Ortodossia: le sfide del secolo XXI. Sul futuro della teologia ortodossa

Il primo e, secondo la mia opinione, il grande problema della teologia ortodossa oggi è la mancanza di proposte positive. Quando nel decennio degli anni Sessanta la generazione dei teologi, alla quale io appartengo, «fece la rivoluzione» – in qualche modo – nella teologia accademica come l’avevano configurata al seguito dei modelli occidentali le generazioni precedenti (Androutsos ecc.) non si limitò alla critica ma avanzò anche proposte positive. Alcuni, come Giovanni Romanidis, attinsero alla tradizione esicasta e configurarono la teologia attorno all’asse del vissuto personale con un intenso elemento carismatico. Altri, come Christos Yannaras, hanno aperto la teologia ortodossa all’ambito della filosofia mettendo in luce l’ontologia della relazione. Personalmente ho trovato nella divina eucaristia la chiave per la comprensione, prima della struttura e delle funzioni della Chiesa e poi della stessa antropologia (con la nozione di persona come comunione e alterità) e infine del mistero stesso del Dio trino come essenza e persone, comunione e alterità.

Regno-att. n.20, 2011, p.661

 

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“Guerra o pace? I luoghi sacri contesi”

Studiosi e religiosi delle tre fedi abramitiche a confronto all’Angelicum

Luoghi sacri per l’umanità


Mai violare i luoghi sacri alle altrui religioni, anche in tempo di guerra, e “tenere i luoghi santi fuori dal conflitto”. È l’appello lanciato giovedì – dopo la notizia di due moschee date alle fiamme in Terra Santa – dagli studiosi e leader religiosi ebrei, cristiani e musulmani riuniti nella Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum) per elaborare un concetto comune di spazio sacro nelle rispettive tradizioni religiose. Si tratta di esperti teologi, giuristi e sociologi provenienti da dodici diversi Paesi, fra i quali Iran, India e Israele. Nel corso dei lavori, i partecipanti alla Conferenza “Guerra o pace? I luoghi sacri contesi”, hanno sottoscritto una dichiarazione comune: “Noi – vi si legge – assicuriamo il fermo impegno a proteggere tutti gli spazi santi di tutte le religioni. Questo impegno è sia teorico che pratico. In via di principio, ogni casa nella quale Dio è chiamato in verità e sincerità è santificata dalla ricerca di Dio e deve essere rispettata da tutti. In termini pratici, ogni atto di distruzione può in breve tempo rivolgersi contro gli stessi autori e generare un infinito ciclo di rappresaglie, contrari alla gloria di Dio”. Continua la dichiarazione: “Noi chiediamo a tutte le parti di non violare i luoghi sacri degli altri, anche in tempo di guerra. Questo impegno non è solo un segno di rispetto per l’unico Dio che tutti riconosciamo ma anche una via concreta per imparare a praticare il rispetto l’uno con l’altro”. Secondo gli studiosi e leader ebrei, cristiani e musulmani, “tenere i luoghi santi fuori dal conflitto è un piccolo passo per umanizzare una difficile condizione e per ricordare che Dio è il nostro più grande valore e la nostra più grande ispirazione”. “Preghiamo – è la conclusione – che tale riconoscimento possa aprire la strada per una maggiore comprensione, una maggiore armonia e per la pace”.
Come accennato, gli studiosi e religiosi – fra essi islamici sunniti come Yasir Qadhi, sciiti, come l’ayatollah Mostafa Mohaghegh Damas, e sufi, come lo sceicco Abd al-Wahid Pallavicini, insieme con il rabbino israeliano Daniel Sperber e Robert A. Destro, della Columbus School of Law – si sono riuniti all’Angelicum per un confronto inedito, nel quale sono esaminate le radici teologiche, politiche e sociali dei conflitti che riguardano la gestione dei luoghi sacri sui quali diverse religioni allo stesso tempo vantano diritti e autorità. L’obiettivo è quello di arrivare a una definizione condivisa di “luogo sacro” in modo da verificare, su base teologica, la legittimità dell’esclusione dei fedeli di altre religioni.
Un’esigenza sentita non solo riguardo ai luoghi sacri più noti ma anche in quelli di cui spesso non si parla, come in India, per esempio. Il controllo dei luoghi sacri alle religioni – affermano gli organizzatori – costituisce “un problema a livello globale” ma “il confronto sul tema può tramutarsi al tempo stesso in una occasione per un dialogo fra religioni consapevole e aperto alla possibilità, se non di una pace, almeno di una coesistenza pacifica”.
È dunque a questo fine che esperti di tutto il mondo si sono riuniti a Roma: l’obiettivo è quello di indicare soluzioni praticabili a questioni nelle quali spesso si inseriscono convenienze politiche ed emotività. Nella conferenza, sponsorizzata dal rabbino Jack Bemporad, direttore del Centro Giovanni Paolo II per il Dialogo interreligioso presso l’Angelicum, dal professor Cole Durham, della Brigham Young University (Utah), e dal professor Marshall Breger, della Catholic University of America (Washington DC), si sono affrontati diversi temi, dal concetto di sacro al suo significato teologico per le differenti religioni, dal negoziato per risolvere i conflitti all’analisi dei successi e gli insuccessi che si registrano nel mondo. Spiega il professor Breger: “Si discute raramente di teoria e di teologia riguardo a questo argomento ma esse hanno un peso determinante nel processo verso una coesistenza realmente pacifica”.

(©L’Osservatore Romano 18 dicembre 2011)

Fratelli d’Egitto. Ma i copti sono sempre più soli

Le elezioni politiche in Egitto si stanno svolgendo in più tornate successive e dureranno molti mesi. Ma è bastato il primo test elettorale al Cairo, ad Alessandria e in alcune altre città per seminare allarme.

I Fratelli Musulmani, col Partito della libertà e della giustizia, hanno ottenuto il 36 per cento dei voti. Il Blocco egiziano, che raggruppa le formazioni più sensibili alle richieste di libertà di piazza Tahrir, il 15 per cento. Ma la vera sorpresa è stato il 25 per cento di voti andato al Partito della Luce, Hizb an Nour, fondato dieci mesi fa dai salafiti, ossia dagli islamisti più radicali.

Nelle cancellerie dell’Occidente si è subito temuta una saldatura tra i Fratelli Musulmani e i salafiti, che sommati totalizzerebbero i due terzi dei seggi del futuro parlamento egiziano.

