadini italiani. È uno dei temi centrali del suo ministero. Che cosa ne pensa?
«Mi sembra che il capo dello Stato abbia dato – per la seconda volta nel giro di pochi giorni – un contributo al  ripensamento dell’identità italiana. Ponendo l’accento sull’importanza di sapere chi siamo e dove andiamo. Un argomento decisivo».


Perché?

«Intanto perché giunge nell’anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia. Proprio quest’anno i giovani hanno potuto  riscoprire le loro radici, direi con un orgoglio maturo».


E poi?

«Perché ha posto il problema dei nuovi italiani e fatto cenno alla legge che porta il suo nome, la Turco-Napolitano del  1998, che segnala un percorso per stabilizzare gli stranieri, seguendo una logica che va dal momento dell’emergenza a quello della stabilizzazione del fenomeno».

Però oggi le prospettive sono diverse.
«Sì, lo sono perché ora abbiamo un popolo di bambini che sono figli di immigrati. I nati in Italia giuridicamente  stranieri superano il mezzo milione. E i minori residenti sono quasi un milione.
Insomma, parlano l’identica lingua, vedono i medesimi paesaggi, vivono la stessa storia, sono legati al nostro mondo.  Senza di loro l’Italia sarebbe più vecchia e con minori capacità di sviluppo».


Qual è la sua intenzione allora?

«Occorre ripensare la legge sulla cittadinanza. Questo proprio perché abbiamo fiducia nella nostra identità. Che è forte  e al tempo stesso flessibile. Capace di integrare».

Un obiettivo ambizioso. Ma non vede dei rischi?
«Io piuttosto vedo convergere in questo progetto, come nelle grandi scelte della politica, l’identità nazionale con  l’interesse nazionale. E anche con l’interesse dei soggetti in questione, cioè i bambini e le loro famiglie».

In quanto fondatore di Sant’Egidio è un argomento a lei caro. Non si attirerà però delle critiche?
«Veramente, e lo dico in modo assolutamente modesto, sono anni che auspico che questo tema sia trattato in modo  ragionevole, legale, e soprattutto umano. Prima di ricevere questo incarico avevo già deciso di parlare di integrazione. Lo faccio ora a maggior ragione».

E dal punto di vista storico come lo considera?
«Credo che il tema dell’immigrazione sia importante tanto quanto la questione dei confini nell’Otto- Nocevento. E  andrebbe affrontato perciò in modo preveggente, freddo e ragionevole».

Si dice che l’Italia abbia una società invecchiata, se non addirittura sclerotizzata. Ma è davvero così?
«Beh, sul tema dell’immigrazione ci si gioca sul serio il futuro, e la possibilità di acquisire nuove energie. L’integrazione  è un passaggio importante. Gli stranieri ringiovaniscono il Paese. È una grande possibilità per il domani. E per tutti i cittadini italiani».

Napolitano ieri ha ricordato il significato della sua nomina a ministro, citando «l’integrazione nella società e nello Stato italiano». Un invito chiaro a puntare su questo aspetto?
«Io sono grato che Napolitano abbia fatto cenno al mio ministero. Anzi confesso che non sono ancora abituato a  pronunciare questa parola, sono ancora fresco di nomina. Ma credo che rappresenti un segnale per affrontare la questione in modo non partigiano».

 

Documentazione

 

Sabato 19 novembre 400 persone hanno partecipato alle prime ‘Assises nationales de la diversité culturelle’ a Parigi. La giornata, fatta di conferenze e di laboratori, organizzata da ‘Témoignage chrétien’ e ‘Salamnews’, si è conclusa con un appello per una società interculturale.

 

Terraferma: di Emanuele Crialese

 

Terraferma , dopo l’acclamazione al Festival del Cinema di Venezia, dove ha vinto il premio speciale della Giuria, la pellicola di Crialese ha ricevuto la candidatura agli Oscar per il miglior film in lingua non inglese, spiccando rispetto agli altri otto film italiani in lizza per entrare nella cinquina delle nomination.  
Il lungometraggio è tutto ambientato sull’isola di Linosa e racconta gli sbarchi visti con gli occhi dei pescatori siciliani, divisi tra solidarietà e paura dello straniero. 
La cerimonia degli Oscar è prevista il 26 febbraio a Los Angeles


da Venezia agli Oscar

Terraferma di Emanuele Crialese presentato alla Mostra del Cinema a Venezia, vincitore del Premio speciale della Giuria, è il candidato italiano agli Oscar per il miglior film in lingua non in inglese( finalmente, un film italiano nella durissima selezione per gli Oscar ai film stranieri).  In corsa con Crialese per entrare nella cinquina dei cinque film non in inglese (solo il 24 gennaio si saprà quali fra tutti i candidati saranno scelti) c’erano per l’Italia altri sette film: Corpo celeste di Alice Rohrwacher, Habemus Papam di Nanni Moretti, Nessuno mi può giudicare di Massimiliano Bruno, Noi credevamo di Mario Martone, Notizie dagli scavi di Emidio Greco, Tatanka di Giuseppe Gagliardi e Vallanzasca di Michele Placido.
La commissione quest’anno era composta da Nicola Borrelli (Direttore Generale Cinema), Marco Bellocchio (regista), Martha Capello (presidente Agpc, Associazione Giovani Produttori Cinematografici), Francesca Cima (produttrice), Tilde Corsi (produttrice), Paola Corvino (presidente Unefa, Union of Film and Audiovisual Exporters), Valerio De Paolis (distributore), Luca Guadagnino (regista) e Niccolò Vivarelli (giornalista). L’anno scorso era stato candidato per l’Italia, La prima cosa bella di Paolo Virzì.

