Una suora detective in stile Don Matteo

Nell’ultima puntata di Don Matteo 8, andata in onda giovedì scorso, l’abbiamo vista incrociare il sacerdote sfrecciando sul suo furgoncino blu. Adesso suor Angela, al secolo Elena Sofia Ricci, arriva su Raiuno il giovedì in prima serata (da domani) proprio al posto del prete-investigatore campione di ascolti, in Che Dio ci aiuti, la nuova serie giallo-rosa targata Lux Vide, diretta da Francesco Vicario e interpretata, oltre che dalla Ricci, anche da Massimo Poggio, Serena Rossi, Francesca Chillemi, Miriam Dalmazio, Marco Messeri e Valeria Fabrizi. Sedici gli episodi previsti, per otto prime serate, ambientate a Modena, la città in cui suor Angela vive, nel Convento degli Angeli Custodi, trasformato dalla religiosa, per motivi economici, in un convitto universitario con tanto di bar “L’angolo Divino”. La vita di suor Angela, con un passato non proprio cristallino con il quale sta ancora facendo i conti, si incrocia sin da subito con quella di Marco Ferrari, brillante ispettore di polizia (anche lui con un passato che finirà per venire a galla), e, soprattutto, con le sue indagini.

Elena Sofia Ricci racconta: «Il ruolo della suora mi è sembrato subito una bella sfida. E mi ha offerto anche l’occasione per scoprire qualcosa in più, di ritrovare un po’ quella parte spirituale che c’è in ognuno di noi e che tutti dovremmo ritrovare soprattutto in periodi come questo. In Che Dio ci aiuti ho provato a fare la suora che avrei voluto incontrare nella vita: un po’ don Matteo e un po’ don Camillo e anche un po’ Sister Act». Per prepararsi, l’attrice ha passato due giorni in un convento di clausura: «È stata un’esperienza incredibile.

Le suore mi hanno letteralmente sommersa di un amore che non è di questo mondo. Mi ero sempre chiesta come potesse essere la vita delle suore dietro quelle grate e Che Dio ci aiuti mi ha dato la possibilità di vederla da vicino anche se non nascondo che, all’inizio, è stato un po’ impressionante sentire il rumore delle chiavi che chiudevano i cancelli alle mie spalle». Entusiasta anche Massimo Poggio per il quale, «pur interpretando io il ruolo del poliziotto, questa non è una serie poliziesca ma pone l’aspetto soprattutto sul lato umano. Ogni personaggio, all’inizio, ha qualcosa in sospeso che si chiarisce strada facendo».

A chi ipotizza suor Angela come una sorta di don Matteo in gonnella, risponde il regista: «La differenza principale tra i due è che don Matteo è pieno di certezze, è più istituzionale. Suor Angela, invece, è una che ci prova ma che ha sempre la sensazione di non farcela».

Poi, aggiunge: «Questa serie insegna a fermarsi e a ragionare, a dare agli altri una seconda possibilità, a vedere come ci si può capire e volere bene». Matilde Bernabei, che col fratello Luca ha prodotto (in coproduzione con Rai Fiction) Che Dio ci aiuti, conferma: «Questa è una di quelle storie che possono aiutarci a vivere la vita di tutti i giorni, guardando gli altri con un occhio diverso». Il direttore di Rai Fiction Fabrizio Del Noce (proprio nel giorno in cui i produttori tv hanno protestato in Vigilanza Rai per i tagli agli investimenti nelle fiction) non nasconde l’entusiasmo, anche alla luce dell’ottimo risultato di ascolto ottenuto lunedì scorso dalla replica di Preferisco il Paradiso, la storia di san Filippo Neri, sempre prodotta dalla Lux Vide: «Che Dio ci aiuti è una scommessa importante e ci sono fondate ragioni per pensare che proseguirà, il giovedì sera, sulla scia del successo di Don Matteo».

Avvenire  17 12 2011

“Á annag veg – Either Way”


il film di Gunnar Sigurdsson si impone al Torinio Film Festival

 

Per vincere bastano due attori

 

Il Torino Film Festival non ha regalato grandi sussulti. Anzi, anche facendo la tara alla scarsa esperienza di autori dalla carriera acerba, e spesso soltanto all’opera prima, si può concludere che la media della qualità in campo è stata piuttosto modesta.
A saltare all’occhio, in particolare, è stata la diffusa assenza di un lavoro di scrittura anche solo lontanamente solido. Quasi tutte le opere viste si basano infatti su una linea narrativa e un quadro drammaturgico appena accennato, e si affidano per il resto all’abilità espressiva del regista che fra l’altro si rintana spesso nei moduli del cinema documentario. Nella maggior parte dei casi il risultato è un lavoro che assomiglia più a un esercizio di regia, a una tesina di fine corso – e nel novero ce n’erano effettivamente un paio – che a un film organico e compiuto.
Non a caso, sfuggono alla sensazione di un lavoro irrisolto quei pochi film che fanno proprio della mancanza di una struttura solida uno stile o addirittura un contenuto. A partire dal vincitore, l’islandese Á annag veg – Either Way di Gunnar Sigurdsson, storia di un’amicizia sul lavoro, sempre in bilico sull’assurdo, per la quale non a caso si sono fatti i nomi di Beckett e Kaurismäki. Se i modelli sono ancora lontani, l’esordiente regista colpisce già per la consapevolezza del proprio stile, tanto rigoroso da far dimenticare che in scena ci sono solo due attori. Ma è il caso anche del francese La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, presentato fuori concorso. La storia di due genitori alle prese con una grave malattia del figlio nato da poco, sfrutta quello che è poco più d’un assunto narrativo per rispolverare gli stilemi della Nouvelle vague, e di un cinema che, liberato in gran parte dalle briglie letterarie, si regga il più possibile sui suoi mezzi espressivi peculiari. I momenti di astrattezza godardiana risultano un po’ rancidi, e rischiano di inquinare il film, ma in generale alla regista riesce la cosa più difficile, ossia raccontare con levità un dramma toccante, giocando sulla dicotomia fra morte e vita, in ciò memore piuttosto della lezione di Agnés Varda e del suo Cléo dalle nove alle cinque (1962). Inoltre il film ha il grande merito di non ricattare il pubblico, mostrando già nelle prime immagini come la guerra dichiarata alla malattia probabilmente è già a buon punto. Sempre fuori concorso, lo statunitense Bad Posture di Malcolm Murray fa invece dell’assenza di contenuti il proprio argomento. Il racconto di due amici senza arte né parte che sprecano le loro giornate fra graffiti, bevute e piccoli furti nemmeno troppo convinti, diventa infatti alla lunga un film sul nichilismo, che supera il rischio di diventare a sua volta nichilista in virtù di uno stile insospettabilmente rigoroso e di brevi, controllatissimi squarci lirici attraverso cui filtra uno sguardo dolente e nient’affatto cinico.
Deludono invece i titoli che si sono spartiti ex-aequo il premio speciale della giuria: l’arabo Tayeb, Khalas, Yalla di Rania Attieh e Daniel Garcia, e soprattutto il francese 17 filles di Delphine e Muriel Coulin, il film più sopravvalutato del festival. La storia – ispirata a un fatto reale – di diciassette compagne di scuola che decidono di rimanere incinte contemporaneamente poteva essere lo spunto per mille riflessioni, invece qui non si va mai oltre la fenomenologia adolescenziale stravista altrove. Se al posto della gravidanza le protagoniste fossero state coinvolte in qualsiasi altro evento, il film non sarebbe cambiato di un fotogramma.
In questo contesto non esaltante, poi, si sono difesi i titoli italiani. Ulidi piccola mia di Mateo Zoni è una microscopica produzione in stimolante bilico fra documentario e fiction, ambientata in una casa-famiglia di ragazze dal passato difficile. Uno di quei film dove la felice scelta degli elementi messi in scena fa passare in secondo piano la mancanza di un progetto strettamente creativo. Mentre con Sette opere di misericordia, fuori concorso, i fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio lasciano intravedere ottime capacità espressive. Nonostante la loro storia fra sottoproletariato e simbologia cristiana si appesantisca a tratti di programmatici “pasolinismi”.
Il festival in ogni caso si dimostra interessante quando si mantiene sui binari di questo cinema strettamente d’autore e indipendente, anche se spesso acerbo e a volte compiaciuto. Un po’ sulla scia, insomma, del Sundance festival americano. Perché quando invece si inoltra verso i territori del cinema di genere, o si avvicina alla produzione mainstream, rischia di diventare del tutto insulso.
Fanno parte del primo gruppo un paio di film molto attesi che non hanno mancato di entusiasmare qualcuno. Attack the Block di Joe Cornish, una produzione franco-inglese, è ormai l’ennesima alchimia fra commedia e fanta-horror, ma si risolve presto in una pallida e noiosa imitazione di prototipi come L’alba dei morti dementi (2004), pellicola firmata da quell’Edgar Wright che guarda caso con Cornish ha contribuito recentemente a scrivere la sceneggiatura del Tintin spielberghiano. Mentre l’indonesiano The Raid di Gareth Huw Evans è una ripetitiva parata di arti marziali, ancorché finemente coreografate. Se la cava meglio Jaume Balaguerò, nome interessante dell’horror spagnolo, col suo Mientras duermes.
Rientrano invece del tutto o in parte nel cinema hollywoodiano due film sportivi: Moneyball – L’arte di vincere di Bennett Miller con Brad Pitt e Win Win – mosse vincenti di Thomas McCarthy con Paul Giamatti. Morale edificante preconfezionata al servizio di lavori inappuntabili che però metaforicamente non travalicano di un centimetro gli angusti confini del campo da gioco. Mentre The Descendants di Alexander Payne con George Clooney è un prodotto degno di nota, ma fuori dal target del festival, perché firmato da un regista che è già un nome noto e collaudato della commedia grazie a titoli come A proposito di Schmidt (2002) e Sideways (2004). Nel complesso, comunque, con le sue tante anteprime mondiali, la sua direzione autorevole, la sua presidenza di giuria prestigiosa, il Festival di Torino continua a essere una finestra privilegiata da cui guardare da che parte sta andando il cinema. E uno specchio sicuramente credibile dello stato degli autori indipendenti. A deludere, semmai, a volte, è ciò che vi rimane riflesso.