Ma un simile sbocco è tutt’altro che probabile. Per i Fratelli Musulmani i salafiti non sono affatto un possibile alleato, ma l’avversario più pericoloso ed ostile.

Padre Rafic Greiche, portavoce della minuscola Chiesa cattolica egiziana, prevede piuttosto che il Partito della libertà e della giustizia si allei con il blocco dei movimenti democratici. Una previsione che per lui è anche un auspicio: “per fermare leggi illiberali e pericolose per la minoranza cristiana”.

Il programma politico dei Fratelli Musulmani è lungo 45 pagine ed è quanto di più inaccettabile ci sia per gli integralisti salafiti. Così lo riassume Daniele Raineri in un reportage dal Cairo per “il Foglio”: “Adesione piena e senza ambiguità ai principi democratici della rappresentanza politica e del rinnovo periodico del potere con elezioni, piena dignità davanti alla legge di tutti gli egiziani, nessuna discriminazione per sesso, religione o razza, quindi non contro le donne o contro la minoranza cristiana. Due priorità: la sicurezza e l’economia”.

In una Fratellanza che nei suoi 83 anni di vita ha sempre alternato estremismo a moderazione e a dissimulazione, questo improvviso e conclamato innamoramento per la democrazia desta sospetti.

Ma è anche incontestabile che se c’è un modello al quale oggi i Fratelli Musulmani egiziani guardano, questo non è l’islamismo fondamentalista e retrogrado dei wahhabiti dell’Arabia Saudita, ma quello pragmatico della Turchia di Recep Tayyip Erdogan.

La recente visita del primo ministro turco in Egitto ha registrato un’accoglienza trionfale. In lui i Fratelli Musulmani vedono non solo un grande leader sunnita capace di conciliare islamismo e modernità, ma anche colui che ha restituito diritto di cittadinanza all’islam popolare, in una Turchia non più ostaggio dei generali.

In un Egitto dove tutte le cariche religiose, da al-Azhar all’ultima delle moschee, sono state fin qui di nomina del governo e sotto la tutela dell’esercito, l’apologia della laicità fatta da Erdogan durante la sua visita è stata interpretata da molti come un messaggio liberatorio, a favore di una religione finalmente affrancata dal controllo del Principe.

I Fratelli Musulmani si presentano anche con un volto amico per i copti, che con oltre dieci milioni di fedeli costituiscono la più grande minoranza cristiana in un paese arabo. Ne hanno messi alcuni nelle liste elettorali. Ed è copto il vicepresidente del Partito della libertà e della giustizia.

Ma fino a che punto è credibile – in particolare per i cristiani – questa metamorfosi del Fratelli Musulmani?

L’eccidio del 9 ottobre 2011 nel quartiere Maspero del Cairo, con 22 copti uccisi dai blindati dell’esercito, è stato per i cristiani d’Egitto un trauma senza precedenti, più sconvolgente di quelli provocati dagli innumerevoli atti di violenza e di vessazione subiti ad opera dei musulmani.

Quel baluardo di protezione ultima che, nella visione dei copti, era stato fin lì l’esercito, si era rivoltato loro contro, con l’opinione pubblica anch’essa schierata contro di loro.

Ed è passato un mese prima che il grande imam della moschea di al-Azhar, Ahmad Muhammad al-Tayyeb, convocasse dei leader musulmani e cristiani nella “Casa delle famiglia egiziana” ed emettesse un comunicato che definisce “martiri” gli uccisi e invoca “provvedimenti pratici necessari per rafforzare il dettato costituzionale del principio di cittadinanza per tutti gli egiziani”.

Il grande imam al-Tayyeb è uno dei firmatari della lettera amichevole inviata a Benedetto XVI da 138 saggi musulmani dopo la lezione di Ratisbona. Ma è anche colui che ha rotto le relazioni col Vaticano prendendo a pretesto la preghiera del papa per i cristiani uccisi nell’attentato dello scorso Capodanno in una chiesa copta di Alessandria d’Egitto e per tutte le vittime della violenza interreligiosa.

Al-Tayyeb ha anche rifiutato di prendere parte all’incontro di Assisi dello scorso 27 ottobre. Prima di essere grande imam della prima moschea del Cairo, è stato gran mufti e rettore dell’università di al-Azhar, la più importante del mondo musulmano sunnita. Ogni volta per nomina del presidente Mubarak, dal quale, dopo la sua caduta, ha preso marcatamente le distanze.

Sta di fatto che il rapporto tra musulmani e copti, in Egitto, si è molto deteriorato da un secolo a questa parte.

Nell’analisi che segue, Tewfik Aclimandos, docente di storia contemporanea del mondo arabo al Collège de France, tratteggia l’evoluzione di questo rapporto, giunto in questi ultimi anni al suo punto più critico.

L’analisi è uscita sull’ultimo numero di “Oasis”, la newsletter in cinque lingue, tra cui l’arabo, diretta da Maria Laura Conte e promossa dall’omonima fondazione internazionale con sede a Venezia, a sua volta nata da un’idea del cardinale Angelo Scola, quand’era patriarca della città.

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COPTI E MUSULMANI D’EGITTO: COME SI È ARRIVATI ALL’EMERGENZA DI OGGI

di Tewfik Aclimandos

[…] L’emancipazione copta è un processo messo in atto dalla dinastia di Mehemet Ali, soprattutto con l’abrogazione del testatico nel 1855 voluta da Said, culminata nell’unione sacrée dell’insurrezione anti-britannica del 1919. Laure Guirguis ha mostrato nella sua tesi l’originaria ambivalenza della concordia e della fraternizzazione tra comunità nell’ambito del grande partito nazionalista Wafd (1919). Il discorso del Wafd sulla laicità e sulla secolarizzazione è molto più islamico di quanto generalmente si creda. La monarchia egiziana e la costituzione del 1923 non smantellano le strutture dello Stato confessionale e non rimettono in discussione neppure per un istante l’esistenza di più statuti personali. Modernizzano le strutture e i dispositivi, li adattano, per quanto possibile, all’imperativo di uguaglianza e all’idea regolatrice di cittadinanza.