Crialese è emozionato, quasi frastornato dalla notizia: «Felicissimo e onoratissimo anche se non posso dire che me l’aspettavo, ma solo che lo speravo». Il film, prodotto da Cattleya e Rai Cinema in collaborazione con Sensi Cinema – Regione Sicilia, ha secondo il regista che ha studiato negli Usa molte cose che potrebbero piacere agli americani: “questi sono molto sensibili a tutte le storie in cui ci sono relazioni e conflitti umani, c’è in questo senso molta sensibilità da parte loro verso queste storie in evoluzione”.

 

Il Film Terraferma

Il film, girato a Linosa, racconta l’emergenza immigrazione attraverso la storia di due donne, un’isolana, che ha il volto di Donatella Finocchiaro, e una straniera: l’una sconvolge la vita dell’altra. Mimmo Cuticchio veste i panni di Ernesto, settantenne che non vorrebbe rottamare il suo peschereccio. Il nipote Filippo (Filippo Pucillo) ha perso il padre in mare ed è sospeso tra il tempo di suo nonno Ernesto e quello dello zio Nino (Giuseppe Fiorello), che ha smesso di pescare pesci per catturare turisti. La madre Giulietta (Finocchiaro), giovane vedova, sente che il tempo immutabile di quest’isola li ha resi tutti stranieri e che sull’isola non potrà mai esserci un futuro per lei, né per Filippo. Siamo su un’isola al largo della Sicilia: la famiglia Pucillo vive ancora di pesca, nonno Ernesto è un convinto difensore dei valori tradizionali, la nuora Giulietta (vedova) vorrebbe invece guadagnare affittando la casa ai turisti e sogna di garantire al figlio Filippo un avvenire lontano, in continente. Il film è la storia di un’estate in cui il sogno di Giulietta si scontra con problemi di vario tipo, e con una serie di sbarchi di migranti che sconvolge la vita dell’isola e della famiglia. Anche in questo caso Crialese analizza le dinamiche psicologiche e sociali di un microcosmo, ma la felice compattezza di “Respiro” sembra venir meno.

 

DOMANDE & RISPOSTE


Al quarto lungometraggio, “Terraferma”, Emanuele Crialese tira il fiato. Capita, è quasi fisiologico. Dopo l’epopea proletaria di “Nuovomondo“ il regista torna ai luoghi e alle atmosfere di “Respiro”, il film che lo rivelò nel 2002 dopo l’opera prima (girata in America) “Once We Were Strangers”.
In breve, la storia l’abbiamo già esposta.
Crialese  in questo film, molto semplice- simile pertanto a “Nuovomondo”, analizza le dinamiche psicologiche e sociali di un microcosmo, ma la felice compattezza di “Respiro” sembra venir meno.
Il “grande tema” dei clandestini è sovrapposto ad una trama che non lo richiede, che quasi (forse inconsciamente) lo respinge. Come in “Cose dell’altro mondo” gli stranieri non diventano personaggi, né tanto meno persone, ma servono come cartine di tornasole per i drammi e i desideri degli italiani; e lo stile estetizzante con cui Crialese gira gli sbarchi e gli annegamenti, quasi equiparandoli alla pesca e ai tuffi dei turisti, è fastidioso.
A suo tempo Visconti venne accusato di aver “abbellito” i pescatori di “La terra trema”: ma in quel film i proletari erano i veri protagonisti, e il regista milanese dava loro consapevolmente la stessa dignità estetica di una statua greca o dell’eroe di un film epico. Qui Crialese racconta un sogno ai margini della globalizzazione, in cui le tragedie rimangono sullo sfondo, anche se lo spirito anti-leghista e la vecchia legge del mare – per cui i naufraghi vanno salvati comunque, da dovunque arrivino – hanno una loro nobiltà.

Tre giorni di corsa per Emanuele Crialese, unico italiano nel palmarès «grande» .Terraferma, è dedicato al tema dell’immigrazione. Il film ha avuto critiche non esaltanti, ma non è questo che lo ha amareggiato. «La prima cosa che mi hanno detto a Venezia è stato riferirmi il sospetto che abbia avuto il Gran Premio speciale della giuria per fare un favore all’Italia e propiziare una conferma del direttore della Mostra, Marco Müller».

E lei cosa risponde?

«Lo trovo ridicolo. Quando il cinema italiano non vince c’è polemica perché non vince, quando vince allora “chissà perché abbiamo vinto”. Il complottismo non porta da nessuna parte. Il premio a Terraferma è anche una nostra festa, è un riconoscimento che va a me ma anche al cinema italiano. La critica fa il suo mestiere, commenta e dice la sua, ma se si chiede quali remoti perché, quali poteri oscuri abbiano deciso la vittoria di un film italiano, mi appare un po’ masochista. Inoltre non si tiene conto del prestigio della giuria – professionisti di prestigio come André Téchiné, Todd Haynes, il presidente Darren Aronofsky.. – e trovo offensivo dubitare della loro onestà intellettuale. Come fanno nei festival seri hanno tenuto segreto fino all’ultimo il verdetto, è per questo che sono stato richiamato tardi al Lido»

La stampa estera ha molto apprezzato il suo film: il «New York Times», l’«Observer», «Le Monde»… alla mostra, in fin dei conti, l’Italia del cinema è stata salvata dagli immigrati…

«Sarebbe un bel sogno che l’Italia venisse salvata dagli immigrati. Quello dei migranti è un tema che mi sta particolarmente a cuore, perché la natura dell’uomo è quella di muoversi, di cercare, andare avanti. È fonte di ispirazione per una narrazione, anche perché io per primo sono un migrante: probabilmente la carriera che ho intrapreso nel cinema è stata possibile grazie al fatto che sono partito, che sono andato negli Stati Uniti. So quanto è importante conoscere l’altro, vivere in una cultura diversa e far conoscere la propria. Mi tormenta quindi vedere che una parte dell’umanità, quella povera, non possa essere libera di muoversi nel mondo, come invece lo è la parte più ricca. Credo che non sia ancora possibile storicizzare il «fenomeno immigrazione» di oggi, stiamo assistendo a una specie di sterminio sommerso, non posso associare questa immigrazione a quella degli inizi del secolo, che ha coinvolto noi italiani. L’immigrazione di oggi andrebbe affrontata in un modo più umano, bisogna dare volto e nome a questa gente che attraversa il mare e rischia la vita. Non possiamo essere così insensibili da non vedere. C’è un’urgenza. È necessario per noi riflettere su questo, in Europa siamo il paese meno aperto alla ricezione e all’integrazione. Ecco perché ho deciso di dedicare la mia quarta opera a un tema politico, ma non volevo farlo col pugno teso, perché credo che il modo migliore per raggiungere le persone sia parlare di umanità».