di Emilio Ranzato

 

L’Osservatore Romano 5-6 dicembre 2011

Non cerchiamo film catechistici ma opere d’arte

A colloquio con l’arcivescovo Claudio Maria Celli su cinema e fede

 


Il cinema è un modo per scolpire il tempo scriveva il regista-poeta Andrej Tarkovskij in un saggio del 1988; “è l’unica forma d’arte che, proprio perché operante all’interno del concetto e dimensione di tempo, è in grado di riprodurre l’effettiva consistenza del tempo, l’essenza della realtà, fissandolo e conservandolo”, un’arte che, come gli haiku giapponesi riesce a rendere l’irripetibilità dell’istante, “geneticamente” vicina al mistero e al sacro, secondo l’autore di capolavori come Solaris, Stalker e Andrej Rublev. “Persino la constatazione della mancanza di spiritualità del tempo in cui vive – scriveva il regista russo, sempre in Scolpire il tempo – richiede all’artista la più alta e determinata elevatezza spirituale”. Se la Bellezza, con la “b” maiuscola, parla da sola della sua origine, non c’è bisogno di aggiungere “didascalie religiose” alle opere d’arte; o, per dirla con maggiore sintesi con le parole dell’arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, usate nel corso di un dibattito durante il convegno “Film and faith” (l’1 e il 2 dicembre alla Pontificia Università Lateranense, organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo): “Non abbiamo bisogno di film catechistici ma di film belli”. Nell’introdurre la sessione dei lavori dedicati al ruolo del critico cinematografico, monsignor Celli ha sottolineato: “Basta guardare alla produzione cinematografica recente per vedere che il sacro emerge da molti film, a volte appena sussurrato, quasi come fosse una traccia da seguire; di là dagli artifici, dagli effetti speciali, percepisco in molti film che quell’elemento spirituale non è separato dal mondo, non è astratto, ma si mescola alle piccole cose di ogni giorno, quasi nascosto, come fosse una luce sottile che le rende speciali. Così si percepisce una certa presenza di Dio in molti film, come una vibrazione appena percettibile che ogni artista suggerisce, affinché lo spettatore la individui da solo”.

Monsignor Celli, una delle malattie più gravi del mondo contemporaneo è lo sfaldamento dell’identità personale; l’arte, e in particolare il buon cinema, può aiutare a contrastare questa crescente “polverizzazione dell’io”?

Al di là del credo religioso e della cultura, la storia di ogni uomo, nei millenni, non può essere annullata, in un percorso che lega le generazioni tra loro, attraverso la tradizione e l’insegnamento. L’arte è da sempre maestra nel trasmettere l’identità di ogni popolo ed epoca. Credo dunque che il senso di appartenenza sia fondamentale per l’identità personale e sia il fulcro del nostro esistere. Il buon cinema, in quanto somma di tante arti, con il suo linguaggio suggestivo può veicolare immagini, idee e valori che riescono a far affiorare dall’intimo delle persone riflessioni fondamentali, suscitando interrogativi, dubbi, ma soprattutto spingendoci a un cammino di ricerca più profonda del nostro io. Di lì il passo è breve, c’è l’altro e c’è Dio.

Non c’è solo banalità e volgarità sul grande schermo, c’è anche una settima arte che affronta la profonda crisi esistenziale e la costante – per quanto spesso confusa e contraddittoria – ricerca di senso dell’uomo contemporaneo. Cosa fare per favorire la diffusione di quello che lei chiama “un cinema ad alto voltaggio morale”?

Credo che il cinema, proprio per il suo linguaggio, possa aiutare ogni uomo a rientrare in se stesso, pacificandolo con la propria interiorità e predisponendolo all’altro, nell’accettazione della diversità e nella condivisione della spiritualità. Quando vediamo un film, un buon film, tutto non finisce con i titoli di coda, ma inizia, perché rielaboriamo le emozioni. Dunque, facciamo appello alla grande sensibilità degli artisti che ci illuminano con le loro opere, ma allo stesso tempo credo sia fondamentale una vera e propria educazione al linguaggio dell’immagine, un percorso formativo che porti gli spettatori, sin dalla più tenera età, a un’analisi consapevole dei contenuti cinematografici, sviluppando il loro senso critico. Non bisogna demonizzare il film diseducativo, quanto piuttosto aprire spazi di dialogo, ribadendo che l’uomo, creato a immagine di Dio, ha una sua dignità che non può essere oltraggiata, ha una sua aspirazione ben più alta e soprattutto cerca la verità, quella verità che anche un film può contribuire a scoprire. I “miracoli” sono spesso celati tra le piccole cose della nostra quotidianità; non dobbiamo andare lontano, perché lo spirito ci accompagna ogni giorno anche attraverso un’immagine, una nota musicale, una parola. Tutto questo fa un buon film.