Ma, nei fatti, questa unione sacrée o questa simbiosi si basa su istituzioni, organizzazioni dello spazio, modi di fare, pratiche quotidiane che organizzano e facilitano la coesistenza. I quartieri “indigeni” dove abitano copti e musulmani e che possono essere contrapposti ai quartieri “europei” o “occidentalizzati” delle classi superiori e delle comunità europee sono bastioni del nazionalismo. Si vive uno accanto all’altro, si parla, ci si rende visita. Un sistema educativo statale che progressivamente prende il sopravvento su quello tradizionale controllato dagli ulema è accessibile agli egiziani delle classi medie emergenti, indipendentemente dalla loro confessione. I liceali manifestano insieme, fanno sport insieme, studiano insieme. Si conoscono.

Ma dopo il 1945 ciò che rendeva possibile questa unione verrà eroso. Non mi soffermerò qui sulla nascita della questione identitaria: l’Egitto è ancora un paese musulmano, con tutto ciò che questo implica? La domanda è stata posta, diffusa, espressa e valorizzata dalla confraternita dei Fratelli Musulmani. Ricordo però ciò che è meno evidente: uno dei fatti sociali principali degli ultimi cento anni è stato la liberazione della donna, la quale ha avuto accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e ha scelto il proprio marito. La comparsa della donna nello spazio pubblico sarà una delle cause, se non la principale, della creazione delle strutture comunitarie. In effetti, essa ha reso possibili i matrimoni tra persone di religioni differenti.

Considerati gli statuti personali e la legislazione, ogni matrimonio “misto” è però una conquista per la comunità musulmana e una perdita per le comunità non musulmane: se lo sposo è musulmano, lo saranno anche i figli, e un non musulmano per sposare una musulmana dovrà convertirsi all’islam. Stando così le cose, verranno lentamente attivate pratiche sociali volte a proibire la donna copta allo sguardo musulmano (per esempio, il capo di famiglia copto porterà i suoi figli da un medico copto) e a organizzare la promiscuità uomo-donna in uno spazio comunitario (le chiese creano dei club annessi al luogo di culto).

Per altri versi il principale deficit dei successori del presidente Nasser è stata l’indifferenza di fronte al terribile declino del sistema educativo egiziano, quando la scuola era il fattore e lo spazio d’integrazione per eccellenza. La degradazione e l’estensione dello spazio urbano rimettono in discussione gli stili di vita quotidiani e il vivere insieme, che erano lo zoccolo duro dell’unità nazionale. Infine, all’interno della comunità copta, gli equilibri interni tra grandi proprietari e clero si sono rotti a vantaggio di quest’ultimo a causa dei colpi inflitti ai primi dalle riforme nasseriane.

Forse queste evoluzioni erano difficili da contrastare. Ma le scelte politiche del presidente Sadat le aggraveranno al punto che esse si riveleranno irrimediabili. Il successore di Nasser, che vuole riconquistare il Sinai (occupato nel 1967) e mettere fine al partenariato con l’ingombrante padrino sovietico, ha bisogno dell’Arabia Saudita all’esterno e degli islamisti all’interno. Per distruggere le roccaforti di sinistra all’università cavalcando l’ondata di religiosità e di “ritorno a Dio” che ha fatto seguito alla disfatta del 1967, favorirà la nascita di un movimento islamista plurale, di discorsi islamisti radicali, alimentando troppo spesso uno o più odiosi discorsi anti-cristiani. Gli islamisti più estremisti non si accontentano di “suonarle alla sinistra”: le loro estorsioni a danno dei copti – da un racket presentato come ripristino della jizya agli omicidi, passando per l’incendio delle chiese – sono sempre più numerose. E soprattutto lo Stato, su indicazione dei vertici, guarda altrove.

La ferita è profonda e non sarà mai rimarginata. Queste pratiche rianimano la solidissima tradizione vittimistica e il culto del martirio dei copti, i quali percepiscono l’ambiente come unanimemente ostile e preferiscono il ripiegamento su se stessi. Diversi osservatori sono molto critici verso la gestione delle relazioni con lo Stato da parte di papa Shenuda III e ritengono che egli sia arrivato troppo spesso al “braccio di ferro”, che abbia fatto tutto il possibile per opporsi a Sadat, che si sia preoccupato soprattutto di consolidare il dominio del clero sulla comunità e che abbia favorito, all’interno di essa, la diffusione di ideologie antipatiche quanto i discorsi anti-cristiani dell’altra sponda. Non sono sicuro che questi analisti abbiano ragione su tutti i punti. Ricordo solamente che non è chiaro se papa Shenuda abbia avuto tutta la libertà che gli viene attribuita. Si tende a credere che egli sia all’origine di tutti gli “errori” della sua comunità o delle sue rivendicazioni, comprese le più irrealistiche, ma questo non è provato. Segnaliamo, al contrario, che il suo atteggiamento ostile verso Israele gli sarebbe valso un sostegno molto solido nella comunità intellettuale egiziana, musulmani e copti indistintamente, e che sarebbero stati numerosi i membri musulmani di questa comunità che avrebbero provato simpatia e manifestato il loro sostegno alle principali rivendicazioni copte.

Nonostante il proliferare, all’interno di ciascuna comunità, di discorsi odiosi che consolidano sgradevoli “immagini dell’altro”, nonostante l’attuazione quotidiana di pratiche di costruzione di spazi comunitari, nonostante il moltiplicarsi delle discriminazioni quotidiane ad opera di tutti, agenti dell’apparato di Stato e copti inclusi, nonostante infine la relativa frequenza di incidenti violenti, che sono talvolta veri e propri pogrom, la “questione confessionale” resta tabù fino al 2004 quando diventa improvvisamente uno dei temi principali del dibattito pubblico.

L’emergere della questione e le sue molteplici sfaccettature sono state studiate molto bene da Laure Guirguis. Non mi interessa qui studiare le prese di posizione assunte dagli uni e dagli altri, ma ricordare che la gerarchia copta non ha sempre dato prova di saggezza o giudizio. Oltre a qualche sconcertante eccesso verbale di alcune personalità (l’amba Bishoi, numero due della Chiesa, per esempio) che in virtù delle loro funzioni avrebbero dovuto essere prudenti, la sua gestione degli incidenti relativi alle conversioni reali o presunte all’islam delle mogli di alcuni preti desiderose di lasciare i loro mariti, è stata disastrosa. Tra l’altro queste mogli non si sono più viste, ciò che rende credibili le tesi e le voci che facevano pensare a un loro sequestro. Infine, la gerarchia copta ha spesso dato l’impressione di essere arrogante e di sfruttare la fragilità di un regime ansioso di piacere a Washington e di preparare la trasmissione ereditaria del potere. Dire questo naturalmente non significa affermare che gli attori statuali o religiosi musulmani siano stati molto più brillanti e la saggezza e l’umanità degli ultimi due grandi imam di al-Azhar sono l’importante eccezione che conferma la regola.