È forse per «troppa umanità» che a detta di alcuni critici, ha rappresentato gli immigrati in maniera oleografica?

«Non riesco a fare un’analisi oggettiva. Forse ci si aspettava da me un film diverso, di denuncia aperta… ma io non riesco a pormi di fronte al mio lavoro come un denunciante. Sollevo delle questioni: il mio ruolo è quello di evocare, domandare, comunicare con un pubblico eterogeneo. Cerco di trovare un linguaggio che parli all’uomo, e alla denuncia preferisco l’allegoria, la metafora, un linguaggio che trovo più giusto per me, è il mio modo di esprimersi. Film documentaristici, ad esempio, non riesco a farne, preferisco parlare di archetipi piuttosto che di attualità. Il mio modo di vedere la vita e la realtà attraverso un’immagine dell’uomo più essenziale, esistenziale».

 

Chi é

Emanuele Crialese, 46 anni, 26 Luglio 1965 (Leone), Roma (Italia)

Regista e sceneggiatore italiano, forse uno dei grandi protagonisti di questo odierno e nuovo cinema nostrano, che riesce a rendere magico, partendo dalla musica e dallo spettacolo estetico che inquadratura dopo inquadratura costruisce con sapiente tecnica degna di un prezioso artigiano.

Ha studiato a  New York .

Nato a Roma il 26 luglio 1965, da una famiglia di origine siciliana, parte a New York per studiare alla New York University subito dopo il diploma. Si laurea nel 1995 e già alla fine degli anni Novanta gira diversi cortometraggi (uno di questi è Heartless).

L’opera prima

Esordisce alla regia di una pellicola nel 1997 con il bellissimo Once We Were Strangers con Vincenzo Amato , prodotto con i soldi ricavati dalla vendita di un paio di orecchini ricevuti in eredità dalla bisnonna e che prende largo spunto dall’esperienza di stranieri che lui e Amato fecero in America. La pellicola partecipa al Sundance Film Festival, trasformandolo nel primo regista italiano accettato nella competizione americana.

 

A teatro

Fra il 1998 e il 2000, Crialese lavora anche in teatro, sempre negli Stati Uniti, e accanto al produttore Bob Chartoff (lo stesso di Toro Scatenato e di New York New York) alla stesura di un trattamento cinematografico su Ellis Island.

 

Il film che lo porta sull’onda

Respiro

Il tanto amato Respiro (che sarà uno dei nuovi film che affascineranno Bernardo Bertolucci) all’interno del quale narra le vicende dell’anomala, poetica e oltraggiosa Grazia (Valeria Golino), moglie e madre borderline di Lampedusa che non è propriamente conscia del suo ruolo. Il film, ambizioso e originale, assolutamente fuori dai soliti schemi del cinema italiano, è un piccolo capolavoro che sottolinea il grande talento di Crialese assolutamente pari a quello di un autore quasi conterraneo come Giuseppe Tornatore. Giocando con il tema dell’incomunicabilità (tanto caro a Michelangelo Antonioni) propone uno squarcio sul suo concetto di libertà, senza però difettare di realismo, fortemente sostenuto dalla ruralità delle scenografie e dalla lirica neorealista moderna. Respiro si merita il Gran Premio della Critica a Cannes, ma anche il Young Critics Award Best Feature, il CONAI e il Creative Journeys, non vincendo però il César come miglior film per l’Unione Europea e il David di Donatello per la migliore pellicola dell’anno.

 

Nuovomondo

Poi viene il turno di Nuovomondo (2006) con Charlotte Gainsbourg (che sostituì la Golino impegnata in un altro progetto), Vincenzo Amato e Aurora Quattrocchi che riscuote un grande successo di critica e pubblico, soprattutto in Francia. La pellicola viene presentata in concorso ufficiale alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e si assicura un Leone d’Argento e la candidatura italiana per il miglior film straniero all’Academy Award, oltre a ben tre David di Donatello. Parte tutto nella Sicilia degli inizi del Novecento, dove un capofamiglia decide di imbarcarsi con figli e madre anziana per l’America. Crialese affronta a modo suo la storia della migrazione italiana all’estero, ricordandoci che un tempo eravamo noi gli stranieri che venivano dal mare e che avevano bisogno di accoglienza in un nuovo mondo(a noi è piaciuto moltissimo, per la sua poetica originale e le sue tragiche vicende).

 

Terraferma

Nel 2011, sempre a Venezia, è il turno di Terraferma che tratta dell’immigrazione clandestina dall’Africa in Italia, molto semplice e realistico, proprio come noi vediamo le vicende dei clandestini del Nord Africa. Affamati, desolati, disperati, in cerca di un mondo migliore. Speriamo di procurarcelo, per rendere a tutti la vita possibile da vivere.

 

Il film è prodotto da Cattleya e Rai Cinema in collaborazione con Sensi Cinema – Regione Sicilia.

Di: Maria de falco Marotta, Elisa, Enrico.

Il villaggio di cartone

 

l’ultimo film di Ermanno Olmi

 

 

La Trama

Il film narrerà dell’incontro tra due culture e varie etnie, quella africana e quella europea, quando un gruppo di clandestini prende possesso di una vecchia chiesa per safamarsi. La storia viene osservata attraverso gli occhi di un vecchio prete.

