Qohelet, il lieve sussurro nel gran silenzio di Dio

Uno pseudonimo ebraico, Qohelet, rimanda al vocabolo qahal, «assemblea», in greco ekklesía, donde il greco-latino  Ecclesiastes è divenuto la titolatura comune nell’Occidente cristiano di un’opera tuttora oggetto di differenti decifrazioni.
Interpretato come testo pessimistico, scettico, considerato espressione dell’ideologia dell’aurea mediocritas,  influenzato dalla filosofia greca del III secolo a. C., ritenuto una guida ascetica di distacco e disprezzo del mondo a  parte della tradizione cristiana, è stato negli ultimi decenni da qualche esegeta riportato nell’alveo rassicurante  dell’ottimismo a causa di alcuni passi, per la precisione sette (2,24-25; 3,12-13; 3,22; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-10), dai  quali emergerebbe un appello al sereno godimento delle scarse gioie che la vita riserva. A questa interpretazione si accosterebbe, paradossalmente, anche lo scrittore francese Albert Camus quando, nel Mito di Sisifo, vede in Don  Giovanni «un uomo nutrito dall’Ecclesiaste», «un pazzo che è un gran saggio» perché «questa vita lo appaga». (…)
La tonalità dominante è quella dell’inconsistenza, emblematicamente incarnata dal vocabolo caro a  Qohelet, hebel/   habel, che risuona ben 38 volte, talora nella forma superlativa habel habalîm, il celebre vanitas vanitatum della  versione latina della Volgata: il termine allude al fumo, al vapore, al soffio e quindi definisce la realtà come vuoto,  vacuità, caducità irreversibile. (…)
L’incrinatura che fa scoprire la presenza dell’hebel nell’essere e nell’esistere si incontra anche nell’intelligenza umana.  Qohelet è un sapiente, uno scriba, un intellettuale (12,9-10); disprezza la stupidità, per ben 85 volte introduce le sue riflessioni in prima persona, consapevole di un’originalità del suo pensiero. Eppure il risultato finale del conoscere è  aspro: grande sapienza è grande tormento, chi più sa più soffre (1,13-18). «Anche il filosofo che crede di guidare il  mondo — scrive un commentatore, Daniel Lys — non guida che il vento. Il paradosso della sapienza è che la sapienza  suprema consiste nel sapere che la sapienza è vento quando pretende di essere suprema».
Non c’è, allora, nessuna differenza tra sapienza e stupidità? No, risponde Qohelet, una differenza c’è ed è terribile: il  sapiente è tormentato, l’ignorante è ilare nella sua beceraggine. Solo l’intelligente vede il vuoto che rode l’essere e la  morte che pervade ogni atto che si compie sotto il sole. (…)
Il Dio di Qohelet è un Deus absconditus: «La immensità di Dio non ha per Qohelet nulla di rallegrante; meraviglia in sé,  resta pura impenetrabilità» (Horst Seebass).
I buoni motivi che Dio — chiamato 32 volte su 40 ha-‘elohîm, cioè «il Dio», in modo freddo e distaccato — può avere  sono per noi privi di incidenza perché ci restano sconosciuti. La sua opera contiene in sé una incomprensibilità tale da  spegnere ogni interrogativo e rendere vana, non solo la contestazione, ma anche ogni tentativo di decifrazione del suo  senso (si veda soprattutto 4,17-5,6).
A questo punto scatta un interrogativo: come possiamo, dopo aver letto tutte le pagine di questo autore dai temi  spesso sconcertanti e fin provocatori, definire Qohelet «parola di Dio»? O ancora, come ha fatto il canone delle  Scritture ebraiche, e quindi la comunità giudaica e cristiana, ad accogliere al proprio interno un testo apparentemente «scandaloso»?
Certo, l’interpretazione «ascetica», che ha usato l’opera come se fosse un appello al distacco dalle cose, ha aiutato  l’inserimento di Qohelet nelle Scritture o, almeno, è servita a smorzarne la provocazione come, d’altronde, appare  nell’epilogo del redattore finale che riduce l’insegnamento di Qohelet alla dogmatica sapienziale classica (12,13-14).
I rabbini per «giustificare» Qohelet sono ricorsi anche ai suoi sette appelli al godimento delle gioie lecite, appelli  distribuiti nell’opera, oppure al fatto curioso e allegorico che la prima e l’ultima parola del libro (rispettivamente:  dibrê, «parole» e ra’, «perverso, cattivo») si ritrovano nella Tôrah, cioè nella Legge!
In realtà, c’è una strada per comprendere come questa teologia così nuda e povera possa a buon diritto far parte ed  essere coerente con la «Rivelazione» biblica. Per la Bibbia, infatti, la parola divina s’incarna e si esprime attraverso la  storia e l’esistenza. Essa, perciò, acquista anche rivestimenti miseri, può farsi domanda, supplica (Salmi), persino  imprecazione (Giobbe) e dubbio (in Qohelet). Si vuole, così, affermare che nella stessa crisi dell’uomo e nel silenzio di  Dio si può nascondere una parola, una presenza, un’epifania segreta divina. Il terreno umano dell’interrogativo amaro, come quello di Giobbe, può essere misteriosamente fecondato da Dio.
La Rivelazione, quindi, può passare attraverso le oscurità di un uomo come Qohelet, disincantato e in crisi di sapienza,   ormai vicino alla frontiera del silenzio e della negazione. Il silenzio di Dio e della vita non è per la Bibbia   ecessariamente una maledizione, ma è una paradossale occasione d’incontro divino lungo strade inedite e   sorprendenti. Qohelet è, dunque, la testimonianza di un Dio povero che ci è vicino, non in virtù della sua onnipotenza,  ma della sua «incarnazione», ed è in questa fratellanza che salva e si rivela.