Ora c’è una situazione di emergenza. La principale evoluzione degli ultimi dodici anni è la “democratizzazione” degli incidenti interconfessionali. Questi non sono più appannaggio di qualche islamista fanatico che sente il bisogno di rifarsi sui copti. Oppongono ormai persone che abitano nello stesso quartiere. In qualsiasi lite fra vicini si rischia di perdere il controllo della situazione ed è un miracolo che ciò non accada più spesso.

Gli incidenti principali hanno due tipi di cause. A) la questione della costruzione delle chiese, un dossier che ormai non dà tregua all’apparato statale. Allo stato attuale è praticamente impossibile ottenere un’autorizzazione per la costruzione di chiese. I copti costruiscono perciò chiese illegali […] e spesso, queste chiese illegali o decretate tali sono incendiate da una popolazione infastidita dalla loro presenza, con una intolleranza, sia detto en passant, che cinquant’anni fa sarebbe stata inimmaginabile. B) le storie d’amore tra persone di confessione diversa, soprattutto se si traducono nella partenza della giovane, che lascia il domicilio famigliare. Nessuna delle due comunità sembra disposta a riconoscere il diritto degli individui alla felicità; e quella copta è maggiormente giustificabile poiché perde membri a ogni matrimonio misto.

Questo quadro, molto fosco, spiega il vero e proprio panico che si è impadronito della comunità copta. Essa sapeva che l’assolutismo di Mubarak, malgrado i suoi difetti, costituiva una protezione e apportava una dose apprezzata di liberalismo. Mubarak poteva fare concessioni agli oscurantisti, ma non era uno di loro. Certamente non ha riservato al problema l’attenzione che meritava ma, fino a prova contraria, non l’ha consapevolmente aggravato. Questo panico sarà acuito, in un primo tempo, dall’eccidio del 9 ottobre 2011 nel quartiere Maspero del Cairo (nell’inconscio copto l’esercito era il baluardo del legame nazionale, il rappresentante dello Stato-nazione egiziano, il protettore ultimo). Il protettore è diventato nel giro di poche ore il carnefice e questo lascerà tracce profonde. In alcune città di provincia le famiglie che hanno i mezzi per farlo cercano di emigrare e, dallo scorso gennaio, oltre 93.000 copti hanno abbandonato il territorio. Resta da capire se è una situazione temporanea a meno.

Il quadro è già abbastanza cupo e non è il caso di dipingerlo a tinte ancora più fosche. È bene notare che la comunità intellettuale, l’intelligentsia, è molto sensibile al problema e sono molto numerosi i suoi membri che hanno spesso preso le difese dei copti, sapendo trovare le parole giuste e sbagliando di rado. Ancora più rassicurante è il fatto che se i copti, in generale, hanno avuto il sostegno dei musulmani che non avevano alcun problema con la nozione di uguaglianza dei cittadini, ricevono sempre più l’appoggio di quanti, molto numerosi, pur non accettando questa nozione di uguaglianza e non amando veramente i cristiani, sono indignati dai maltrattamenti inflitti ai copti e condannano con fermezza e veemenza le uccisioni, gli incendi dei luoghi di culto e dicono a voce alta che l’Islam “non è questo” e che non vogliono più che si verifichino fatti simili.

Resta ancora molto da fare – tra le altre, un aggiornamento copto – e non dovremmo minimizzare i pericoli: abbiamo visto come alcune centinaia di militanti siano riusciti, l’11 settembre 2001, a devastare il rapporto tra l’islam e l’Occidente per almeno un decennio. Detto questo, non bisogna neppure sottovalutare le energie e la vitalità dell’umanesimo musulmano, il primo a essere minacciato dall’estremismo.

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Il testo integrale dell’analisi di Tewfik Aclimandos, in “Oasis”:
> Copti e musulmani d’Egitto: come si è arrivati all’emergenza di oggi

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Il comunicato del grande imam di al-Azhar, Ahmad Muhammad al-Tayyeb, a commento dell’eccidio di copti compiuto dall’esercito il 9 ottobre 2011 nel quartiere Maspero del Cairo:
> Uno shock per la coscienza dell’Egitto

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Sulla Turchia di Erdogan come modello per i Fratelli Musulmani d’Egitto, in un’analisi di Tewfik Aclimandos per “Oasis”:
> Come Erdogan affascina gli egiziani

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Sugli orientamenti dell’opinione pubblica egiziana, in un’inchiesta del Pew Forum on Religion & Public Life di Washington:

> Il “democratico” Egitto manda a morte gli apostati

“La teologia del Novecento”

Il libro:

Fulvio Ferrario, “La teologia del Novecento”, Carocci, Roma, 2011, pp. 304, euro 24,00.

 

È uscito quest’anno in Italia un libro sulla teologia del Novecento scritto da un teologo protestante, il valdese Fulvio Ferrario, che colpisce non solo per la rara chiarezza e ricchezza dell’esposizione e per l’efficacia narrativa, ma anche per il rilievo dato ad alcuni grandi teologi che sono, tra i non cattolici, proprio i più vicini alla visione e alla sensibilità dell’attuale papa, lui stesso teologo.

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Il primo è Oscar Cullmann (1902-1999), nato a Strasburgo, vissuto a Basilea e ospite a Roma, negli anni del Concilio Vaticano II, della stessa facoltà teologica valdese nella quale Ferrario insegna.

Ferrario lo annovera “tra i teologi protestanti più apprezzati in campo cattolico”. Pur meno famoso di un Barth, di un Bultmann, di un Bonhoeffer, Cullmann ha lasciato un’impronta forte e durevole.

È lui che ha coniato la formula – divenuta d’uso universale – del “già e non ancora” per esprimere la dialettica tra la salvezza già realizzata da Cristo e l’attesa del compimento finale.

Ed è lui, soprattutto, che ha insistito in ogni sua opera – da “Cristo e il tempo” a “La cristologia del Nuovo Testamento” – sulla continuità tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Cullmann era prima di tutto un grande esegeta delle Sacre Scritture, ma ha sempre coniugato la ricerca filologica e storiografica alla riflessione teologica. E “nella ricerca di questo difficile equilibrio – scrive Ferrario – egli costituisce un modello, in una stagione nella quale la difficoltà di comunicazione tra le due discipline raggiunge livelli pericolosi”.