In quali opere ha recentemente riscontrato un respiro più grande e un’utilità “educativa”, se così si può chiamare?

È sempre difficile rispondere a questa domanda, perché in tanti film ci sono passaggi a volte inattesi che imprimono la mia anima. È un insieme di sensazioni per cui la spiritualità emerge da una luce, da una musica ed è lì che il film acquista una bellezza difficile da descrivere. Indubbiamente Uomini di Dio, che senza artifici riesce a narrare una storia di fede e dolore, una vera e propria passione, oppure The Tree of Life di Terrence Malick, una vera e propria parabola visiva sulla creazione, il peccato, la redenzione e l’amore. Ma la lista potrebbe essere più lunga. Cito solo questi due esempi perché, pur non essendo film “facili”, hanno conquistato il pubblico. Come vede gli spettatori hanno bisogno che si torni a “narrare” lo spirito.

“L’impatto degli strumenti della comunicazione sulla vita dell’uomo contemporaneo – ha detto Benedetto XVI – pone questioni non eludibili”; quali sono le occasioni di dialogo e riflessione che si sono rivelate più produttive e interessanti all’interno dell’attività del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali?

Il nostro dicastero ha sempre cercato di non “teorizzare” troppo sulla comunicazione, ma di agire, poiché siamo fermamente convinti che l’uomo contemporaneo vive letteralmente la sua vocazione di comunicatore e attraverso gli strumenti creati dal suo genio riesce ad ampliare le sue conoscenze e il suo raggio di azione. Per questo siamo in perenne contatto sinergico con tutte le realtà mondiali che possano aiutarci a rispondere al bisogno di vera comunicazione che il mondo ha. Congressi, incontri, formazione: tutto questo è fondamentale. Quello che però vorrei dire ai giovani che si apprestano a lavorare nel mondo della settima arte è: non tradite voi stessi, il vostro credo, le vostre aspirazioni. Siate veri, della stessa Verità del Vangelo. Ascoltate il mondo e i suoi bisogni, le sue ansie e le sue speranze. Il cuore umano anela a un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità e dove l’identità di ciascuno sia realizzata in una comunione rispettosa. Siate pronti ad accogliere questa sfida con i vostri film! Siate artisti appassionati della verità e della bellezza.

Il festival “Tertio Millennio” vuol essere una tessera di questo mosaico?

Il festival nasce da una sinergia di intenti, alla fine degli anni Novanta. L’Ente dello Spettacolo, il Pontificio Consiglio della Cultura, il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali hanno sentito che era il momento di aprire un dialogo costruttivo tra la Chiesa e il mondo del cinema, considerato un veicolo di cultura e proposta di valori. Questo poteva incoraggiare una produzione dalle grandi possibilità umanizzanti, evidenziando la dimensione spirituale che è in ogni essere umano e che il cinema in moltissimi casi ha dimostrato di saper bene esprimere.

(©L’Osservatore Romano 4 dicembre 2011)

 

I cardini della Vita Buona

riscoprire i segreti della vita buona alla luce delle virtù cardinali

 

 

Carissimi,

invio il programma di un ciclo di incontri, organizzato dal Serra Club 184 di Genova, sul tema delle virtù cardinali, in risposta alle sollecitazioni che provengono da più parti, nel mondo civile e religioso, in ordine a quella che viene chiamata la “sfida educativa”.

Sempre più si avverte la necessità della formazione morale dell’uomo, secondo la grande tradizione  classica e cristiana.

Occorre ripartire dalla rivalutazione della dimensione spirituale dell’uomo, che abbraccia la sua capacità di progettare se stesso in base ad un ideale di moralità che lo pone oltre il determinismo della materia e che fa della vita umana un’opera mirabile da realizzare.

Fra il vasto complesso delle virtù umane, quattro di esse hanno la funzione di “cardine” e per questo sono dette cardinali.

Sono la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.

Queste quattro virtù sono tra loro connesse, si radicano nell’io personale e hanno come centro propulsore il cuore, che è la sorgente dell’intera vita morale.

Per trattare  di queste virtù e della loro applicazione nella vita di oggi, ci siamo rivolti a quattro importanti personaggi, che le possono presentare sotto diverse angolazioni: un poeta, Davide Rondoni, un biblista e musicista, Mons. Marco Frisina, uno psichiatra, il Prof. Alessandro Meluzzi ed un noto predicatore di Roma, Don Fabio Rosini.

Ogni incontro prevede anche la proiezione di ampi spezzoni di film particolarmente significativi, illustrati da un grande esperto, Alberto Di Giglio, del Centro Sperimentale di Cinematografia, che serviranno ad introdurre il dibattito.

E’ questo un servizio che il Serra Club di Genova intende offrire come contributo al programma di un più generale risveglio educativo alla “vita buona”.

 

VIRTU  LOCANDINA OK[1].pdf VIRTU LOCANDINA OK[1].pdf
2522K   Visualizza Scarica

 

Avv. Emilio Artiglieri

Presidente Serra Club 184 Genova

Tertio Millennio Film Fest


Il cinema dei miracoli


“Finalmente un ruolo lontano dal narcisismo televisivo e dal ribellismo stereotipato” si legge nella motivazione del Premio rivelazione degli RdC Awards consegnato dai dicasteri del Pontificio Consiglio della Cultura e del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali a Filippo Scicchitano; il giovanissimo “attore per caso” (così ha definito se stesso il protagonista di Scialla! scritto e diretto da Francesco Bruni) ha ricevuto il riconoscimento martedì 22 novembre durante la conferenza stampa di presentazione del Tertio Millennio Film Fest (6-11 dicembre), intitolato “Amore, morte, miracoli. Per una fenomenologia della società contemporanea” e organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo presieduta da Dario Edoardo Viganò. Quest’anno il festival sarà preceduto l’1 e il 2 dicembre dal convegno internazionale “Film and Faith”, come hanno spiegato monsignor Franco Perazzolo, del Pontificio Consiglio della Cultura e monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. Una conferenza stampa atipica, quella della galassia di iniziative che portano il marchio Tertio Millennio Film Fest, composta da anteprime, presentazioni di film restaurati, convegni, incontri, concorsi “per sguardo e smartphone”, in cui accanto ai ringraziamenti di rito ai tanti operatori di cinema presenti, alla poesia per immagini o in versi – da Seamus Heaney a Terrence Malick, passando per Bresson e il suo Il diavolo probabilmente – si sono affacciati anche i Novissimi, le realtà ultime che tanta cultura contemporanea è abituata a ignorare: un rapido memento mori (monsignor Viganò ha citato una frase del cardinale Tomás Spidlík: “Tra noi e il verme non c’è granché spazio”) che ha ottenuto il duplice scopo di ravvivare l’attenzione dell’uditorio e provocare un salutare brivido lungo la schiena, ricordando quanto sia facile sprecare la vita in questioni “di seconda classe”.

(silvia guidi)

©L’Osservatore Romano 23 novembre 2011)

 

 

Tertio Millennio in arrivo

.