 

in “Corriere della Sera” del 25 novembre 2011

Il Cantico dei cantici letto dalle tre grandi fedi

Cantico dei cantici, un convegno a Venezia
di Viviana Kasam

Del Cantico dei Cantici si parlerà per tre giorni a Venezia, dal 3 al 6 novembre, in un convegno organizzato  dall’Università Ebraica di Gerusalemme che metterà a confronto studiosi delle religioni, filosofi, scrittori per esaminare il Cantico in tutti i suoi aspetti: quello letterario/poetico, quello mistico, quello filosofico, e il rapporto con altre tradizioni in cui il sesso può essere una strada per raggiungere l’estasi spirituale (per esempio il buddismo tantrico).
Ai seminari in inglese in francese (non è prevista la traduzione in italiano) parteciperanno Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di Kabbalah , la scrittrice francese Eliette Abécassis, i filosofi Ami Bouganim e Monique Canto- Sperber (che insegna all’Ecole Normale Supérieure di Parigi), Yair Zakovitch, uno dei più quotati esperti biblici, Marco  Ceresa docente di letteratura cinese e studi culturali dell’Asia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Guy Stroumsa,  professore di religioni comparate dell’Università Ebraica di Gerusalemme, il presidente della stessa Università Menachem Ben Sasson, specialista di ermeneutica biblica, Clemence Boulouque, scrittrice specializzata in Kabbalah e  misticismo e Haim Baharier, noto per le sue vertiginose lezioni di ermeneutica biblica. E il giornalista Gad Lerner, che  parteciperà a un dibattito di grande attualità, domenica mattina, su sesso e potere.

 

 

Intervista a Moshe Idel, Haim Baharier e Enzo Bianchi

a cura di Viviana Kasam

Il Cantico dei Cantici: il poema d’amore più conosciuto, più commentato, più tradotto nella Storia, e anche il più  misterioso. Che cosa significa il titolo? Perché un poema così fortemente erotico è stato assunto sin dall’antichità  (Concilio di Yavnè, 90 d.C.), nel canone dell’Antico Testamento? E come mai nelle tradizioni religiose dell’occidente,  quella ebraica, quella cattolica, quella cristiana, la letteralità del testo, che descrive senza mezzi termini un amplesso, è  tata “freudianamente” rimossa in favore di una interpretazione mistica spesso tirata per i capelli, così forzata nel  diniego dell’evidenza da apparire quasi assurda ad un occhio laico e smaliziato?
Giriamo i quesiti a Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di mistica ebraica, che insegna alla cattedra che fu  di Gershom Scholem, Haim Baharier, famoso per le sue lezioni di ermeneutica biblica diventate cult, e Padre Enzo  Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, scrittore, editore di Qiqajon, profondo conoscitore e interprete delle Scritture.

 

Perché il titolo?
Baharier: Se abbracciamo ciò che dice Rashi al riguardo si tratterebbe di una valutazione qualitativa: un canto sopra ogni canto. Oppure un canto per tutti i canti. Seguendo invece il commento di Rabbi Israel Salanter, il Cantico dei  Cantici è un testo paradigmatico della pluralità dei significati e nello stesso tempo dell’univocità: ossia una voce  profonda, separata, sempre identificabile.
Bianchi: Questo titolo – che coincide con la prima riga del testo: “Cantico dei Cantici, che è di Salomone” – è un  superlativo, dunque indica “il canto per eccellenza”, il più sublime tra tutti i canti cantati in Israele. I rabbini dicevano  che c’è una corrispondenza tra questa espressione e il Santo dei Santi, ovvero il luogo più interno del Tempio, sede  della presenza di Dio. E’ un modo simbolico per affermare che la parola di Dio è presente più che mai in questo piccolo  gioiello letterario.


Dunque l’autore fu davvero il re Salomone?

Baharier: Dal punto di vista storico saremmo legittimati ad avere dei dubbi. Se però immaginiamo una sorta di casting  dobbiamo ammettere che il ruolo di autore del Cantico ben si addice a Re Salomone.
Idel: Ritengo di no, il testo è probabilmente più tardo di qualche secolo rispetto al regno di Salomone, ma questa  attribuzione è stata fondamentale per far adottare il Cantico nel canone biblico.
Bianchi: Non è realistico attribuirlo al Re Salomone. Però c’è un senso logico in questa attribuzione, legato al fatto che  nel testo viene citato alcune volte (per l’esattezza sei) proprio il Re Salomone. Approfondendo questo dato, potremmo  chiederci: per una innamorata il suo amato non è forse sempre un re? In quest’ottica è bello pensare che i due  ersonaggi siano in qualche modo un re e una regina, anche se nella realtà materiale del testo sono più probabilmente  un pastorello e una pastorella. L’amore descritto è quello di due ragazzi, è l’amore di tutti i ragazzi innamorati. L’autore, hiunque egli sia, è certamente un poeta raffinato, capace di descrivere l’amore con grande maestria.