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Un secondo grande teologo messo in primissimo piano da Ferrario è il tedesco Wolfhart Pannenberg, luterano, 83 anni.

In lui il nesso tra teologia e filosofia è strettissimo. Il Cristo crocifisso e risorto è l’evento capitale – raggiungibile anche dalla scienza storica – che consente di afferrare il senso della storia universale dell’uomo e del mondo. La rivelazione di Dio è storia; e lo smarrimento di questo orizzonte è la radice della crisi della cultura contemporanea. “È abbastanza facile notare – scrive Ferrario – le obiettive convergenze di questa impostazione con molte tesi del magistero cattolico romano”.

Non solo. Anche nella dottrina dei sacramenti e dei ministeri ordinati le riflessioni del protestante Pannenberg si avvicinano a quelle cattoliche. Ferrario sottolinea che “egli ritiene non solo possibile, ma a certe condizioni persino auspicabile, che il protestantesimo riconosca l’importanza del cosiddetto ‘ministero petrino’, cioè del papato”.

Lo stesso avviene nel campo della teologia morale:

“L’orientamento generale del pensiero di Pannenberg e la sua fiducia nelle possibilità teoriche di un’etica filosofica di derivazione aristotelica lo conducono a guardare con un marcato sospetto a molti orientamenti delle società secolarizzate in campo morale, ad esempio in materia di sessualità. In alcune occasioni egli esprime pubblicamente il proprio disaccordo nei confronti di posizioni che gli appaiono troppo ‘permissive’ delle Chiese evangeliche tedesche”.

Ma ciò non trattiene Ferrario dal concludere il profilo di Pannenberg – cioè del più “ratzingeriano” dei grandi teologi protestanti viventi – con questo altissimo apprezzamento:

“Nel contesto postmoderno, il pensiero di Pannenberg detiene un’inattualità che affascina e stimola. L’appello al rigore e alla portata universale della ragione critica, l’insistenza su una visione della fede come ‘grande narrazione’, addirittura storico-universale, costituisce una provocazione nei confronti della retorica di una teologia che vorrebbe ridursi all’autobiografia del teologo. Pannenberg ha in comune con i classici della riflessione teologica l’idea di un pensiero intrepido, che non accetta di fermarsi prima di aver incontrato la realtà di Dio. Ed è questo ardire del concetto che ne fa, al di là di ogni critica, un maestro”.

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Una terza personalità messa in forte rilievo da Ferrario nel capitolo dedicato alla teologia delle Chiese ortodosse è Ioannis Zizioulas, metropolita di Pergamo.

Zizioulas è il vescovo-teologo più autorevole del patriarcato ecumenico di Costantinopoli ed è amico di lunga data di Joseph Ratzinger. “Egli sviluppa – scrive Ferrario – l’idea della Chiesa come comunità che scaturisce dall’eucaristia. E in quanto tale essa è, non in senso teorico ma altamente realistico, corpo terreno del Risorto e partecipazione alla vita trinitaria”.

Non meraviglia, quindi, che “l’ecclesiologia eucaristica di Ioannis di Pergamo è assai utilizzata e apprezzata in ambito ecumenico. Essa è infatti molto organicamente, ed elegantemente, legata all’insieme della visione teologica e permette una comprensione della Chiesa in chiave anzitutto mistico-sacramentale, contro una deriva giuridica della quale, a volte, gli stessi cattolici romani evidenziano almeno alcuni limiti”. Una comprensione della Chiesa alla quale, riconosce Ferrario, “la mentalità protestante reagisce per contro in modo ambivalente”.

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Nella pagina finale del suo avvincente viaggio nella teologia del Novecento, Ferrario cita la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, con la sua rivendicazione di uno spazio pubblico per la teologia nelle moderne università del sapere.

E così conclude:

“Il nostro sguardo alla storia della teologia del Novecento dovrebbe aver mostrato che la teologia è stata ‘pubblica’ proprio quando è stata ecclesiale: quando cioè ha dato espressione intellettualmente critica al tentativo della comunità cristiana di annunciare l’evangelo nel mondo. […]

“I metodi esegetici, storici, filologici impiegati dalla teologia saranno gli stessi delle scienze religiose o delle teorie del cristianesimo che già ora l’affiancano e con le quali il pensiero ecclesiale è chiamato a dialogare serenamente.

“Ma diverso è il compito che la teologia cristiana si ostina a ritenere che le sia assegnato dal suo Signore: quello di contribuire, mediante la riflessione, al ministero della Chiesa, cioè alla predicazione della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, nell’attesa della sua venuta”.

E con questa limpida sentenza del più autorevole teologo protestante italiano, i molti falsi teologi che oggi affollano il proscenio – per “umanizzare” Gesù invece che predicarlo vero Dio e vero uomo – sono serviti.

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L’autore è professore di dogmatica e discipline affini presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma e docente invitato presso l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia. Dirige la rivista teologica della Facoltà Valdese “Protestantesimo”.

Sandro Magister

 

Lo spirito di Assisi

 

due libri delle Edizioni Qiqajon:
– Il dialogo cambia la fede? di Jean-Marie Ploux, e Insieme per pregare. Le religioni nello «spirito di Assisi»
cura di Matteo Nicolini Zani

 

 