Giunto alla XV edizione, il Tertio Millennio Film Fest, organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, presieduta da Dario E. Viganò, propone ancora una volta il cinema quale momento di riflessione sui problemi e gli avvenimenti del mondo contemporaneo e motore per delle domande che nessuno può più permettersi di eludere.
Il tema centrale per l’edizione 2011, è “Amore, morte, miracoli. Per una fenomenologia della società contemporanea”, perché il miracolo, la morte e l’amore sono cifre fondamentali del cinema: “Il Tertio Millennio Film Fest è per tradizione momento di riflessione sulla condizione dell’uomo nel mondo moderno, usando l’orizzonte cinematografico quale mezzo per ragionare e sviscerare i problemi e i disagi contemporanei, ma anche occasione per riflettere sull’ineffabile”, dichiara Dario E. Viganò, Presidente FEdS e Direttore Artistico del Festival, che spiega: “Il tema centrale di quest’anno sottolinea come l’uomo sia da sempre in bilico tra la vita, il razionalismo e misticismo. In questo mondo, in cui sembra esserci poco spazio per il miracolo, il cinema si trova ad assumere su di sé il compito di restituirne la potenza, lo stupore, il bagliore sacrale, senza ridurlo a un effetto scenico, una superfetazione visiva, un trucco tra i tanti”.
I film saranno proiettati presso il Cinema Sala Trevi (vicolo del Puttarello, 25), sala della Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma dal 6 all’11 dicembre. Tra le anteprime più attese, Atmen e Attack the Block. Il primo, diretto da Karl Markovics è il candidato per l’Austria agli Oscar 2012 come miglior film straniero. Una storia di disagio, quella di Roman, che uscito dal carcere sulla parola si trova a dover affrontare i fantasmi del proprio passato.
Il secondo, Attack the Block di Joe Cornish, è un film di fantascienza dai risvolti sociali in cui i veri alieni sono i teppisti di periferia. Tra le anteprime, trova spazio anche Sette opere di misericordia di Gianluca e Massimiliano De Serio. Il film, che ha vinto numerosi premi all’estero e sarà distribuito in Italia a gennaio 2012, è incentrato sulle vicende della giovane Luminiţa che, per cambiare la sua vita, mette in atto un piano audace che la porta a scontrarsi con Antonio, anziano e malato, che cambierà la sua vita. Sempre in anteprima, anche un Evento Speciale, la proiezione di S.O.S/State of Security, documentario di Michèle Ohayon, che racconta attraverso testimonianze e interviste le falle dell’intelligence statunitense in occasione dell’attentato dell’11 settembre.
Infine sarà la volta dell’atteso Hors Satan di Bruno Dumont, film di raccordo con la rassegna Il miracolo, probabilmente. La storia di un giovane, la cui vita è scandita dalla caccia e dalla preghiera, e il suo rapporto con la ragazza che abita in una fattoria limitrofa e si prende cura di lui. Un’ambientazione particolarissima per un film presentato a Cannes 64 nella sezione “Un Certain Regard”.
Il secondo giorno del Festival riserva al pubblico ulteriori eventi speciali a partire da I giorni contati di Elio Petri, opera restaurata dal Museo Nazionale del Cinema di Torino in collaborazione con La Cineteca di Bologna presso il Laboratorio L’Immagine Ritrovata. Introdotto al pubblico da Alberto Barbera, il film (1962) focalizza con precisione ed efficacia l’estraneità del protagonista dalla società.
A seguire, un incontro con il Direttore dell’Institut Lumière di Lione e delegato generale del Festival di Cannes che riceve dalla Fondazione Ente dello Spettacolo il Premio Speciale Cinema per essersi distinto nell’opera di divulgazione del lavoro di conservazione e valorizzazione del patrimonio cinematografico. Al termine della cerimonia di premiazione, Thierry Frémaux presenterà un’antologia di film restaurati dei fratelli Lumière.
L’8 dicembre sarà la volta del Focus talent: Răzvan Rădulescu & Melissa de Raaf, coppia di sceneggiatori e registi protagonista del risveglio del cinema rumeno. Con First of All, Felicia, il loro esordio dietro la macchina da presa, e Shelter di Dragomir Sholev, l’ultima collaborazione, racconteranno al pubblico il loro sodalizio artistico.
Anche quest’anno, il festival riserva al pubblico degli Incontri con autori e attori italiani. Il 9 dicembre sarà il regista Francesco Patierno che – insieme ai protagonisti del suo Cose dell’altro mondo – racconterà la genesi del film e risponderà alle domande degli spettatori. Il 10 dicembre saranno gli attori Cristiana Capotondi e Antonio Catania ad incontrare il pubblico ripercorrendo in “Cinema è sogno” le loro carriere e trasportando gli spettatori nel magico splendore del mondo del cinema.
Quest’anno il Festival sarà arricchito anche dalla rassegna “Il miracolo, probabilmente (L’occhio laico della messa in scena)”: la sezione si apre con Ordet – La parola, capolavoro del 1955 di Carl Theodor Dreyer, per arrivare ai giorni nostri con Lourdes, vincitore di Premio FIPRESCI, Premio SIGNIS e Premio “La Navicella” alla 66. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Stellet Licht di Carlos Reygadas, Premio della Giuria al 60. Festival di Cannes, e Il ragazzo con la bicicletta dei fratelli Dardenne, Grand Prix al 64. Festival di Cannes e Premio Bresson a Venezia 68. Opere che, come Il tempo dei miracoli di Goran Paskaljevic e Hors Satan, raccontano come il miracolo oggi si insinui tra le pieghe del reale, più che sovvertirlo.
Sempre nell’ambito del Festival, è prevista l’annuale assegnazione degli RdC Awards, che avverrà nel corso di una serata di gala venerdì 9 dicembre, a partire dalle ore 20.30.
Come di consueto, il Festival sarà anticipato da un Convegno Internazionale (1-2 dicembre presso la Pontificia Università Lateranense): “Film and Faith”, diviso in cinque sessioni, sarà occasione per analizzare le implicazioni della Fede e le sue narrazioni nel mondo contemporaneo, per sviscerare l’essenza del sacro nelle immagini cinematografiche.
Un altro convegno, invece, collaterale al Festival, avrà luogo dal 14 al 16 dicembre nella cornice dell’Abbazia Greca a Grottaferrata: “L’Anima nell’Arte. Prospettive ed approdi dell’era digitale”, organizzato dall’associazione Art Promotion con il Patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura, del Ministero della Pubblica Istruzione, della Fondazione Ente dello Spettacolo, si rivolge a quanti, soprattutto nelle nuove generazioni, sentono profondamente l’urgenza della spiritualità.
Cinematografo.it22 novembre 2011


Faust. Di A. Sokurov, Leone d’0ro 2011.


L’inizio è come un trovarsi all’improvviso  dentro una tela di Rembrandt: sia perché ci si trova messi brutalmente di fronte a una lezione di anatomia , sia per le luci morbide, i grigi e i marroni che ricordano il codice delle sue opere. Si cerca l’anima, in quel corpo sventrato, e non è ovviamente impresa facile. Nel film di  Aleksandr Sokurov invece si fa presto. Sta tutto in quella rappresentazione figurativa e insieme essenziale del “mito” di Faust, ripreso da Goethe e girato infatti in tedesco, e fatto diventare un capolavoro pittorico toccando invece le domande cardine dell’esistenza umana: sulla presenza (e soprattutto l’assenza) di Dio; sull’avidità e la corruzione dell’uomo; sulla ricerca dei desideri e sul loro appagamento spesso vano; sulla morte, che si accompagna sempre al bisogno di fede («La morte e il prete passeggiano insieme», si ascolta in una battuta del film).