 

Ma di quale amore stiamo parlando: amore sacro, amore profano, o entrambi?
Idel: Secondo il suo significato originario, è un canto erotico secolare, che solo più tardi è stato allegorizzato sia nella  tradizione ebraica che in quella cristiana, per adattarsi a nuovi valori religiosi emersi più tardi, a partire dal primo  secolo dopo Cristo.
Bianchi: Direi che il Cantico celebra l’amore umano in tutte le sue infinite sfaccettature, alle quali si può alludere solo in  chiave poetica: la lontananza, il cercarsi, il rincorrersi, il ritrovarsi, l’amplesso… E’ significativo che il nome di Dio  compaia solo alla fine, quando si dice che l’amore è una fiammata, è un fuoco divino. In questo senso, nella tradizione  ebraica il Cantico è diventato ben presto simbolico dell’amore di Dio per il suo popolo; nella tradizione cristiana è  normalmente simbolico dell’amore tra Cristo e la Chiesa o, in ambienti monastici, tra Dio, tra Cristo e il singolo credente. In questo cammino il senso letterale del Cantico fu totalmente oscurato. Quando però si trattò di inserire  questo poema nel canone dell’Antico Testamento molti si opposero, proprio per gli espliciti riferimenti al sesso  contenuti in queste pagine. Fu Rabbi Akiva a farcelo entrare, durante il Concilio di Javne (fine del I secolo d.C.), insistendo sull’interpretazione simbolica di cui si diceva.
Celebri sono le parole da lui usate per giustificare tale inserimento: “Il mondo intero non è degno del giorno in cui il  Cantico dei Cantici è stato donato a Israele: tutte le Scritture infatti sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi!”

in “www.ilsole24ore.com” del 30 ottobre 2011

 

 

Altri contributi

 

“Dopo tanta caccia al vuoto di Dio, sembra Ceronetti aggrapparsi alla preda di quelle consonanti materiche dei dossi e delle pietraie semitiche, quasi per scongiurare l’aveu della conclusione: «Forse perché sei la sera, la morte velata – Cantico, sacro Cantico – di te ho paura”. Il suo non dar tregua al testo…, il suo annerire di contrasti violenti i fondali… non fa che aumentare il fascino della tradizione del Cantico”
“La mia verità attuale sul ‘Cantico’ è questa: il ‘Cantico’ non è un testo mistico. Ha un doppio senso, ne è farcito, ma non un doppio fondo. Canta l’amore bucolico in modi che in nulla corrispondono ai nostri, di vivere e di concepire l’amore… Il Dio biblico integrale cercàtelo altrove: nei Profeti, nel libro dei Salmi, nell’Esodo, se vi può consolare…”

 

 

La creazione non è un istante ma una trama incompiuta

Pubblichiamo il testo dell’intervento con cui Haim Baharier, studioso ebreo di esegesi biblica, apre oggi il suo dialogo con Alberto Melloni sul tema «Bereshìt / In principio» nell’ambito della giornata conclusiva del festival Torino Spiritualità.

 

Rabbi Zadoq Hakohen, maestro hassidico, sosteneva: «La verità va perseguita e l’intelligenza deve essere al servizio della verità. Quando però l’intelligenza contraddice la verità, l’intelligenza non  va né piegata né soffocata. Occorre dire non so, e studiare». Spaccati tra creazionisti e anticreazionisti, gli studiosi di fine Ottocento non raccolsero la lezione di Zadoq come battuta riconciliante. La diatriba perdura ancora oggi. Ogni serio studioso sa bene che il problema non è considerare il testo biblico verità o meno. È invece scorgere un percorso tra le boe senza mai considerarle punti fermi, acquisiti una volta per tutte. Si può annegare nelle certezze o aprirsi alla pluralità. Nel testo  della Creazione ciò che sorprende è che né Dio né l’uomo si pongono come entità sfumate; anzi, si presentano come due evidenze che si confermano a vicenda. Quasi volessero deviare il nostro interesse verso ciò che la tradizione ebraica considera l’enigma più grande nell’ambito della creazione: il mondo. Un mondo che nasce prima di tutto come tempo, non come luogo. Secondo la Torah,  cieli e terra vengono poi, una materialità successiva a quel «in principio» (Genesi , 1,1) che è innanzitutto accensione del tempo. A contropelo rispetto al primo impulso del pensiero che lega a maglie strette spazio e tempo, la Torah viene a dirci che tra il tempo prima e lo spazio dopo, si annida (o si estende, non lo sappiamo poiché lo spazio è ancora di là da venire!) la volontà creatrice.
Chi crea libera per fare posto, si stringe, si ritira. Perché è lo spazio concesso che permette all’altro di vivere in dignità. Si dona l’essere all’altro da sé. Tra tempo e luogo germina non una legge metafisica, ma un imperativo morale. Potremmo spiegare che la Genesi biblica, Bereshìt in ebraico, custodisce questo principio nella sua lettera iniziale Bet, che ha valore di due: da assumere  prima come un due temporale, poi spaziale, in quanto numero minimo per dare un confine, per avere un vicino… Concetto non facile da digerire e che è anche suggerito da una mishnà secondo la quale il mondo è stato creato con dieci dire. Perché dieci dire, quando – ci immaginiamo – sarebbe bastato un solo colpo d’ interruttore? Si parla del Creatore e Lui non dovrebbe avere di questi  problemi.
Intuiamo dalle parole parsimoniose della Bibbia quanto poco Egli sprechi. La mishnà avverte che questi dire molteplici non esprimono una vicinanza tra la parola e l’effetto di questa parola,  bensì una distanza tra la parola e ciò che succede a seguito di questa parola, una presa di distanza rispetto a quello che si materializza dal dire. In questa distanza che separa il dire dal fare, lì siamo  noi.
Perché? È una forma di protezione della creazione: questa distanza da una parte allontana gli incoscienti, coloro che vogliono distruggere la creazione, costringendoli a percorrere distanze infinite, mentre dall’altra serve ai giusti come percorso: percorso conoscitivo. Distanza che contempla due aspetti: positivo per il giusto che può avvicinarsi alla parola e ai suoi effetti, può interiorizzarli ed elaborarli; cautelativo nei confronti dell’incosciente che, tenuto alla larga, non riesce a combinare tutto il male che vorrebbe. Il nostro habitat è una distanza «di sicurezza». Dunque creare non è mai una gettata a presa rapida; esiste un pensiero che smaglia e allarga le trame in virtù del quale anche ciò che in apparenza è già fatto, già creato, ci appare incompiuto…
Penso a quel mutamento di identità che la Torah attribuisce ad Adamo quando diventa nefesh haià, persona vivente. Dopo che nelle sue narici viene insufflato il vento. Solo allora l’uomo diventa  una persona. Si può essere un uomo e anche un vivente, e non essere una persona, dice la Torah.
Bisogna essere attraversati dal vento. Qui sta secondo me la chiave dell’accoglienza: quando scopro che l’altro non è soltanto un essere vivente ma è una persona, quando conosco l’alito che lo muove,  sogni che lo fanno vivere, solo in quel momento accolgo.