Piccola curiosità: l’anziano sacerdote è interpretato da Joe R. Landsale, sceneggiatore ma soprattutto apprezzato scrittore.

 

Il villaggio di cartone
Titolo originale: Il villaggio di cartone
Italia: 2011. Regia di: Ermanno Olmi Genere: Drammatico Durata: 87′
Interpreti: Michael Lonsdale, Rutger Hauer, Alessandro Haber, Massimo De Francovich, El Hadji Ibrahima Faye, Irma Pino Viney, Fatima Alì, Samuels Leon Delroy, Fernando Chironda, Souleymane Sow, Linda Keny, Blaise Aurelien Ngoungou Essoua, Heven Tewelde, Rashidi Osaro Wamah, Prosper Elijah Keny
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 07/10/2011

 

Recensione di: Francesca Caruso
L’aggettivo ideale: Simbolico

Il pluripremiato regista e sceneggiatore Ermanno Olmi torna dietro la macchina da presa realizzando un film che fotografa “ una realtà simbolo” – come ha spiegato lui stesso.
Vi si racconta il viaggio emotivo di un vecchio prete, che vede la sua chiesa smantellata pezzo dopo pezzo. Assiste impotente all’azione degli operai che staccano dalle pareti i quadri e il grande Crocifisso. Durante la notte, però, la chiesa si anima di nuova vita: vi trovano rifugio un gruppo di emigranti di passaggio, i quali chiedono al vecchio un po’ di carità cristiana.

Il maestro Olmi ha scritto il film come fosse un apologo secondo una visione teatrale.
“Nell’apologo la sublimazione è fatta dell’immagine simbolo e dalla parola simbolo, i personaggi parlano come un libro stampato” – spiega il regista – “ ed è stato volutamente realizzato così”. Il cineasta si è particolarmente soffermato sull’idea di carità, di fratellanza e di amore verso il prossimo. Si dice ama il prossimo tuo come te stesso, ebbene il vecchio prete trova dentro sé quel coraggio che lo porta a mettere in pratica quelle che, fino a quel momento, sono state parole dette durante un’omelia ai suoi fedeli.

L’individuo per trovare rassicurazioni e protezione ha da sempre costruito un’infinità di chiese: la chiesa religiosa è solo una delle tante possibilità, ma c’è anche quella in cui risiede il potere economico, nella quale molti si rifugiano. L’immagine della chiesa vuota dà l’idea di ciò che Olmi ha voluto sottolineare, ovvero quella di un essere umano che liberato dalle sue sovrastrutture sociali lascia emergere la parte migliore di sé. Il villaggio di cartone del titolo è formato da un gruppo di individui, con nulla addosso se non i loro vestiti, che mettono su una mini baracca fatta di pannelli e tendoni, sotto i quali dormire e attendere di riprendere il cammino.

Per ciò che riguarda l’ambientazione, tutti i personaggi si muovono in un unico ambiente, che possiede una forte espressione teatrale. Lo spessore teatrale si palesa anche nel modo in cui parlano i personaggi, nei loro intervalli e nelle inquadrature. Quando per la prima volta viene aperto il portone della chiesa si nota immediatamente che aldilà non c’è nulla, se non il vuoto di un proscenio. Il cast artistico vede la presenza di un bravissimo Michael Lonsdale (il vecchio prete), affiancato da Rutger Hauer (il sagrestano) e Alessandro Haber (il graduato), che rendono merito tanto quanto gli interpreti secondari a un film che pone lo spettatore in una posizione riflessiva, senza essere pedante.

Nella sua lunga carriera, il regista si è interessato di diverse tematiche sociali, che gli stavano a cuore e di cui ha reso partecipe lo spettatore. Ha parlato del mondo del lavoro, della vita dei contadini bergamaschi (L’albero degli zoccoli, 1979 – Palma d’Oro al Festival di Cannes), del mondo religioso e di molto altro. In questo film vuole far arrivare un concetto che supera qualsiasi argomento religioso: “il bene vale più della fede” – fare del bene non riguarda solo chi crede, ma riguarda il cuore di ogni essere umano, sia esso laico o credente.

“Il villaggio di cartone” non vuole imporre una lezione, ma far riflettere sui comportamenti che ognuno ha nei confronti del prossimo, qualunque esso sia. Olmi, ancora una volta, crea un linguaggio che va dritto al punto, mostrando ciò che c’è dentro l’involucro di “cartone”.

 

Olmi: «Così leggo la carità»
di Ermanno Olmi
in “Avvenire” del 19 ottobre 2011

 