Di registi maturi come Sokurov ne sono rimasti ben pochi e ogni suo nuovo film è una festa per i cinefili. E’ pur vero che la visione richiede un impegno non comune, ma ripaga di ogni sforzo. La parabola dello scienziato che incontra il Diavolo sotto mentite spoglie (qui una sorta di satiro deforme e con un genitale maschile al posto del codino dell’iconografia classica), che si lascia corrompere in cambio di ricchezza e dell’amore della ragazza desiderata (la virginale Margherita), si ammanta di interpretazioni sull’esercizio e la seduzione del potere. Si sente anche  il gusto per una recuperata classicità narrativa e stilistica: il copione sospeso tra “operetta morale” e pièce da palcoscenico, il commento musicale classico, le meravigliose luci (del direttore della fotografia Bruno Delbonnel) che affondano nell’arte figurativa mitteleuropea, l’eco cinematografica della riflessione bergmaniana. Sotto pelle pulsa l’anima del paradosso (l’unico a riconoscere l’esistenza di Dio è proprio il Diavolo) e della riflessione filosofica, della burla (i “matti” del villaggio, tra cui una inedita Hanna Schygulla) e della favola gotica (gli angeli della Morte che compaiono alla fine). Supportato da un cast di pregevole statura (il dottore protagonista è interpretato dal tedesco Johannes Zeiler, dallo sguardo identico a quello di Ralph Fiennes; Belzebù invece è il mimo siberiano Anton Adasinsky), il film dura per 134 minuti. Il Leone d’Oro assegnatogli dalla Giuria Internazionale, non è un premio troppo popolare ma assolutamente meritato, per l’alta cultura trasfusa.

 


IL Film

Faust

Titolo originale:  Faust

Nazione:  Russia

Anno:  2011

Genere:  Drammatico

Durata:  134′

DISTRIBUZIONE: Archibald Enterprise Film

Regia:  Aleksandr Sokurov

Sito ufficiale:   /

Cast:  Hanna Schygulla, Maxim Mehmet, Isolda Dychauk, Georg Friedrich, Joel Kirby, Antoine Monot Jr., Eva-Maria Kurz, Katrin Filzen, Florian Brückner

Produzione:  Proline Film

Data di uscita:  Venezia 2011

 


Trama

Il Faust di Sokurov non è un adattamento della tragedia di Goethe nel senso tradizionale, ma una lettura di ciò che rimane tra le righe. Che colore ha un mondo che produce idee colossali? Che odore ha? C’è un’aria pesante nel mondo di Faust: progetti sconvolgenti nascono nello spazio angusto dove si affaccenda. È un pensatore, un veicolo di idee, un trasmettitore di parole, un cospiratore, un sognatore. Un uomo anonimo guidato da istinti semplici: fame, avidità, lussuria(già oggi va meglio). Una creatura infelice, perseguitata che lancia una sfida al Faust di Goethe. Perché rimanere nel presente se si può andare oltre? Spingersi sempre più in là, senza notare che il tempo si è fermato. In fondo. È l’eterno conflitto tra il Bene e il Male. Chi vince?


A mo’ di commento

Alexander Sokurov si confronta con Faust, e ne esce vincitore. Non si tratta di un adattamento fedele dell’opera letteraria di Goethe, quanto un tentativo di raccontare la medesima storia attraverso quanto rimane tra le righe, il non detto, immagini ed emozioni.

Come il romanzo, anche il film di Sokurov vede come protagonista il dottor Faust, uomo integerrimo dedito alle ricerche scientifiche. Per dominare la materia egli cerca di capire come funzioni il corpo umano analizzando e sezionando cadaveri, ma non riesce a trovare ciò che in realtà sta cercando: la prova dell’esistenza dell’anima(col cubo che la trova!). La sua rettitudine e il comune interesse per l’animo umano attirano l’attenzione di Mefistofele, che si nasconde nei panni di un usuraio. Il suo scopo, sulla Terra, è quello di mettere in luce e sfruttare le umane debolezze. E questo cerca di fare anche con Faust, mettendolo alla prova in modo da trovare il suo punto debole. Faust si lascia tentare, ma non ammaliare, dal potere, dalla ricchezza o dalla lussuria, nulla è tanto gratificante da desiderarlo all’infinito. Ma la bella Margarethe si innamora perdutamente del dottore, e il desiderio di possedere la donna, nella materia e nell’anima, si impossessa di lui. A questo punto Mefistofele sa come agire. Propone a Faust di fermare all’infinito il momento di beatitudine e di estasi della sua unione con la giovane, in cambio Faust gli cederà la sua anima. E lui accetta. E ben gli sta. Cose molto valide nel film i lunghi discorsi teologici- filosofici che stordiscono lo spettatore, la fotografia, quasi onirica nei suoi colori. La perfezione è tale che in ogni inquadratura si ha l’impressione di ammirare un attimo fissato per sempre su tela. Il contrasto tra il bene e il male è ben evidenziato dall’uso di luce e tenebra. Naturalmente , bisogna andare oltre , perche l’opera di  Sokurov  è una riflessione sul comune destino umano, incostante e indeterminabile perché dominato dai piaceri e dalle tentazioni. E, anche una considerazione sul libero arbitrio, o meglio sulla sua assenza: l’uomo non è padrone delle proprie scelte, perché egli stesso ha ceduto la possibilità di scelta, per debolezza o per poca moralità.

 

DOMANDE & RISPOSTE


Tra le moltissime domande rivolte a A. Sokurov, in una sala stampa gremita,  ne abbiamo selezionato solo alcune. Eccole di seguito.

Il film ci dice che “le persone infelici sono pericolose”. Sembra un monito molto attuale più che derivato dall’opera di Goethe.
Quello che vorrei dire ai giovani oggi, e so che molti giovani oggi sono infelici, è: l’anima costa poco e nessuno ne ha bisogno tranne voi. La vostra anima è solo vostra e poi non ci sono più acquirenti per questo genere di cose. I giovani come speranza per il futuro, giovani che non hanno un destino tanto migliore delle generazioni che li hanno preceduti, quelle che si sono confrontate con i totalitarismi e le guerre. Si sta sbilanciando qualcosa nella società, le persone  diventano selvagge, aggressive. In Russia sentiamo questo alito agghiacciante che la società dei consumi ha imposto, la televisione, un certo cinema, la scomparsa del confine tra il male e il genio. Abbiamo visto all’opera torturatori di talento, geni del male, e quel male si è riprodotto lasciando semi come il fiore su cui soffi e la corolla vola via disseminandosi, prende residenza nell’animo umano, diventa carattere. Nostro compito è fermare questa espansione, fermare la fine della parola.

Secondo Lei il potere corrompe inevitabilmente?

Sì, perché l’uomo di potere viene infettato da tutto ciò che lo circonda. Attorno a lui si raccolgono le anime nere.