 

in “Corriere della Sera” del 2 ottobre 2011

Il Vangelo fuoco che arde nonostante la cenere della storia

“È possibile vivere il Vangelo?”.

 

Chi come me ha una certa età, avendo ormai attraversato le varie stagioni della vita ed essendo approdato all’ultima, riconosce che questa domanda ha ricevuto e continua a ricevere risposte diverse.
C’è stata una stagione, che per la mia generazione è coincisa con la giovinezza, in cui le attese, le speranze, le forti convinzioni tipiche del tempo in cui i giovani si affacciano alla vita e vi entrano, erano convergenti con le speranze della chiesa e del mondo. Erano gli anni del disgelo tra l’occidente e l’oriente comunista, gli anni in cui si riprendeva un dialogo interrotto da tempo, e la primavera sembrava essere la metafora più appropriata per definire quell’epoca in cui molte realtà sembravano germogliare e alcune sbocciare. Questo avveniva anche nella chiesa: un papa che appariva innanzitutto come un cristiano; un concilio da lui voluto in cui ci si ascoltava, ci si confrontava anche aspramente ma con la passione della fedeltà al Signore; un dibattito tra singoli cristiani e tra comunità cristiane che avvertivano nel loro quotidiano il bisogno di mutamento, di rinnovamento, potremmo anche dire di conversione. Si respirava nell’aria una novità che non  era l’arrivo di una “moda”, ma era un ritorno al Vangelo, alla forma vitae della chiesa primitiva.


Per questo si parlava, con molto timore, anche di aggiornamento, qualcuno ardiva persino parlare di riforma della vita della chiesa. Per i cristiani con una certa consapevolezza era il Vangelo che
diventava una presenza dinamica, un riferimento, un principio che veniva invocato come un’urgenza, una realtà da viversi concretamente e, oserei dire, visibilmente: questo non per “un’ostensione davanti agli uomini” ma per verificare che il Vangelo ispirava veramente la vita di molti cristiani ed era assunto dalla chiesa come presenza egemone. In questo cammino si  coniavano parole ed espressioni nuove: ritorno alle fonti, riscoperta della chiesa dei padri, ispirazione alla comunità apostolica, autorevolezza della chiesa indivisa…


Qualcuno oggi, analizzando quella stagione, conclude che nella chiesa si era instaurato un mito – il mito di un’età dell’oro, il mito delle origini – e che questo era dovuto soprattutto a Erasmo da Rotterdam, il quale agli inizi del XVI secolo plasmò un certo vocabolario e una certa filosofia della riforma ecclesiale. In verità chi conosce più in profondità la storia della chiesa sa che nella vicenda stessa del cristianesimo è insita questa nostalgia degli inizi. Anzi, potremmo dire che già nell’Antico Testamento i profeti, a partire da Osea, ricordavano al popolo del Signore il bisogno di ritornare ai tempi del fidanzamento, ai tempi del deserto, contrassegnati dalla fedeltà e dall’amore (cf. Os 2,16- 25): quell’amore che sa cantare la convinzione forte e la grande speranza in cui sembra non apparire la stanchezza e non esserci posto per la frustrazione, la delusione, il misurare la propria debolezza.


Quando, di fronte alla chiesa costantiniana sorta nel IV secolo, avvenne la protesta del monachesimo e la sua fuga nel deserto, i padri monastici chiesero di tornare alla koinonía, alla comunità descritta da Luca nei cosiddetti “sommari” degli Atti degli apostoli (cf. At 2,42-47; 4,32- 35). Ritorno alle fonti, quindi. In seguito ogni tradizione attingerà sempre a quella forma della chiesa primitiva: questo avverrà per i vari tentativi di riforma, da quello di Cluny a quello di Bernardo di Clairvaux, ai movimenti mendicanti e anche a quelli ereticali, tutti tesi a riprendere la prassi di chi “nudo segue il Cristo nudo”.