Caro direttore, ricevo “Avvenire” fin da quando, molti anni fa, con cari amici ormai lontani, vedemmo uscire dalle  rotative il primo numero del giornale.
L’affezione e l’ammirazione sono sempre stati per me saldi riferimenti quotidiani per il rigore e la libertà d’opinione dei  suoi collaboratori e quindi per il rispetto del lettore. Tanto che ho molto apprezzato gli interventi apparsi in “Agorà”  dopo l’uscita del mio ultimo film Il villaggio di cartone. E di questa attenzione nei miei riguardi, caro direttore, la  ringrazio e, se lo riterrà utile per i suoi lettori, mi farà piacere se pubblicherà queste mie note sul dibattito che ne è  seguito.
Giovanni Bazoli, prima sul “Corriere della Sera” e poi su “Avvenire”, pone l’attenzione su due contrapposti valori  invocati dal vecchio prete, protagonista dell’apologo cinematografico.
Che dice: «Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede». Subito,  un intervento di Marina Corradi su “Avvenire”, mi rimprovera: «di coltivare così tanti dubbi di fede che la storia (del  film) rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani». Ma come sarebbe «la carità dei cristiani»?  Dunque ci sarebbero più carità? E quella dei cristiani è forse tanto speciale e diversa da quella di altre fedi religiose? Mi  piacerebbe conoscere l’elenco delle diverse carità. Bazoli chiarisce: «Il film è da intendere come un richiamo forte e  drammatico all’esercizio e della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati  del nostro tempo; vale come monito a intensificare l’impegno religioso e umano». Ugualmente, Marina Corradi insiste:  «In realtà il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete “per fare del bene” ma per  portare Cristo agli uomini, che è assai di più». La fede è in sé un valore, ma non è determinante per fare del bene.
Né il fare del bene ha mai ostacolato la fede di alcuno. La fede è innanzitutto un sentimento che ciascuno coltiva nel  profondo di sé, in solitudine. E con tale stato d’animo parteciperà la sua fede con quella dell’altro, in comunione con  Dio.
Un’altra voce che ha partecipato a questi interrogativi sul primato tra fede e carità è quella di Piero Coda, teologo e  presidente dell’Istituto universitario Sophia: «Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse nel capitolo  13 della Lettera ai Corinzi. L’ agape è la via che tutte le altre sopravanza. Non avere l’agape significa essere  nulla». E prosegue: «L’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano». Come vede, caro direttore, mi  appello a autorevoli testimoni della cristianità. Ed ecco che ancora Piero Coda mi suggerisce sant’Agostino: «La carità spinse Cristo a incarnarsi». È di pochi giorni fa, in Egitto, il divampare di conflitti fra appartenenze religiose mettendo  l’una contro l’altra. E soltanto ieri, a Roma, la dissennata violenza di giovani praticata con la rabbia della distruzione. E  mi domando se è del tutto azzardato pensare che anche questi giovani allo sbando non provino un loro delirante atto  di fede in una “religiosità” criminale.
Ancora una volta la Storia ci avverte che il vincolo tra fede e “Chiese delle diversità” può avere esiti di immani  tragedie. E sappiamo anche che, nel corso dei secoli, le religioni hanno avuto necessità di cambiamenti imposti dai  radicali mutamenti delle realtà che inarrestabilmente sopravvenivano. E quindi, concili, riforme e controriforme,  sempre per adeguarsi con significati nuovi alle esigenze del cammino della Storia. Dunque: anche le religioni cambiano  e cambiano i nostri comportamenti.
Solo il bene non cambia. Ma il bene non è esclusività di istituzioni. La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella  Sua e nella nostra incarnazione.

 

 

Bazoli: Olmi
e il primato della carità
Caro direttore,
il «Corriere della sera» ha pubblicato in forma di articolo venerdì scorso una mia presentazione e interpretazione dell’ultimo film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, quella che avevo anticipato nel dibattito svoltosi il 2 ottobre al Piccolo Teatro Strehler di Milano, in occasione della presentazione in anteprima del film. Solo successivamente – per mia negligenza – sono venuto a conoscenza di due servizi che erano nel frattempo comparsi su «Avvenire».

 

 

La lettura di tali articoli e in particolare delle profonde e convincenti riflessioni di Marina Corradi mi stimola a inviarle questa lettera, perché mi offre l’opportunità di completare il discorso svolto in quell’articolo con alcune puntualizzazioni che nell’articolo sono soltanto accennate alla fine. Il racconto-apologo del film di Olmi – focalizzato sulla chiesa dismessa in cui trova rifugio e accoglienza e assistenza da parte del vecchio parroco un gruppo di immigrati – ha un significato simbolico che appare a tutti molto chiaro: l’edificio sacro ha perso la sua originaria destinazione a luogo di culto divino e di preghiera (il che evoca la crescente secolarizzazione del mondo attuale); ma ritrova una vocazione nobile e sacra di accoglienza e di servizio di carità nei confronti di poveri uomini diseredati.

È proprio il significato di questa rappresentazione che può essere interpretato in modo diverso per quanto riguarda il rapporto tra fede e carità. Tale rappresentazione vuole significare che l’esercizio della carità si pone in una linea religiosa di continuità con la fede e la pratica del culto divino ovvero che è destinato a sostituirlo? Nel primo caso, il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo: un richiamo che nei confronti della comunità dei credenti, anche come rimedio alla secolarizzazione e all’allontanamento distacco del mondo contemporaneo dalla fede e dalla pratica religiosa, vale come monito a intensificare il loro impegno religioso e umano in tale direzione.

Nel secondo caso, invece, il significato sarebbe completamente diverso e si collocherebbe – concordo con quanto dice Marina Corradi – al di fuori della visione e dell’esperienza religiosa e cristiana, che trova il suo cuore nel rapporto diretto e personale del credente con la figura divina di Cristo e che proprio da questo rapporto trae anche l’ispirazione per l’esercizio della carità. A me non pare che il film debba essere interpretato in questo senso. È vero che l’inquietudine e gli interrogativi che assillano il vecchio prete lo inducono anche a dubitare del legame tra fede e carità («Per fare il bene non occorre la fede»).

Ma è pur vero che, sin dalla sequenza iniziale del film, l’anziano e tormentato parroco si rivolge di continuo al Cristo Crocifisso. Questo è l’interlocutore cui egli confida – si può dire nelle cui braccia ripone – i dubbi che insidiano la sua fede e che sono aggravati dalla solitudine (perché il vuoto della chiesa sembra riflettersi nel suo cuore). Nel mio commento ho ritenuto corretto – oltre che appropriato alla sede di presentazione del film – non sostituirmi all’autore dando delle risposte.

Mi sono limitato a ricordare, alla fine, che la condivisione delle fatiche e delle sofferenze degli uomini «non è una funzione vicaria ma di integrazione dell’amore di Dio e della preghiera». La religiosità cristiana si nutre inscindibilmente della carità (definita proprio ieri dal Papa «l’abito nuziale» dei cristiani) e dell’amore di Dio.