Sono trascorsi venticinque anni da quando papa Giovanni Paolo II, sorprendendo molti, anche tra i suoi più stretti collaboratori, promosse «un incontro di preghiera per la pace» da tenersi ad Assisi, luogo divenuto grazie a san Francesco «centro di fraternità universale». L’annuncio delle «consultazioni con i responsabili non solo di varie chiese e comunioni cristiane, ma anche di altre religioni del mondo» venne dato a Roma a conclusione dell’ottavario per l’unità dei cristiani. Ora, a distanza di un quarto di secolo, Benedetto XVI rilancia lo «spirito di Assisi» invitando anche  «tutti gli uomini di buona volontà» per una giornata di pellegrinaggio, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo.
Ma cosa si intende davveroper «spirito di Assisi»? Le Edizioni Qiqajon hanno pubblicato due volumi che permettono di sviscerarne il significato profondo: il primo – Il dialogo cambia la fede? di Jean-Marie Ploux, (pp. 290, € 25) – analizza le implicazioni del dialogo interreligioso nella vita e nella testimonianza della chiesa, mentre il più recente Insieme per pregare. Le religioni nello «spirito di Assisi» (a cura di Matteo Nicolini Zani, pp. 168, €16) ripercorre i testi che in questo ampio lasso di tempo, attraversato da eventi storici di grande portata, hanno alimentato la riflessione dei cristiani sui loro rapporti con le altre religioni e sul loro atteggiamento verso la pace e la giustizia. Vi troviamo innanzitutto uno spaccato delle motivazioni all’origine dell’iniziativa e una raccolta degli appelli e dei discorsi che ne precisarono il senso e il contesto.
Una seconda parte analizza le sfide che la preghiera «interreligiosa» pone, attraverso i documenti ecumenici che hanno affrontato teologicamente i vari aspetti del problema. Una rilettura del magistero di Benedetto XVI su questa tematica così decisiva per la testimonianza dei credenti nel mondo di oggi e lo status quaestionis attuale ad opera di uno dei più acuti interpreti cattolici del dialogo interreligioso, il vescovo Michael Fitzgerald chiudono la raccolta.

Dalle pagine emerge il consenso sulla possibilità di trovarsi «insieme perpregare» – cosa diversa dal più coinvolgente e impraticabile «pregare insieme» – e l’arricchimento che nasce da un sincero dialogo tra credenti. La fede non viene scossa dall’aprirsi agli altri, ma riceve anzi risorse per narrarsi in un linguaggio più comprensibile e per tradursi in un operare fecondo. Il dialogo, infatti, «non cambia la fede»: non porta cioè a un tradimento delle proprie radici, ma può mutare l’espressione e la consapevolezza del credere, a beneficio non solo di chi il dialogo lo pratica, ma anche di quanti ne raccolgono i frutti, dentro e fuori l’ambito delle singole religioni.
Perché, come ha avuto modo di scrivere il card. Etchegaray, tra i protagonisti del primo incontro: «Assisi ha fatto fare alla chiesa uno straordinario balzo in avanti verso le religioni non cristiane…

Ha permesso a uomini e donne di testimoniare, nella preghiera, un’esperienza autentica di Dio al cuore delle loro religioni». Ravvivare lo «spirito di Assisi» in un mondo disorientato e alla ricerca di senso è allora un servizio che i cristiani, insieme tra loro e con i credenti di altre religioni, possono offrire ai loro fratelli e alle loro sorelle in umanità.

 

in “La Stampa” del 1° ottobre 2011

L’ecumenismo secondo Benedetto XVI

Molte erano le aspettative dalla visita del papa in Germania sul capitolo dell’ecumenismo. In un luogo simbolico, il convento degli agostiniani di Erfurt, dove il giovane Martin Lutero fu monaco e
prete della Chiesa cattolica, e davanti alle autorità della potente chiesa evangelica tedesca, Benedetto XVI ha ridefinito a suo modo la posta in gioco del dialogo ecumenico.
Si possono leggere le grandi linee della sua posizione, che diverge in parte da quella del suopredecessore, nell’attacco inatteso contro altri cristiani.
Evocando «una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con immenso dinamismo missionario» – nel quale si possono riconoscere le correnti evangeliche pentecostali -, il papa opera una requisitoria feroce.
Questa corrente è tacciata di «cristianesimo di debole densità istituzionale, con poca consistenza razionale e ancor meno consistenza dogmatica e anche con poca stabilità». Ci metterebbe, afferma il papa, «nuovamente di fronte alla questione di sapere ciò che resta sempre valido, e ciò che può e deve essere cambiato».


Criteri


Dietro l’esigenza istituzionale esposta da Benedetto XVI appare l’imperativo di situarsi in una storia e, soprattutto, in una tradizione, cosa che di solito manca a comunità che spuntano come funghi attorno al carisma di un solo uomo e che rivendicano la loro indipendenza.
Non si può qui dimenticare il testo Dominus Jesus del 2001, nel quale il cardinal Ratzinger considerava la successione apostolica (la trasmissione ininterrotta da vescovi a vescovi) come una condizione necessaria per essere una vera chiesa.
Anche se i luterani rispondono solo in parte a questo esigente criterio, il papa, a Erfurt, ha preferito non tornare su quel testo, accolto molto male all’epoca in ambiente protestante.
La seconda critica – la debolezza della consistenza razionale – fa eco ad una affermazione abituale di Benedetto XVI che non cessa di martellare sul fatto che la fede cristiana deve essere edificata sulla ragione, la quale conduce naturalmente a Cristo e a Dio. La forte presenza dell’emozione nel rito, con pratiche nelle quali il corpo sembra prevalere sullo spirito, è in questa prospettiva molto sospetta al vescovo di Roma.
In terzo luogo i pentecostali mancherebbero di struttura dogmatica. È incontestabile, ma è anche la ragione del loro successo. Il rilievo si applica ugualmente a tutti coloro che vorrebbero  liberarsi da regole giudicate secondarie o troppo repressive nelle attuali società occidentali.
Vissute timidamente nel cattolicesimo o esibite apertamente presso i riformati più liberali, le velleità moderniste dei gruppi più attenti ai valori cristiani che non alle esigenze ecclesiali, sono qui prese di mira. Al di fuori di uno stretto inquadramento non c’è salvezza, dice il papa.


Instabilità


L’ultimo rilievo indirizzato alle correnti cristiane pentecostali riguarda la loro instabilità. Nella tradizione protestante, qualunque divergenza può essere pretesto per un’uscita e per la  reazione di una nuova chiesa.
Nel contesto cattolico, l’insistenza del papa su questo punto è un segnale di fronte ai progetti dichiarati di indipendenza, in Austria e altrove, e di fronte ai promotori di evoluzioni interne.
Ma il richiamo alla stabilità mette anche in discussione i percorsi di avvicinamento e di piccoli passi che hanno lungamente ritmato il cammino ecumenico. Così, Benedetto XVI qualifica il “dono ecumenico dell’ospite”, dietro il quale si può vedere l’ospitalità eucaristica (accoglienza alla comunione di fedeli luterano-riformati) come «cattiva comprensione politica della fede e dell’ecumenismo».
Di fronte «all’assenza di Dio nelle nostre società (che) si fa più pesante», il «compito ecumenico centrale» consisterebbe ormai nel ripensare la fede, non edulcorandola, ma vivendola «integralmente nel nostro oggi».
Ciò che seguirà a questo discorso fondatore ci dirà se i nuovi binari ecumenici, nei quali gli ortodossi si immetteranno senza difficoltà, incontreranno il favore di tutta la galassia dei fedeli.


in “www.temoignagechretien.fr” del 28 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

“Dove c’è Dio, là c’è futuro”

 

è questo il titolo che Benedetto XVI ha voluto dare alla sua terza visita in Germania, che comincia domani.