Perché ha pensato che proprio l’opera di Goethe potesse rappresentare il capitolo di chiusura della sua tetralogia?
Noi russi viviamo al limite della tradizione letteraria europea. Goethe e il Faust sono parte essenziale della cultura mondiale del XIX e XX secolo. Alexander Puskin, Fjodor Dostoevsky, Lev Tolstoj si sono ispirati al Faust, un uomo nel cui destino è scritto tutto ciò che potenzialmente accade nella vita di ognuno di noi. Rappresenta un’esperienza primaria.

Oggi la letteratura è decaduta, gli umanisti tacciono, temono, sono guardinghi ed erano i donatori di senso, ieri andavano in avanscoperta, oggi il linguaggio della politica e la televisione ne stanno decretando la morte. Cosa ne pensa?

“Dante tranquillizza”, ma dietro Dante, come dietro i grandi russi, c’erano scuole, tradizioni culturali, nessuno vola, c’è un gradino da salire dopo l’altro, e questo vale per tutte le arti, e la sua prediletta, la pittura, nasceva da botteghe dove s’imparava il mestiere. Ma la scuola in Russia è stata annientata, gli scrittori venivano messi al muro e fucilati, 20 milioni di morti fatti da Stalin, 20 dalla guerra, 2 milioni nell’assedio di Leningrado: cosa rimane al popolo russo dopo un secolo così? Una terra che scontava secoli di arretratezza, dove si cominciava solo a pensare all’abolizione della servitù della gleba quando a Londra già funzionavano a pieno ritmo fabbriche e ferrovie. E’ la fine del libro la peste dei nostri tempi.

Perché il suo Faust parla tedesco?

La lingua di un popolo è la sua stessa vita, come pensare di leggere Dante in un’altra lingua? Faust deve vivere e parlare la sua lingua perché è stato concepito così.

Rispetto ai suoi film precedenti, questo si potrebbe definire un kolossal per lo sforzo produttivo che ha richiesto. Come mai ha voluto girare in luoghi diversi e chiudere la vicenda in Islanda?
La natura fa parte della drammaturgia, come la lingua. Per questo ho voluto che il film fosse in tedesco e ho provinato almeno 1000 attori prima di trovare quelli giusti. Perché Goethe senza il tedesco non ha senso, perde carattere, tono. L’Islanda poi è un luogo non spiegabile, ci si sente come se si fosse alla fine del mondo, in un perenne subbuglio, con la sensazione di un pericolo imminente. Cercavo una terra difficile. In Islanda l’ho trovata.

 


Chi è  Alexander Sokurov

Nato il 14 giugno 1951 a Podorvikha. Consegue la laurea in storia e filosofia nel 1974 all’ Università di Gorky mentre nel 1979 porta a compimento gli studi di cinema presso l’Istituto di Cinematografia di Mosca. Il suo primo film “The lonely voice of man” (1978) vince il ‘Pardo di Bronzo’ al Festival di Locarno.

Tra il 1980 e il 1987 cura la regia di 2 lungometraggi, numerosi corti e 6 documentari, nessuno dei quali ottiene l’autorizzazione della censura sovietica. Dal 1980 lavora per la Len Film Studios realizzando altri 9 film e più di 20 documentari molti dei quali premiati nei Festival di tutto il mondo. Fra i suoi film  più famosi ricordiamo “Mother and Son” (1997) e “The second Circle” (1990). Il regista sa anche adattare testi letterari di Shaw, Flaubert e Dostoevskij.

Nel 2003 ha realizzato la commedia “Padre e figlio” e “Il sole” terzo capitolo della triolgia sul potere che comprende “Moloch”(1999) e “Taurus”(2001). Ultimamente ha girato il film drammatico “Alexandra” (2007) in concorso al 60mo Festival di Cannes E’ stato  inserito dall’European Film Accademy tra i cento registi più importanti del mondo.


Curiosità

Anni fa la Fondazione Balzan indisse un convegno a Venezia cui parteciparono nomi di spicco. Anche l’allora Cardinale Ratzinger vi partecipò e lesse una sua prolusione sul Mito di Faust.

Questo deve essere il posto (This Must Be the Place)

 

Un film di Sorrentino presentato al Festival di Cannes 2011

 

Tra i tanti film presentati al Festival di Cannes 2011, da parte della giuria sarebbe occorso un pò di più  buon senso per escludere completamente dai premiati tutti i film degli italiani. Tutti belli, importanti, ben fatti, ma quello di Sorrentino  This Must Be The Place , interpretato da un favoloso Sean Penn, meritava almeno una citazione. Ma si sa come sono i francesi(La Mostra del cinema di Venezia, però li incensa troppo, anche per cose ridicole). In ogni caso, il protagonista, Sean Penn è eccezionale, merita l’amore e l’attenzione di chi ama veramente il cinema  e necessita che ricordiamo assolutamente che l’artista ha interpretato seriamente delle cose egregie, tanto da dire che il suo posto come attore sono esclusivamente le “storie del cuore”.

 

Il film: This Must Be The Place

titolo internazionale: This Must Be the Place

titolo originale: Questo deve essere il posto

paese: Italia

anno: 2011

genere: fiction

regia: Paolo Sorrentino

durata: 118′

sceneggiatura: Umberto Contarello, Paolo Sorrentino

cast: Sean Penn, Eve Hewson, Frances McDormand, Judd Hirsch, Heinz Lieven, Kerry Condon, Olwen Fouere, Simon Delaney

fotografia: Luca Bigazzi

montaggio: Cristiano Travaglioli

scenografia: Stefania Cella

costumi: Karen Patch

musica: David Byrne, Will Oldham

produzione: Indigo Film, Lucky Red, Medusa Film, ARP Sélection, Element Pictures, Pathé Films, Intesa San Paolo

supporto: MEDIA Programme, Irish Film Board, Section 481, Eurimages

distributori: ARP Sélection

rivenditore estero: Pathé International

 

Trama

 

Cheyenne, un facoltoso ex-divo del rock, ormai stanco e svogliato, apprende che il padre, con cui non andava d’accordo, è malato e sul punto di morire. Corre da lui nella speranza di riconciliarsi ma arriva troppo tardi. Solo allora comprende quanto è stata dura la vita di suo padre. Tra i pochi sopravvissuti ad Auschwitz, è stato infatti torturato da un criminale nazista, l’ufficiale delle SS Aloise Muller. Deciso a vendicarlo, e sapendo che l’ex-nazista si nasconde da qualche parte negli Stati Uniti, Cheyenne si mette sulle sue tracce,

 

 

DOMANDE & RISPOSTE A PAOLO SORRENTINO

 

This Must Be The Place sarebbe esistito senza il Festival di Cannes?
Paolo Sorrentino: Mi sono rivelato qui. Il mio incontro con Sean Penn è avvenuto nel 2008, quando ha visto Il divo durante il festival e mi ha fatto sapere che gli sarebbe piaciuto lavorare con me. Da quel momento, mi sono messo a scrivere per lui e non avevo nessun altro in mente per il ruolo di Cheyenne. Sono contento che abbia accettato di interpretare questo personaggio, perché se avesse rifiutato il film non ci sarebbe stato. Non volevo raccontare questa storia senza di lui, quindi sì, il festival di Cannes è all’origine di questo film.

 

Il personaggio di Cheyenne era molto scritto?
Vedevo Cheyenne in un certo modo e Sean Penn ha letto e ascoltato a lungo tutte le mie raccomandazioni, ma quando ha cominciato a dare vita al personaggio, ho assistito a qualcosa di incredibile e sono io che mi sono messo ad ascoltare i suoi aggiustamenti. Alla fine, Cheyenne è stato modellato sulla base della mia visione iniziale del personaggio, ma soprattutto dall’esperienza di Sean Penn, che lo ha fatto evolvere appropriandosene completamente.