Mito della riforma? O non piuttosto capacità del Vangelo di essere un fuoco che continua a covare sotto la cenere, che resta brace incandescente la quale può sempre dare origine a un roveto  ardente?
“Il Vangelo è dýnamis, potenza di Dio” (Rm 1,16), dice l’apostolo Paolo! Può essere smentito, fatto tacere, reso inefficace, può essere addirittura contraddetto e pervertito, e allora sembra restare inerte sotto la cenere. Ma poi riprende ad ardere, perché è un fuoco che subito rinasce non appena un cristiano getta sulla cenere qualche sterpo del suo vivere, alla ricerca della luce e della presenza divina. Non si può far tacere per sempre il Vangelo: per qualche tempo sì, e la storia della chiesa lo testimonia; ma poi basta che un uomo o una donna, alla ricerca di luce vera e di fuoco che consumi, abbia il coraggio di scostare un po’ di cenere e di gettarvi sopra una bracciata di legna secca, che subito il fuoco e la luce si fanno nuovamente vedere.


Ormai vecchio, vicino alla morte, un grande spirituale italiano confidò a me e a un mio fratello: “Me ne vado dopo aver combattuto per riformare la chiesa, ma ora sono convinto che la chiesa sia irriformabile”. Quelle parole mi stupirono, mi fecero male, ma non nego che ora a volte sono tentato di condividerle. Siamo capaci di dare alla chiesa un volto nuovo, più fedele e conforme al volto  di Cristo, oppure questa è solo una speranza, e la sposa di Cristo sarà tale solo quando verrà lo Sposo? Mi ostino a credere che alla brace del Vangelo basti il soffio dello Spirito per riprendere adardere, riscaldando i nostri cuori e illuminando l’umanità intera. Sì, il Vangelo si può ancora vivere in ogni stagione.


in “Jesus” n. 9 del settembre 2011

Viva ed efficace è la parola di Dio

 

Pastore Corrado (a cura), Viva ed efficace è la parola di Dio (Ebr 4,12). Linee per l’animazione biblica della pastorale, Elledici, Leumann (TO) 2010, pp. 334.

 

Si tratta di una Miscellanea offerta a Don Cesare Bissoli, da parte dell’Istituto di Catechetica dell’Università Salesiana, in cui per oltre un trentennio ha prestato il suo servizio nell’ambito della pastorale e catechesi biblica, con innumerevoli interventi di riflessione e di pratica nella comunità ecclesiale italiana.

Il volume è stato pensato come uno strumento che servisse all’animazione biblica della pastorale, in un momento di affermazione di tale compito da parte del Sinodo sulla Parola di Dio e specificamente nella fase di crescita dell’incontro della gente con la Bibbia grazie anche all’apostolato biblico coltivato sempre più nelle diocesi e nelle comunità cristiane.

L’obiettivo è stato realizzato grazie al contributo di 22 esperti riconosciuti, tra cui sei vescovi, che hanno realizzato il progetto articolato in quattro parti.

Prima parte: elementi di fondazione biblico-teologica della Scrittura nella pastorale. Viene qui trattato il rapporto Bibbia e Tradizione nell’azione pastorale (B. Forte), come incontrare la Bibbia nel contesto culturale di oggi (L. Meddi), la lettura storico-critica e lettura spirituale del Libro sacro (R. Fabris), la relazione tra Parola, libro e lettore per una lettura orante della Scrittura (G. Benzi), il senso del detto gregoriano “La Scrittura cresce con chi la legge” (L. Chiarinelli).

Seconda parte: elementi di contenuto in vista dell’azione pastorale. Leggere la Bibbia e fare teologia (C. Buzzetti), l’AT nel cammino di fede (M. Cimosa), l’AT nella liturgia di rito romano (M. Sodi).

Terza parte: elementi attinenti alla comunicazione. Qui vengono presentate le luci ed ombre nella pastorale e catechesi biblica oggi (G. Giavini), Parola di Dio e ri-figurazioni audiovisive (D. Viganò), Bibbia, arte e catechesi (A. Scattolini), l’animatore biblico e la sua formazione (E. Biemmi), formazione di animatori di Gruppi di Ascolto (G. Barbieri).

Quarta parte. riferimenti ai destinatari. Iiniziare alla Bibbia nella comunità cristiana (A. Fontana), potenziale e limiti dell’incontro del bambino con la Bibbia (F. Feliziani Kannheiser), i giovani e la Bibbia (R. Tonelli), la Bibbia nell’esperienza scout (F. Chiulli – L. Marzona – D. Boscaro), Bibbia e  famiglia (C. Ghidelli), la Bibbia in America Latina oggi (C. Pastore).

Merita ricordare le pagine di inizio e di conclusione del volume. Il Cardinal A. Bagnasco, presidente della CEI, nella sua presentazione con accenti di stima ed amicizia ricorda il servizio di Don Bissoli alla Chiesa italiana. A conclusione lo stesso Don Cesare compie un bilancio del suo lavoro facendo una sintesi della sua bibliografia, che è andata oltre il campo strettamente biblico-pastorale, toccando tematiche riguardanti la catechesi, l’insegnamento della religione, la pastorale giovanile, temi pedagogici… Tutto – egli afferma – “al servizio della Chiesa oggi”. Questa può essere ritenuta la prospettiva di fondo di tutto il suo lavoro.

Gli operatori pastorali e gli animatori biblici possono qui trovare un materiale solido, aggiornato e fruibile per l’animazione biblica della pastorale. (Corrado Pastore)

Bibbia e Corano, i tabù da superare


Oggi, nel mondo musulmano, il Corano non è oggetto di confronto, non viene assolutamente rimesso in discussione.


Alcuni ricercatori musulmani, il più delle volte formati o residenti in Occidente, azzardano qualche interrogativo sulla redazione del Corano, ma incorrono immediatamente nella condanna delle autorità religiose. Il problema dello spirito critico è un problema reale. Tutto quanto riguarda la religione è ancora tabù: è vietato discuterne e lo è ancora di più se si tratta del Corano o della tradizione maomettana; Maometto, la sua vita, ciò che ha fatto e ciò che ha detto, sono tuttora tabù.