 


Che la “priorità” di questo pontificato sia riavvicinare gli uomini a Dio, papa Benedetto l’ha detto più volte. Ma il caso della Germania rende tale sua urgenza ancor più impellente.

L’ex Germania dell’Est, assieme all’Estonia e alla Repubblica Ceca, è il territorio europeo in cui gli atei sono più numerosi e in cui i non battezzati sono la maggioranza.

A Berlino e ad Erfurt, la città di Lutero, papa Joseph Ratzinger entrerà proprio in questo perimetro di massimo allontanamento dalla fede, in Europa.

Ma anche a Friburgo in Brisgovia, terza tappa del suo viaggio, l’affievolimento della fede cristiana è un fenomeno esteso.

È uscito di recente in Germania, pubblicato da GerthMedien, un libro che analizza il declino del cristianesimo in questo paese in termini molto crudi.

Già il titolo è eloquente: “Gesellschaft ohne Gott. Risiken und Nebenwirkungen der Entchristlichung Deutschlands [Società senza Dio. Rischi ed effetti collaterali della scristianizzazione della Germania]”.

L’autore è Andreas Püttman, 47 anni, ricercatore presso la fondazione Konrad Adenauer come sociologo dei processi culturali, già vincitore del Katholischen Journalistenpreis, il premio per il giornalismo promosso dai media cattolici tedeschi.

Non solo ad Est, ma nell’intera Germania meno della metà della popolazione, il 47 per cento, afferma di credere in Dio.

Dal 1950 ad oggi i protestanti sono crollati da 43 a 25 milioni. Mentre i cattolici erano nel 1950 25 milioni e altrettanti sono rimasti oggi, perdendone anch’essi molti per strada.

Se nel 1950 un cattolico su due andava a messa tutte le domeniche, oggi nell’Ovest del paese solo l’8 per cento ci va. Nell’ex Germania orientale, dove i cattolici sono una piccola minoranza, questa quota è del 17 per cento.

L’età media dei praticanti è ovunque di 60 anni. E solo il 15 per cento dei tedeschi sotto i 30 anni, ovvero i potenziali genitori della futura generazione, considera l’educazione religiosa importante per i figli.

Quanto ai contenuti della fede, solo il 58,7 per cento dei cattolici e il 47,7 per cento dei protestanti crede che Dio ha creato il cielo e la terra. E ancora meno sono coloro che credono nel concepimento verginale di Maria o nella resurrezione dei morti. Solo il 38 per cento dei tedeschi considerano il Natale una festa religiosa.

In questo avanzante deserto della fede come può entrare in opera la “nuova evangelizzazione”, altro grande obiettivo di questo pontificato?

Le forme possono essere molto varie. Una di queste è descritta nel reportage che segue, pubblicato lo scorso 20 luglio da “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale italiana.

Teatro del reportage è Chemnitz, già Karl-Marx-Stadt, una delle città più vuote di fede della già vastamente scristianizzata ex Germania orientale.

Protagoniste della rinnovata evangelizzazione sono alcune famiglie di cattolici neocatecumenali, lì giunte con questa finalità missionaria da altri paesi d’Europa.

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IN MISSIONE NEL PROFONDISSIMO EST

di Marina Corradi

Fuori il sole è ancora alto, d’estate, ma alle otto di sera le strade sono già semideserte. Siamo a Chemnitz, Theater Strasse 29, in un vecchio palazzo appena ristrutturato che sa ancora di calce fresca. Delle famiglie neocatecumenali ciò che più ti colpisce, quando le vedi insieme come questa sera, sono i figli: sei coppie, ciascuna con nove o dodici o anche quattordici ragazzi. In tutto sono una settantina, adolescenti o da poco sposati. E guardi le loro facce, i loro occhi lucenti, e pensi: che meraviglia, e che ricchezza abbiamo perso, noi europei del figlio unico, mentre da una stanza accanto arriva perentorio lo strillo di uno dei primi nipoti.

Commuove, la piccola folla di ragazzi cristiani stasera a Chemnitz, ex Karl-Marx-Stadt. Perché in quest’angolo di ex Repubblica Democratica Tedesca la civiltà nacque, nell’anno 1136, da un pugno di monaci benedettini, che fondarono un’abbazia; e si erano portati dietro delle famiglie cristiane che vivevano attorno al convento e disboscavano le foreste, per farne terra da coltivare; e anche quelle famiglie avevano una decina di figli ciascuna.

Che la storia possa ricominciare, quando sembra finita? Te lo domandi in questa città silenziosa e spenta, dove un abitante su quattro è vecchio, e spesso solo, e soli sono i figli unici di famiglie disfatte. La gente di qui si volta a guardare, se una famiglia neocatecumenale esce con anche solo una metà dei suoi figli. E se un compagno di scuola capita a casa a pranzo, incredulo fotografa con il cellulare la folta tavolata.

La missione “ad gentes” di Chemnitz, composta di due comunità, ciascuna accompagnata da un sacerdote, è formata da due famiglie italiane, due spagnole, una tedesca e una austriaca. I padri, in patria, avevano un lavoro sicuro. Negli anni ’80 partirono per la prima missione. Li mandò il fondatore del Cammino neocatecumenale Kiko Arguello, accogliendo un desiderio di Giovanni Paolo II: cristiani che riportassero il Vangelo nelle periferie delle metropoli occidentali. Andrea Rebeggiani, professore di latino e greco, lasciò con la moglie e i primi cinque figli la sua casa a Spinaceto, periferia sud di Roma, e approdò nel marzo 1987 in una Hannover sommersa da una tempesta di neve. Anche Benito Herrero, ricco avvocato catalano, abbandonò tutto e venne qui, a studiare tedesco alle scuole serali assieme ai profughi curdi.