Quello che qui posso aggiungere è che tutto ciò trova conferma nella realtà incontestabile che l’impegno maggiore a favore di coloro che nella società sono i più deboli e indifesi – oggi, in particolare, gli immigrati – è sostenuto nel nostro Paese principalmente da organizzazioni della Chiesa e del volontariato cattolico. E non dubito che lo stesso Olmi riconosca l’immenso valore delle opere di carità che in tutte le epoche della storia sono state ispirate dalla fede.

Giovanni Bazoli

 

Gli scritti liturgici di Giovanni Battista Montin

 

Giovanni Battista Montini, Scritti liturgici. Riflessioni, appunti, saggi (1930-1939), a cura di Inos Biffi (Collana Quaderni dell’Istituto Paolo VI), Studium, Roma 2010, pp. 304 – € 35,00.

 

Presentazione

Sono raccolti in questo volume testi editi e inediti di Giovanni Battista Montini dalla fine degli anni ’20 alla fine degli anni ’30. E precisamente: il commento alle feste dell’anno liturgico apparso sulla rivista della FUCI, «Azione Fucina», dal Novembre 1930 al Novembre 1931; due quaderni (inediti) di appunti stesi per la spiegazione della liturgia in generale, dei riti della Messa e delle Messe domenicali e festive relativi agli anni 1926-1933 e 1936-1937; il commento (inedito) ai «Vangeli domenicali su Gesù Cristo» degli anni 1938-1939; un gruppo di saggi di argomento liturgico-artistico risalenti a quegli anni. Alcuni dei documenti hanno più la forma di appunti che non di completa stesura. Tuttavia nelle note, dettagliate e meticolose, il Curatore ha cercato di svolgerli, completando riferimenti e allusioni e mettendone in luce il vario contenuto in apposite introduzioni. Anche grazie a tale più compiuta lettura questi scritti rivelano singolare importanza: indicano cioè quanto fosse versatile e approfondita, sotto diversi aspetti precorritrice, la cultura liturgica del giovane Montini ed ampia e multiforme la sua informazione bibliografica. In particolare, egli aveva un’autentica e precisa teologia della liturgia, intesa sempre come reale ed efficace presenza del mistero di Cristo e come versione orante della fede e del dogma. Montini concepiva la liturgia come principio e risorsa primaria dell’esperienza e della spiritualità cristiana. Non mancava di sottolineare con vigore la funzione educativa della pietà, ponendone in evidenza la dimensione ecclesiale. Coglieva inoltre l’importanza della storia della liturgia, che dava prova di ben conoscere nelle sue linee principali, mostrandosi specialmente sensibile alla proprietà estetica dei riti, alla loro arte e poesia. Una visione che in quegli anni ben pochi possedevano e che troveranno pratica attuazione anche negli anni dell’episcopato milanese, trovando poi compiuta sistemazione nella costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium.

 

Quella trama dove passa il filo di Dio

 

Nel volume Scritti Liturgici. Riflessioni, appunti, saggi (1930-1939) – Brescia- Roma, Istituto Paolo VI – Studium, 2010, pagine 296 euro 35 – sono raccolti i più antichi testi dedicati da Giovanni Battista Montini alla liturgia e precisamente: il commento all’anno liturgico apparso in “Azione Fucina” (dal novembre 1930 al novembre 1931); due Quaderni di appunti stesi negli anni 1926-1933 e 1936-1937 per la spiegazione della liturgia in generale, dei riti della messa, e delle messe domenicali e festive; il commento ai “Vangeli domenicali su Gesù Cristo”, che è ancora un’analisi dell’anno liturgico (anni 1938-1939) e infine un gruppo di brevi saggi di argomento liturgico, risalenti a quegli anni. Pubblichiamo ampi stralci della Presentazione scritta dal curatore.

 

Egli già possedeva un’autentica e precisa teologia della liturgia, intesa come reale ed efficace presenza del mistero di Cristo e come versione orante della fede e del dogma. La celebrazione era da lui concepita come principio e risorsa primaria dell’esperienza e della spiritualità cristiana, e come componente essenziale per l’educazione alla pietà, mentre ne poneva in chiara evidenza la dimensione ecclesiale.

“Montini, assistente della Fuci – scrive Marcocchi – concepì la liturgia non come realtà estetizzante o archeologica o rubricistica, ma come il luogo privilegiato per entrare in comunione con Cristo e ancorare la vita spirituale ai fatti della vita del Signore attualizzati nell’anno liturgico”.
Montini coglieva inoltre l’importanza della storia liturgica, che dava prova di conoscere nelle sue linee principali, mostrandosi specialmente sensibile alla proprietà estetica dei riti, alla loro “arte” e poesia. Come si vede una visione della liturgia, multiforme, poliedrica e dagli svariati intrecci, che ben pochi in quegli anni possedevano, soprattutto con la perspicacia e il vigore del giovane Montini, che aveva saputo assimilare tanto intimamente le fonti, da saperle riesprimere con un tono e un linguaggio tipicamente suo, e non senza suscitare tenaci e autorevoli opposizioni da parte di chi giudicava la mentalità e l’educazione liturgica una specie di pericolosa gnosi.

A dire, inoltre, quanto la liturgia occupasse il sapere e il gusto di Montini, sono eloquenti le sue iniziative pratiche, ossia la sua predicazione e le sue lezioni, in cui trasmetteva nell’ambiente intorno a sé la sua conoscenza e il suo gusto per la liturgia. Chi seguirà il successivo pensiero liturgico di Montini come arcivescovo di Milano e come Papa, che approverà la costituzione liturgica Sacrosanctum concilium, lo troverà esattamente coerente con le riflessioni e considerazioni disseminate in questi scritti giovanili. In quegli anni si distingueva nello scrivere di liturgia con acutezza e fascino specialmente Romano Guardini, che nel 1918 con Lo spirito della liturgia aveva inaugurato la collana “Ecclesia orans”, promossa e diretta dall’abate di Maria Laach, Ildephons Herwegen. Per interessamento anche di Montini e con la prefazione di padre Giulio Bevilacqua il suggestivo volumetto apparirà tradotto nel 1930 presso la Morcelliana, che si mostrava vivamente interessata delle opere liturgiche di Guardini, e in generale del tema liturgico. D’altra parte, questa attenzione alle opere di Guardini si inseriva in una sensibilità cristocentrico-liturgica che aveva profondamente e variamente segnato l’educazione di Montini, grazie soprattutto all’opera dello stesso padre Bevilacqua, che fu il suo grande maestro.