Quindi i musulmani non possono parlare delle guerre condotte da Maometto se non in maniera apologetica, per affermare che il suo unico scopo era quello di difendersi dai persecutori. Eppure a leggere le opere delle prime generazioni di musulmani, si rimane colpiti dall’atmosfera più libera che vi si respira. Gli autori esprimevano con molta semplicità il loro punto di vista, positivo o negativo che fosse, per così dire senza complessi.

Lo stesso vale per i rapporti umani di Maometto con altri gruppi, come gli ebrei, i cristiani e soprattutto con i politeisti della città natale e di tutta l’Arabia, nonché per le relazioni con le donne: tutti questi argomenti non sono mai affrontati in modo critico, ma sempre elogiativo e agiografico (dal greco hagios = santo). È lo stile tipico della tradizione cattolica che si adoperava in passato per raccontare la vita dei santi: sono sempre persone straordinarie, che hanno pregato, digiunato e altro ancora sin dall’infanzia. Tuttavia, il lettore sa che quel genere di racconto non vuole essere una descrizione storica dettagliata, ha bensì il solo scopo di incitarlo a imitare le virtù del santo di cui narra la vita.

Ahimè, ancora oggi la vita di Maometto viene raccontata in modo puramente agiografico, si espongono i suoi intrighi come fatti storici realmente accaduti, i racconti abbondano di dettagli presunti, che si amplificano man mano che ci si allontana nel tempo dalla persona del fondatore dell’islam. Sebbene nel Corano non vi sia il seppur minimo accenno ad alcun miracolo compiuto da Maometto, nonostante le richieste avanzate dagli arabi di farne, fosse pure uno solo, a esempio di Mosè e di Gesù, i biografi posteriori ne aggiungono a piacimento. E più passano gli anni, più i biografi scoprono nuovi miracoli, come ha ben dimostrato padre Focà.

Oggi il problema dell’interpretazione del Corano è sicuramente la questione principale sia nella religione musulmana sia nella vita dei musulmani. Molti intellettuali musulmani ne sono consapevoli e sono migliaia coloro che cercano di proporre nuove interpretazioni del Corano, un compito estremamente arduo dal momento che questi studiosi devono scontrarsi con una lunga tradizione e spesso vengono accusati di lasciarsi guidare dall’Occidente e dai non musulmani. Accusa suprema!

In che cosa consiste il problema dell’interpretazione del Corano? Il Corano è presentato come «disceso» dal cielo su Maometto, il quale lo ha proclamato ai suoi contemporanei. Alcuni di essi lo hanno memorizzato nel proprio «petto» (sudur) e dopo qualche decennio lo hanno dettato a degli scribi. In un’ultima fase, i fedeli hanno raccolto tutte queste pagine sparse, scritte su svariati supporti (palme, ossa, ostraca, carta, eccetera), per farne un libro. La stessa parola utilizzata per «libro», mus-haf, non è di origine araba, è bensì un termine etiopico che stava a indicare la Bibbia. Tutte queste osservazioni di carattere filologico sono importanti in quanto permettono di vedere come l’islam nascente abbia integrato elementi provenienti dalla cultura cristiana o dalla cultura giudaica (per le questioni di ordine rituale e giuridico).

Il Corano si presenta quindi come il risultato di questo insieme di procedure. La discesa su Maometto, la declamazione di Maometto, la deposizione di tale declamazione nei «petti» di coloro che l’hanno memorizzata, la recitazione della deposizione ad alcuni scribi, la collazione dei fogli sparsi in un libro che è il Corano. Tutto questo è solo la prima fase.

Il passo successivo venne con l’unificazione del Corano e l’eliminazione di tutte le varianti; si passò poi, con l’inizio dell’VIII secolo, a distinguere le consonanti mediante l’indicazione dei punti. Per finire, nel IX secolo, sotto la pressione dei sapienti furono aggiunte le vocali. Un lungo processo, durato due secoli, che ha portato a un testo: il Corano.

Un testo che i musulmani hanno provveduto a sfrondare di tutte le modalità con cui è stato trasmesso per poter infine affermare che viene direttamente da Dio, che è la parola di Dio trascritta fedelmente e alla lettera, senza possibilità di errore. Tutti i libri musulmani che citano il Corano insistono sulla fedeltà della sua trasmissione in contrasto con la supposta infedeltà della trasmissione dei Vangeli.

A tale scopo, essi fanno riferimento alle teorie più liberali dell’esegesi cristiana, affermando che parecchie generazioni separano il momento in cui il testo dei Vangeli fu stabilito definitivamente, alla fine del I secolo o all’inizio del II secolo, e la morte di Cristo intorno al 30 d.C. Cosa che, al contrario, non succede per il Corano, che è stato trascritto fedelmente senza ombra di errore, poiché, come tutti sanno, i memorizzatori (hafiz, huffaz) e i trasmettitori avevano una memoria da elefanti e Dio ne garantiva l’infallibilità! Si vede dunque come il fenomeno sia stato mitizzato. In virtù di questa mitizzazione del testo coranico, si è giunti ad affermare che il testo oggi in nostro possesso è il dettato letterale fatto da Dio a Maometto, trascritto fedelmente.