 

Perché ha scelto prima l’Irlanda e poi l’America come location per le riprese?
Non vedevo questa storia cominciare in Italia. Semplicemente, la cultura italiana non è passata per l’ondata New Wave che ha segnato il rock degli anni ’80, e poi il ruolo del fascismo nella storia politica italiana rendeva il tema del film più complicato da spiegare. Non volevo lottare per giustificare la plausibilità di questa storia, perché il pubblico deve già avere a che fare con il personaggio di Cheyenne, che sembra venire da un altro pianeta. Poi l’America è venuta naturale da un desiderio che condividevo con il mio amico Umberto Contarello, co-autore della sceneggiatura. Sognavo da tempo di filmare alcuni paesaggi magnifici che avevo visto al cinema. Con il peso di Sean Penn nel cast, è diventato possibile e ne abbiamo tenuto conto in fase di scrittura. Mi sono fatto un favore, ma l’America è talmente un simbolo dell’esodo che i luoghi raccontano da soli una parte della storia. Non è una civetteria da parte mia.

 

E’ un procedimento che ha utilizzato già ne Il divo, ma in This Must Be The Place le scene girate alla Louma, o più in generale da una gru, sono tante. Perché questa scelta?
Il film è un viaggio, ma mi è parso importante anche viaggiare negli spazi che erano a nostra disposizione. E poi mi piace l’idea di grandi movimenti intorno a un soggetto che si muove molto lentamente, come fa Cheyenne nel film. A seconda di dove si posiziona lo sguardo, del cammino che percorre, la percezione del soggetto cambia ed evolve. Il film parla anche di questo cambiamento di prospettiva. Lo sguardo esterno sui personaggi cambia, ma finiscono anche per vedersi in modo diverso.

 

La musica è quasi un personaggio del film. Perché l’ha utilizzata come simbolo nostalgico?
Non è nostalgia, anche se è vero che avevo voglia di parlare un po’ dell’evoluzione del rock. Nel film i temi sono tanti e si sovrappongono. Uno di questi è la paura di crescere. Utilizzare una corrente forte, ma passata, del rock mi ha permesso di creare un divario tra l’evoluzione del mondo intorno a Cheyenne e il suo aspetto immobile, che passa per l’abbigliamento strano, la devozione a un genere musicale, il rifiuto di utilizzare il cellulare, ecc. Il rock è stato la grande stagione di Cheyenne, ma è proprio l’attitudine rock a provocare il suo blocco e il suo scivolamento nella depressione.

 

David Byrne non è solo il compositore del film. Ha un ruolo importante.
Quando si ha la fortuna di poter lavorare con David Byrne, che è un artista completo, sarebbe stato un peccato non coinvolgerlo al massimo. Il titolo del film (This Must Be The Place è il titolo di una canzone dei Talking Heads,, la spiegazione del dramma di Cheyenne e l’universo sonoro del film sono direttamente legati a David, che interpreta anche se stesso. Le sue opere folli hanno ispirato molto i miei film e ci sono diversi punti in comune tra la sua scenografia e la realizzazione di This Must Be The Place, che è anche un modo per rendergli omaggio.

 

 

 

 

 

 

Chi è Sean Penn


Nato  a  Santa Monica, il17 agosto 1960,  è attore, regista, produttore cinematografico e sceneggiatore statunitense. È famoso per le partecipazioni a celebri film tra i quali Carlito’s Way, Dead Man Walking – Condannato a morte, La sottile linea rossa, Mystic River (premio Oscar al miglior attore protagonista nel 2004), 21 grammi e Milk (premio Oscar al miglior attore protagonista nel 2009) e regista, produttore e sceneggiatore del pluripremiato Into the Wild – Nelle terre selvagge.

E’ premiato nel 1998 come miglior attore al Festival di Venezia per Bugie, baci, bambole & bastardi, nello stesso anno è stato tra i protagonisti di La sottile linea rossa di Terrence Malick. Woody Allen l’ha voluto interprete del chitarrista geniale e squinternato di Accordi e disaccordi. Considerevole anche la sua partecipazione nell’enigmatico e affascinante Il mistero dell’acqua di Kathryn Bigelow. Nel 2001 ha ottenuto la nomination all’Oscar quale miglior attore per la sua straordinaria interpretazione di un padre ritardato in Mi chiamo Sam di Jessie Nelson.

Dopo anni difficili, ha saputo costruirsi una seconda carriera di regista molto serio, con film crudi, sinceri, carichi di dolore e fieramente indipendenti (al su citato Lupo solitario, seguono dopo dieci anni Tre giorni per la verità, La promessa, più un episodio in 11 settembre 2001). Nel 2002 dirige il videoclip di Peter Gabriel The Barry Williams Show. La sua straordinaria intensità drammatica ha lasciato un segno indelebile nel 2003. È suo il ruolo dell’ex delinquente, ora buon padre di famiglia, la cui vita viene sconvolta dall’assassinio della figlia in Mystic River, di Clint Eastwood, per la cui interpretazione vince l’Oscar come miglior attore protagonista nel 2004 oltre al Golden Globe; e anche del professore malato terminale in 21 grammi.

Ha girato The Assassination, la storia vera del tentativo (sventato) di Samuel Byck, un modesto negoziante di Cincinnati, di far schiantare un piccolo aereo sulla Casa Bianca allo scopo di uccidere il presidente Nixon. Ha recitato anche con Nicole Kidman in The Interpreter, girato nel Palazzo di Vetro dell’ONU messo a disposizione da Kofi Annan. Nel 2007 dirige l’intensa storia di Christopher McCandless in Into the Wild – Nelle terre selvagge, attualmente il maggior film di successo del regista.

Nel maggio del 2008 è presidente della giuria del Festival di Cannes. Il 22 febbraio 2009 vince il suo secondo Oscar per la performance nel film Milk, dove interpretata Harvey Milk, paladino dei diritti gay assassinato nel 1978. Entra così a far parte della ristretta cerchia (Spencer Tracy, Gary Cooper, Fredric March, Marlon Brando, Dustin Hoffman, Jack Nicholson, Tom Hanks, Daniel Day-Lewis) degli attori che hanno ottenuto due Oscar per il miglior attore protagonista.

La sua capacità drammatica lo rende unico nell’effimero mondo cinematografico, tanto che difficilmente chi l’ha visto in Mi chiamo Sam, dove interpreta un padre con un grave handicap, lo dimenticherà per la struggente prova d’amore verso la sua bambina che vuole assolutamente crescere lui , anche se la sua intelligenza è pari a quella di un bambino di 7 anni!

 

 

 

 

 

 

Michael”: il film del regista austriaco Markus Schleinzer

 

opera prima, presentata in Concorso alla 64.ma Edizione del Festival di Cannes

 

 

Che cosa narra il film MICHAEL

Michael, il titolo del film, è anche il nome del protagonista, un trentacinquenne dalla vita tranquilla per non dire mediocre e abituale. Metodico, appartenente alla classe media colpita dalla crisi economica, conduce un’esistenza tutta casa, lavoro e qualche amicizia superficiale. Ha solo un piccolo passatempo che lo appassiona in modo particolare: si chiama Wolfgang, ha dieci anni, e vive segregato nello scantinato di casa sua.