Tra i testi qui pubblicati abbiamo un commento all’anno liturgico 1930-1931, apparso in “Azione Fucina”, il quindicinale della Fuci. Vi possiamo rilevare come tratti emergenti anzitutto una lucida teologia della ricorrenza degli eventi salvifici secondo il calendario della Chiesa: l’anno sacro è “stagione completa dello spirito”, rinnovamento e ripetizione della vita di Cristo e dei suoi misteri, così che la sua storia diventi storia dell’anima, è riflessione sulla sua dottrina, rigenerazione dell’incarnazione; giro di evoluzione totale dell’anima.Sono gli splendidi accenti e qui, direi, di sapore quasi caseliano, con cui Montini apre il suo commento: “Questo ciclo liturgico sarà ciclo dell’anima. Questa storia di Cristo deve ripetersi come storia della mia anima. Ogni anno la Chiesa rinnova il suo racconto su la vita di Gesù, ne ripensa la stessa dottrina, ne ripresenta i misteri, affinché tale vicenda sia la stagione completa dello spirito, avido di santità, avido di rigenerare in sé l’incarnazione del Signore. Vivere questa vicenda è compiere un giro di evoluzione totale dello spirito cristiano”.

Nella stessa linea, la vicenda della liturgia è sentita come riflesso e disegno della vicenda della vita, dal suo inizio alla sua fine: “Nella vicenda liturgica si riflette (…) la vita”.
Questa concezione dell’anno liturgico più analiticamente risalta in questo ampio sguardo che Montini volge sul corso del tempo coinvolto nella trama di un anno sacro: “L’anno liturgico è come l’immagine completa della vita: l’infanzia a Natale, l’adolescenza all’Epifania, la virilità, la fatica, il dolore, l’amore alla Pasqua, la pienezza e la fecondità alla Pentecoste, la saggezza e l’esperienza della cosidetta “vita vissuta” nel periodo successivo. Poi l’insistente meditazione dell’al di là, suscitata dalle solennità dei Santi e dei Morti aveva riempito lo spirito di gravi ed alti pensieri; s’era giunti al punto di desiderare l’eternità: ma come si poteva qualificare simile desiderio quale indice di vecchiaia e foriero della fine? che l’ultima avventura dell’uomo sia la sorpresa, e perciò lo spavento, di finire? L’ultima scena dovrebbe allora esser tragica e tremenda anche nel dramma liturgico. E lo è, difatti. L’ultima domenica dell’anno spirituale è infatti improntata a carattere di apocalittica tragicità”. “Dopo averci prospettato Gesù Fanciullo, Gesù Redentore, Gesù Pastore e Maestro, la liturgia ci svela, su uno sfondo di conflagrazione cosmica, Gesù Giudice”.
L’anno liturgico, dal suo inizio con la Prima domenica di Avvento, è sentito, in particolare, come un itinerario di ricerca del Signore, che parte dalla coscienza del proprio peccato: “Eravamo partiti – scrive Montini – in cerca del Salvatore per aver sperimentata la miseria dell’uomo”; ed ecco, di domenica in domenica, di festa in festa, il suo trascorrere scandire, non senza tratti drammatici segnati dalla stessa liturgia, le vicissitudini dell’anima.
D’altronde, secondo Montini, abbiamo “venuta di Dio nel cuore del tempo”. Lo stesso passare del tempo è, infatti, tutto avvertito non come un trascorrere cronologico insensato, ma come un tragitto temporale attraversato dalla grazia.

Con sensibilità e linguaggio, che ci verrebbe da dire “esistenziale”, discorre de “l’istante, in cui il fuggevole flutto del fiume, ch’è la nostra vita, sarà toccato dall’istante eterno. Il contatto del tempo con l’eternità riempie di trepidazione e di stupore”; la vita si trova interpretata come “trama dove il filo di Dio sta per passare a tessere l’unica tela della vostra vita!”.
È la ragione per cui – continua Montini – “ancor prima che l’aureo filo di Dio, scorra nei poveri cànapi umani, già questi mi son divenuti cari e preziosi. E mentre prima non capivo dove tendevano e come si sarebbero sbrogliati dall’intricata matassa delle vicende senza senso e senza connessione, ora già vedo come si distendono in sapiente disegno, e come la trama sfilacciata della vita umana si può intrecciare, serrare, unificare e fluire, come serico manto che rimonta su le spalle di Cristo”.

Questo – com’è chiamato – “aureo filo di Dio” è esattamente la grazia del tempo liturgico, in cui, tramite la memoria della Chiesa, si dispongono gli avvenimenti della salvezza: tale grazia riscatta e conferisce valore a tale “intricata matassa delle vicende” e ne permette una lettura soprannaturale, di là dal “ditirambo risonante” di altre “mille voci”, devianti e vane.
Mentre, proprio nel messaggio e nel dono delle molteplici festività dell’anno della Chiesa, e quindi in Cristo, da esse rivelato e offerto, l’uomo trova, in maniera multiforme, a seconda delle ricorrenze liturgiche, il compimento dei suoi più intimi desideri e quindi del suo amore.