Si dice, in termini concreti, che Dio «ha aperto il petto del profeta» e l’arcangelo Gabriele vi ha depositato il Corano. In seguito Maometto non ha dovuto far altro che attingere, per così dire, da questo deposito per recitare i versetti utili in ogni circostanza. Si può quindi concludere che non vi siano intermediari. In questo modo di pensare non possono esserci interpretazioni: l’interpretazione consiste unicamente nell’accertarsi del senso esatto delle parole.

In realtà le prime generazioni di musulmani non hanno mai seguito questa linea di pensiero. Al contrario hanno tentato di comprendere ciascun versetto spiegando il contesto nel quale la frase era stata pronunciata da Maometto. Esistono interi libri, decine di libri (spesso di svariate migliaia di pagine) nella letteratura arabo-islamica che parlano di quelle che vengono definite le circostanze della «discesa» (asbab al-tanzil, che altri chiamano asbab al-nuzul) nel senso di «rivelazione».

Quindi ciascun versetto sarà spiegato in funzione delle circostanze presunte nelle quali Maometto avrebbe trasmesso la parola di Dio. Si tratta di un fatto importantissimo, eppure oggi questo contesto viene completamente ignorato.

 

 

Samir Khalil Samir

E’ ancora tempo di primo annuncio

 


A Matera Bibbia, arte e comunicazione

 

 

 

Il “Corso interdisciplinare Bibbia, Arte e Comunicazione”, organizzato dal Settore Apostolato Biblico dell’Ufficio Catechistico Nazionale e dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della CEI, sarà inaugurato mercoledì 6 luglio alle 17 dal coordinatore, don Pasquale Giordano e, quindi, dalla relazione “Primo annuncio e Nuova Evangelizzazione” di don Carmelo Sciuto, Aiutante di studio dell’Ufficio Catechistico Nazionale. La giornata di giovedì 7 prevede, dopo la lectio divina sul Vangelo del giorno (che sarà offerta quotidianamente da  don Cesare Mariano, Docente di Sacra Scrittura della Diocesi di Acerenza), la relazione di Rosalba Manes, Biblista e docente di S. Scrittura all’Ecclesia Mater di Roma (“Paolo e il suo vangelo: dall’evento all’annuncio”). Seguirà un laboratorio su pagine scelte dell’epistolario paolino. Alle 16 don Franco Mazza, della Pontificia Università Urbaniana di Roma, interverrà su “Il vangelo e i linguaggi mediatici”, dopo di che sono previsti un laboratorio e un cineforum.

Venerdì 8 luglio il programma prevede la relazione di don Sebastiano Pinto, Biblista della Facoltà Teologica Pugliese, su “Vangelo di Gesù Cristo (Mc1,1): dall’esperienza alla testimonianza scritta”, cui seguirà un laboratorio sui “Vangeli dell’infanzia”. Nel pomeriggio, suor Maria Luisa Mazzarello e Suor Maria Franca Tricarico, docenti di Catechetica e di Arte presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione dell’Auxilium di Roma, interverranno su “Il Vangelo nell’arte”, prima di un altro momento di laboratorio e in serata una lettura teatrale, aperta al pubblico, del Pianto della Madonna di Jacopone da Todi, a cura dell’attore Michele Casella.

Sabato 9 luglio al mattino sarà la volta di don Pasquale Giordano, del Seminario di Potenza e Coordinatore del corso, che interverrà su “Evangelizzate andando: il dinamismo dell’annuncio evangelico in Atti”, relazione che precederà un laboratorio su alcune pagine scelte degli Atti degli Apostoli. Alle 16 Annalisa Guida, docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, terrà una relazione su “L’arte narrativa dei vangeli apocrifi”, dopo di che è previsto ancora un laboratorio. Il corso si chiuderà domenica 10, con don Ivan Maffeis, Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, che terrà la relazione “Il rischio dell’annuncio e/o la via della testimonianza”, mentre alle 11 Mons. Salvatore Lagorio, Vescovo di Matera – Irsina, presiederà la Celebrazione Eucaristica insieme alla comunità locale.

La Bibbia nella storia d’Europa dalle divisioni all’incontro

 

Dalle divisioni all’incontro

Aula Grande Fondazione Bruno Kessler | Trento, via Santa Croce 77

Convegno a Trento il 30 aprile – 1 maggio organizzato dall’associazione Biblia in collaborazione con la Fondazione TKessler, che ospita l’evento, e il centro per l’ecumenismo e il dialogo dell’Arcidiocesi tridentina. Tra i relatori:  teologi, accademici e scrittori italiani e internazionali.

 

 