E già era una straordinaria avventura. Ma nel 2004 il Cammino neocatecumenale ideò un altro passo: famiglie accompagnate da un sacerdote si sarebbero trasferite nelle città più scristianizzate, semplicemente per stare tra la gente ed essere il segno di un’altra vita possibile. Una struttura, in sostanza, benedettina. Il vescovo di Dresda, Joachim Friedrich Reinelt, invitò i neocatecumenali a Chemnitz, della ex DDR forse la frontiera più dura. E di nuovo queste famiglie partirono. Non solo i genitori, ma anche i figli, liberamente, uno per uno. “Avevamo solo cinque o sei anni quando abbiamo lasciato il nostro paese”, spiega oggi Matteo, figlio di Andrea. Ora siamo grandi, questa volta è la nostra missione”.

Difficile la vita a Chemnitz, in questa provincia povera che sa ancora di DDR, per dei ragazzi cresciuti all’Ovest. Qualcuno soffre, se ne va. Poi, quasi sempre, ritorna. Dura la vita dei padri, di nuovo in cerca di lavoro a cinquant’anni. Se lo stipendio non basta, si vive degli assegni familiari del welfare tedesco e dell’aiuto delle comunità neocatecumenali di provenienza. Con le quali il legame è forte. In patria, per queste famiglie le comunità recitano costantemente il rosario. In estate mandano qui i ragazzi, a fare la missione cittadina: un’esplosione di allegria per le solitarie vie di Chemnitz, da quei gruppi di adolescenti romani o spagnoli.

Discussioni alla porte del cimitero: “Sapete che le ossa dei vostri morti risorgeranno, un giorno?”. I più, della gente di Chemnitz, alzano le spalle e se ne vanno: “Soprattutto i vecchi, sembrano non tollerare di sentire parlare di Dio”. Ma la vera missione, dice l’avvocato Herrero, “è essere qui”. Qui nella vita quotidiana, dietro ai banchi o al lavoro, tra gente che ti guarda e non capisce, che domanda e si stupisce; scontrosa, diffidente, impaurita. Essere qui: come Maria, 27 anni, maestra in un asilo dove tanti genitori sono già divisi, e testimoniare di una famiglia in cui ci si vuole bene per sempre.

Come uno dei ragazzi spagnoli, barista d’estate in una gelateria: ha incuriosito il proprietario, che una sera è venuto a sentire la catechesi, e poi è ritornato. Piccolissimi numeri: ma non c’è smania di proselitismo in questa gente. Già lieti d’essere qui: “La missione prima di tutto educa noi e i nostri figli all’umiltà. Non siamo dei superman, ma uomini come gli altri, fragili e paurosi”. Paurosi? Ci vuole un coraggio da leoni per lasciare tutto e con una nidiata di bambini partire per un paese sconosciuto.

Da dove viene il coraggio? “Dio – ti rispondono – chiede all’uomo ciò che ha di più caro, proprio come lo chiese ad Abramo, che offrì suo figlio Isacco. Ma se offri tutto a Dio, scopri che lui ti dona molto di più. Ed è fedele, e non ti abbandona”. Quante storie, fra questi cristiani che invecchiano lietamente in una corte di figli e nipoti. C’è il professore ex sessantottino che a trent’anni si sentiva finito e disilluso, e ora ha 9 figli e 7 nipoti, più 3 in arrivo. C’è l’informatico che da adolescente ha sofferto dell’abbandono del padre, e ha perso la fede; e sa cosa possono avere in testa questi ragazzi di Chemnitz, con i loro affetti divisi. Ragazzi che invidiano i suoi figli: “Che fortuna – ci dicono spesso – voi tornate da scuola e mangiate tutti assieme. Noi mangiamo soli, o con il gatto”. In un lampo di nostalgia di una famiglia vera.

“Ci sono segni capaci di toccare anche il cuore dei più lontani – dice Fritz Preis, da Vienna – e noi siamo qui per portarli a questa gente”. Ma quale motore spinge un così sbalorditivo lasciare ogni certezza? “Io ho fatto tutto questo per gratitudine”, risponde l’avvocato catalano. “Gratitudine per mia moglie, per i figli, per la vita, per tutto quello che Dio mi ha dato”.

Taci, perché un cristiano “normale”, già in affanno con i suoi pochi figli nel suo paese, resta muto davanti alla fede di queste famiglie; testimoni di un Dio che chiede tutto, ma dà molto più di quanto ha ricevuto. Taci, davanti alla serenità delle quattro sorelle laiche che assistono le famiglie nelle necessità quotidiane: “Io volevo semplicemente mettermi al servizio di Dio”, dice Silvia, romana, con un sorriso che trovi raramente nelle nostre città. Le vedranno, queste facce, questa singolare letizia, qui, dove non credono più in niente? Quando i neocatecumenali spiegano che sono venuti da Roma e Barcellona, per annunciare che Cristo è risorto, la gente di Chemnitz si ritrae turbata, come disturbata in un sonno pesante. Talvolta rispondono: “Vorremmo crederci, ma non ne siamo capaci”.

Due generazioni senza Dio sono tante, per la memoria degli uomini. Ma quando, un giorno, alcuni dei figli del professor Rebeggiani si sono messi a cantare dal balcone di casa – per la pura gioia di farlo – l’antico canto “Non nobis Domine sed nomini tuo da gloriam”, i vicini si sono affacciati, e sono rimasti ad ascoltare. E una vedova ha chiesto ai ragazzi di cantare lo stesso canto al cimitero, in memoria del marito morto. Così è stato, e fra i presenti uno è si è avvicinato, alla fine: “Da tanto tempo – ha detto – non sentivo qualcosa che mi desse una speranza”.

Chissà, ti chiedi, se anche per quel pugno di monaci benedettini e di laici arrivati qui nel 1136 non sia cominciata così: con lo stupore di uomini che intravedevano in loro una bellezza, e ne provavano una misteriosa nostalgia.

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Il quotidiano della conferenza episcopale italiana che ha pubblicato il reportage, nel quadro di un’inchiesta a puntate su “I semi della fede” in varie città di più continenti:

> Avvenire

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Ancora “Avvenire”, il 14 settembre, ha pubblicato la seguente sintesi del libro di Andreas Püttman:

> Scristianizzazione, la sfida della Germania

 

 

ALTRI ARTICOLI

 

un primo bilancio della visita in Germania di papa Benedetto XVI di Wir sind Kirche in Wir sind Kirche Deutschland del 25 settembre 2011 (http://www.wir-sind-kirche.de)

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30.9.2011

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