Con spirito agostiniano Montini ritorna su questo tema dei desideri raccolti in “fascio”, che presentono Cristo e sono avviati e allineati a Lui, l’Uomo Dio nel quale si incarnano.
La concezione dell’anno liturgico si fonda, a sua volta, sulla convinzione che “i fatti storici della vita del Signore devono tradursi in fatti spirituali delle nostre anime”.
Scrive Montini in una magnifica pagina: “L’economia seguita da Dio nel disporre vicende della storia del Salvatore, corrisponde all’economia segreta e intima da realizzare nella direzione degli spiriti fedeli. Ciò che fu del Fratello Primo deve rinnovarsi in tutti i fratelli uomini. Ciò che fu nelle circostanze della sua vita fatto esteriore oltre che interno mistero, deve riprodursi nell’educazione delle nostre coscienze. La vita seguita da Dio per venire a noi segna la nostra via per andare da lui. Se così è: l’infanzia di Cristo ha da essere l’infanzia nostra. Come la nascita sua all’ordine nostro naturale deve significare nascita nostra all’ordine suo, soprannaturale, così ogni passo della sua vita darà ora un impulso al cammino spirituale dell’anima. Perciò il problema mio sarà questo: interpretare il significato spirituale della vita di Gesù per farlo precetto della mia. E qui la liturgia mi è chiave d’interpretazione. Letterale, simbolica, analogica, o quale? La liturgia dirà. E mostrerà quale ricchezza concettuale, quale meditazione teologica arricchisca la preghiera cristiana”.

È il motivo che si va ripetendo: il ciclo dell’anno liturgico, con le sue feste principali, tratteggia e raffigura “le leggi di sviluppo della spiritualità cristiana” descrivendo appunto così “l’itinerario dell’anima”, sul quale la “storia di Cristo” si ripete nostra storia, “come storia della mia anima”. Questi semplici accenti lasciano indovinare l’inesauribile ricchezza delle pagine liturgiche del giovane Montini: anche dopo i cambiamenti della riforma conciliare, esse conservano intatto il loro valore e la loro suggestione. Del resto, è quello che si deve riconoscere a tutto l’acuto e intenso magistero di Paolo VI, ingiustamente rimosso e trascurato.

Alcuni dei documenti pubblicati in questo volume hanno la forma di rapidi appunti, che le note provvedono a svolgere, completandone i riferimenti e le allusioni. Anche grazie a tale più compiuta lettura, rivelano la loro singolare importanza: indicano cioè quanto fosse approfondita e versatile la cultura liturgica del giovane Montini, e ampia la sua informazione bibliografica.

 

(©L’Osservatore Romano 23 luglio 2011)

La vergogna e la fortuna

 

un libro coraggioso  di Bianca Stancanelli (Marsilio, 350 pagine, 19 euro): ventuno storie di vita rom, ognuna con la sua specificità, senza mai nascondere nulla.

 

Nel 1422 una nuova popolazione si affacciò in Italia, e non riscosse il plauso di un cronista bolognese, rimasto anonimo. «Era la più brutta genia che mai fosse in queste parti. Erano magri e negri e mangiavano come porci». È passato qualche anno da allora, loro sono rimasti dalle nostre parti. Ma l’opinione di molti sui rom non è molto differente da quella riportata qui sopra. Anche per questo — per il suo essere un piccolo antidoto alla nostra eterna  paura dell’altro, perché affronta un tema scabroso e difficile — La vergogna e la fortuna (Marsilio, 350 pagine, 19 euro), di Bianca Stancanelli, è un libro coraggioso. Ventuno storie di vita rom, ognuna con la sua specificità, senza mai nascondere nulla, senza mai cadere nello stereotipo opposto, quello del popolo che a forza di essere vento assurge a una categoria poetica. Coraggioso non è sinonimo di militante. Stancanelli applica lo stesso metodo che ha usato per raccontare la vita di don Pino Puglisi in A testa alta: è la cara, vecchia cronaca, niente di più. Solo che questa volta il tema è dei più difficili per i nostri palati abituati al pregiudizio. E per vederne gli effetti, basta leggere la vicenda dei genitori dei 4 bimbi bruciati in una roulotte a Livorno nel 2007. Provate, se avete figli, a mettervi nei loro panni, come
talvolta capita in questi giorni con i padri storditi dall’afa che dimenticano i bimbi in macchina, ai quali offriamo una confusa solidarietà. E poi a proseguire, seguendo la violenza giudiziaria che hanno dovuto patire, colpevoli soprattutto di essere zingari. Questo libro non è un almanacco di tipi umani, perché ogni vicenda personale si fonde con informazioni decisive e sconosciute ai più. La vergogna e la fortuna, che tra gli altri pregi ha quello della bella scrittura, non fa sconti alla nostra memoria. Quanti si ricordano di Emilia Neamtu? Era la rom che tentò di fermare la mano di Nicolae Mailat, il delinquente che aggredì e straziò Giovanna Reggiani, al buio di un vialetto all’uscita di un fermata periferica della metropolitana di Roma. Mailat, romeno, divenne rom per ellissi e convenienza, Emilia cadde nell’oblio, non era funzionale alla narrazione richiesta allora. Alla fine restano soprattutto i volti delle persone, gli esempi di vita. Marta, che considerava Natale il tempo della vergogna, perché quello era il periodo in cui le toccava chiedere  l’elemosina per strada. La giovane rom di Torino che miete premi con i suoi film e un giorno, forse, stringerà la mano a
Woody Allen. E anche l’autrice, che non fa sconti a neppure a se stessa e descrive la sue esitazioni nel premere il citofono di un palazzo elegante per incontrare l’ex operaio Graziano Halilovic: in fondo, si scopre a pensare, uno zingaro deve stare in una baracca, non in un quartiere borghese.
Appunti a futura memoria da un libro esemplare, magari da far leggere a chi ancora la pensa come l’anonimo bolognese e straparla di zingaropoli. I rom sono fragili e forti, umani e furbi, virtuosi e imperfetti. Come tutti, come noi.

 

Marco Imarisio
in “Corriere della Sera” del 30 maggio 2011