La Bibbia è ancora il «Grande Codice» dell’Occidente? Qual è stato il passato e qual è il futuro del libro che, di volta in volta elemento di unione o pomo della discordia, è stato il motore delle vicende europee? Sono le domande che risuonano al centro del convegno che a Trento da domani fino a domenica discute de «La Bibbia nella storia d’Europa dalle divisioni all’incontro».
Organizzato dall’associazione Biblia in collaborazione con la Fondazione Kessler, che ospita l’evento, e il centro per l’ecumenismo e il dialogo dell’Arcidiocesi tridentina, vede sul tavolo dei relatori teologi, accademici e scrittori italiani e internazionali, provenienti dal mondo cattolico e protestante ma anche laico, come ad esempio Tullio de Mauro, a cui è affidata la prolusione. Il programma oscilla tra studi di approfondimento storico e riflessione sull’attualità: «Anche la storia della ricezione dei singoli testi e del testo scritturistico nel suo insieme fa certamente parte della
cultura biblica – afferma Marinella Perroni , del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo e membro del comitato scientifico di Biblia –. ‘ Scriptura crescit cum legente’, diceva Gregorio Magno. Un motto che se interpretato in senso troppo individualista o intimista non darebbe ragione del carattere del testo venerato come ‘sacro’ da ebrei e cristiani e riconosciuto come cardine dello sviluppo culturale umano. La Scrittura cresce infatti anche attraverso la lettura che ne fanno le Chiese e i gruppi sociali nelle diverse epoche culturali e nei diversi momenti religiosi collettivi. Per questo la ricerca nei confronti del Libro non può prescindere dal prestare attenzione anche a momenti della storia della
ricezione biblica. Non c’è dubbio che, strettamente intrecciata con lo sviluppo della cultura d’Europa, la Bibbia è stata anche una delle cause delle sue profonde lacerazioni religiose e politiche. Ripercorrere la storia della formazione delle Scritture ebraiche e cristiane nella città di Trento, che è stata scenario di uno dei momenti più drammatici della storia intracristiana, supera la semplice ricostruzione del passato e si traduce in interrogativi sul futuro: oggi, per la cultura
europea, la Bibbia è ancora fonte e motivo di divisione o può aprire nuovi spazi di maturazione culturale e di dialogo religioso?».
Per Paolo Ricca , già decano della Facoltà valdese di Teologia «Certamente la Bibbia è oggi ancora il testo più ecumenico che ci sia. Tutte le Chiese di tutte le tendenze e orientamenti, unanimemente riconoscono in lei la ‘parola originaria’. È l’elemento che ha permesso al Cristianesimo di diventare quello che i testimoni volevano che fosse. Per questo un Cristianesimo che si allontana dalla Bibbia  si allontana anche dalla sua natura e va alla morte spirituale e fisica. Se c’è una parola che può unire le Chiese, malgrado le differenze interpretative, è quella della Scrittura. Quella è la parola della fede cristiana: un riconoscimento che c’è sempre stato, anche quando i cristiani tra loro non si parlavano».
Una parola che non è sempre stata accessibile nel mondo cattolico, come sottolinea la storica Gigliola Fragnito : «Fino al Concilio di Trento l’Italia era, insieme con Germania e Polonia, il paese dove più alta era la circolazione di volgarizzamenti parziali del testo sacro». Una serie di pronunciamenti dell’Inquisizione e della Congregazione dell’Indice bloccarono alla fine del Cinquecento ogni traduzione «in lingue materne», la cui sorte designata era il rogo: «Una risoluzione contrastata, a cui si opposero semplici fedeli ma anche vescovi e inquisitori. E che fu valida per Italia, Spagna e Portogallo, dove vigeva l’Inquisizione, ma non per il resto d’Europa. In Francia e nelle Fiandre, ad esempio, ebbero circolazione diverse traduzioni. Solo nel 1758 con Benedetto XIV il divieto venne abrogato, ma il gap rimase. È solo con il Concilio Vaticano II che si incoraggia la lettura della Bibbia. E Giovanni Paolo II, in proposito, ha fatto moltissimo».
Cosa resta però oggi della Sacra Scrittura in Occidente? Se, come constata amaramente Ricca «La Bibbia oggi è piuttosto assente. In Italia come all’estero o è cancellata o è in corso di cancellazione», più articolata è l’opinione di Piero Stefani, biblista e studioso di ebraismo: «Si sta verificando una situazione singolare, capovolta rispetto a quella più tipicamente attestata nel passato. Nei paesi cattolici, dove era stata sottratta alla lettura diretta, la Bibbia ora sta crescendo sempre più nella conoscenza dei singoli fedeli e oggi è certamente molto più nota e letta rispetto a
quando venne chiuso il Concilio Vaticano II. Nei paesi tradizionalmente protestanti invece, dove il testo sacro era patrimonio di dominio pubblico, la secolarizzazione sta progressivamente erodendone la conoscenza e la diffusione. Un dato, questo, che vale soprattutto per le Chiese riformate storiche e per l’Europa: c’è infatti a livello globale un biblicismo aggressivo e fondamentalista assai rigoglioso nelle chiese evangelico-pentecostali. L’avvicinamento delle
tradizioni cattolica e protestante è invece ormai un fatto acquisito a livello accademico. È significativo che questo convegno abbia luogo a Trento: rispetto a quei tempi, infatti, la Bibbia non è più oggetto di contesa. Biblisti protestanti e cattolici sono oggi quasi indistinguibili, mentre prima mancava riconoscimento reciproco. Vale la pena segnalare che il nuovo atteggiamento nel mondo cattolico è precedente al Concilio Vaticano II e può essere anticipato al 1943 e all’enciclica Divino Afflante Spiritu con cui Pio XII legittimò il metodo storico critico, vale a dire proprio quello che la
Chiesa per secoli aveva combattuto del mondo protestante. Su questo panorama resta invece meno individuabile il passaggio nel mondo ortodosso, dove la lettura della Bibbia passa sempre attraverso la mediazione dei Padri».
Accanto a queste due linee c’è un fenomeno sempre più largamente diffuso di un approccio non religioso al testo biblico: «La Scrittura – prosegue Stefani – viene affrontata come un testo letterario, secolare». La Bibbia un archetipo narrativo, sulla falsariga dell’Iliade e dell’Odissea?

«Gli episodi della storia biblica vengono sempre più frequentemente sottoposti a operazioni diriscrittura. Questo modo di accostarsi, trasversale alle diverse culture e diffuso soprattutto fuori dai nostri confini, consente però anche un approccio sereno al testo, senza la vis polemica e ideologica del laicismo».

Alessandro Beltrami

in “Avvenire” del 28 aprile 2011