Michael è infatti un pedofilo, ma non uno di quei tipi borderline che suscitano subito dubbi, anzi, a prima vista sembra la persona più buona e mite del mondo. E come prova di questa gentilezza Michael offre al suo piccolo ’ospite’ parecchi comfort, cercando di rendergli la vita da recluso più comoda e gradevole possibile, con l’illusione di creare una sorta di rapporto paritario.

Colpisce in modo particolare la normalità che fa dà cornice a questa vicenda. Il regista infatti mostra gli avvenimenti dal punto di vista del pedofilo che, convinto di non compiere nulla di sostanzialmente sbagliato, restituisce allo spettatore un senso di serenità, che contrasta fortemente con le immagini da lucido aguzzino che scorrono sullo schermo. Paradossalmente Michael rimane spesso stupito dalle reazioni violente e ribelli di Wolfgang, che vorrebbe tornare a casa, e tenta più volte di convincere il bambino che sono stati i genitori ad abbandonarlo. Adottando uno stile che ricorda molto quello di Michael Haneke, del quale è stato assistente al casting per diversi film, il regista ha voluto realizzare una pellicola che colpisse dritto allo stomaco dello spettatore, mostrando l’orrore che affligge una piccola vita indifesa caduta nelle mani di un pericoloso orco(Cfr. quotidiani italiani del 16 maggio 2011).

 

 

Scheda del film

MICHAEL

titolo originale: Michael

paese: Austria

anno: 2011

genere: fiction

regia: Markus Schleinzer

durata: 96′

sceneggiatura: Markus Schleinzer

cast: Michael Fuith, Christine Kain, Ursula Strauss, Viktor Tremmel, Gisela Salcher

fotografia: Gerald Kerkletz

montaggio: Wolfgang Widerhofer

scenografia: Katrin Huber, Gerhard Dohr

costumi: Hanya Barakat

produttore: Nikolaus Geyrhalter, Markus Glaser, Michael Kitzberger, Wolfgang Widerhofer

produzione: Nikolaus Geyrhalter Filmproduktion

supporto: Österreichisches Filminstitut, Filmstandort Austria, ORF Film/Fernsehabkommen, Filmfonds Wien, Cine Tirol

distributori: Les Films du Losange

rivenditore estero: Les Films du Losange

 

 

Chi è Markus Schleinzer

Il regista  presenta per la prima volta un suo film da regista in concorso al Festival di Cannes, ma è un habitué della Croisette essendo stato direttore casting di Michael Hanneke, autore di  La pianista. Nel suo film si sente l’’influenza del maestro  per il suo soggetto tabù e il modo in cui è trattato, mantiene sia una filiazione artistica con Happiness di Todd Solondz che un legame diretto con l’attualità austriaca segnata dal caso Natascha Kampusch,la ragazzina che poi è diventata una star dei vari Talk Show, tenuta prigioniera per tanti anni dal suo aguzzino.
L’autore filma  la routine quotidiana con una neutralità sconcertante, dando poca importanza ai dettagli più sordidi o ai riferimenti temporali. Non si fa mai allusione al rapimento, ma il tentativo su un altro bambino lascia intendere il metodo e il lavaggio del cervello messi in atto. Per Schleinzer, suggerire è più importante che spiegare. I dialoghi sono ridotti al minimo che suppone il rapporto tra un pedofilo e la sua vittima manipolata. La natura sovversiva di questa relazione è costantemente anestetizzata da un trattamento basato sull’osservazione, senza pertanto entrare nel voyeurismo malsano.
Per il regista, il sequestro è come un ménage disfunzionale che ha al contempo le caratteristiche di una coppia e quelle di una famiglia monoparentale. Uomo e bambino guardano la televisione, mangiano tête à tête e lavano i piatti insieme. Michael arriva persino a portare la sua vittima in gita, fanno insieme i puzzle e le battaglie con le palle di neve. Ogni sera, il ragazzino viene riportato nella sua prigione sotterranea, dove viene chiuso a doppia mandata, vittima regolare di sevizie che il pedofilo segnerà più tardi con una piccola croce su un calendario. Il carnefice è organizzato e manipolatore, ma non ha niente del personaggio malvagio dei thriller. Piuttosto, emana da Michael un’impressione di naturalezza ed è dal potere di questa normalità che nasce l’orrore.
Schleinzer gioca con le aspettative del suo pubblico seminando, lungo tutto il film, false piste e indizi sul contesto di questo crimine e le sue implicazioni nella vita del personaggio principale. Non è presentato come un uomo particolarmente mostruoso né simpatico, e lo spettatore è tenuto a distanza dalle sue intenzioni abilmente svelate un po’ per volta, fino alla sorprendente conclusione( Cfr.. Domenico La Porta, in CINEUROPA del 17 maggio2011).

 

 

Ma non mi piace  che il nome Michael

venga associato solamente alle brutture che- simili a serpi velenosi, come quell’orribile prete bestemmiatore, pedofilo e commerciante di carne umana, qual’é Riccardo Seppia, il parroco della chiesa di Santo Spirito a Sestri Ponente.

E’ consolante sapere che è citato nella Bibbia ebraica, nel Libro di Daniele 12,1, come primo dei principi e custode del popolo di Israele.

Nel Nuovo Testamento è definito come arcangelo nella Lettera di Giuda 9, mentre nell’Apocalisse di Giovanni 12,7-8 è l’angelo che conduce gli angeli nella battaglia contro il drago, rappresentante il demonio, e lo sconfigge. Esso è implicitamente nominato in Giosuè 5:14-15 e in Zaccaria 3:2. Essendo qui chiamato Angelo Personale del Signore possiamo ritrovare la sua figura in Genesi 16,7 che rimanda a 1Corinzi 10,4 che a sua volta si ricollega a Esodo 3,2 e 23:21 che rimandano ad Isaia 9,5 e 63,9 per poi ritrovarsi in Giudici 2:1 e rivelarsi nel collegamento tra Malachia 3:1 e Marco 1,2 e Salmo 106:20 e Giovanni 1,1.

Numerosi poi sono gli scritti apocrifi vetero e neo-testamentari in cui l’arcangelo Michele compare a vario titolo. Per esempio, nell’ Apocalisse siriaca di Baruc è scritto che detiene le chiavi del Paradiso; nella Vita di Adamo ed Eva si dice che fu lui ad insegnare ad Adamo a coltivare la terra; nell’ Apocalisse di Mosè detta ai figli di Adamo ed Eva i doveri rituali verso i defunti; nel Vangelo di Bartolomeo si racconta che fu lui a portare a Dio la terra e l’acqua necessarie a creare Adamo; nella Ascensione di Isaia si racconta che fu lui a rimuovere la pietra dal sepolcro di Gesù; nella Apocalisse della Madre di Dio accompagnò la Vergine in un viaggio infernale per mostrarle le pene a cui sono sottoposti i dannati…. (Cfr. Wikipedia).

In ogni caso, il cinema può dare una mano alla gerarchia cattolica, per tentare di “spegnere” i troppi scandali dovuti ai molti, moltissimi preti pedofili. Non sarebbe più semplice permettere ai giovani che vorrebbero servire Cristo nella comunità, frequentare anche l’altro genere, in modo che la loro sessualità si sviluppi in maniera naturalmente umana?

E Dio li creò. Maschio e femmina li creò(Dal libro della Genesi)