Il villaggio di cartone

 

l’ultimo film di Ermanno Olmi

 

 

La Trama

Il film narrerà dell’incontro tra due culture e varie etnie, quella africana e quella europea, quando un gruppo di clandestini prende possesso di una vecchia chiesa per safamarsi. La storia viene osservata attraverso gli occhi di un vecchio prete.

Piccola curiosità: l’anziano sacerdote è interpretato da Joe R. Landsale, sceneggiatore ma soprattutto apprezzato scrittore.

 

Il villaggio di cartone
Titolo originale: Il villaggio di cartone
Italia: 2011. Regia di: Ermanno Olmi Genere: Drammatico Durata: 87′
Interpreti: Michael Lonsdale, Rutger Hauer, Alessandro Haber, Massimo De Francovich, El Hadji Ibrahima Faye, Irma Pino Viney, Fatima Alì, Samuels Leon Delroy, Fernando Chironda, Souleymane Sow, Linda Keny, Blaise Aurelien Ngoungou Essoua, Heven Tewelde, Rashidi Osaro Wamah, Prosper Elijah Keny
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 07/10/2011

 

Recensione di: Francesca Caruso
L’aggettivo ideale: Simbolico

Il pluripremiato regista e sceneggiatore Ermanno Olmi torna dietro la macchina da presa realizzando un film che fotografa “ una realtà simbolo” – come ha spiegato lui stesso.
Vi si racconta il viaggio emotivo di un vecchio prete, che vede la sua chiesa smantellata pezzo dopo pezzo. Assiste impotente all’azione degli operai che staccano dalle pareti i quadri e il grande Crocifisso. Durante la notte, però, la chiesa si anima di nuova vita: vi trovano rifugio un gruppo di emigranti di passaggio, i quali chiedono al vecchio un po’ di carità cristiana.

Il maestro Olmi ha scritto il film come fosse un apologo secondo una visione teatrale.
“Nell’apologo la sublimazione è fatta dell’immagine simbolo e dalla parola simbolo, i personaggi parlano come un libro stampato” – spiega il regista – “ ed è stato volutamente realizzato così”. Il cineasta si è particolarmente soffermato sull’idea di carità, di fratellanza e di amore verso il prossimo. Si dice ama il prossimo tuo come te stesso, ebbene il vecchio prete trova dentro sé quel coraggio che lo porta a mettere in pratica quelle che, fino a quel momento, sono state parole dette durante un’omelia ai suoi fedeli.

L’individuo per trovare rassicurazioni e protezione ha da sempre costruito un’infinità di chiese: la chiesa religiosa è solo una delle tante possibilità, ma c’è anche quella in cui risiede il potere economico, nella quale molti si rifugiano. L’immagine della chiesa vuota dà l’idea di ciò che Olmi ha voluto sottolineare, ovvero quella di un essere umano che liberato dalle sue sovrastrutture sociali lascia emergere la parte migliore di sé. Il villaggio di cartone del titolo è formato da un gruppo di individui, con nulla addosso se non i loro vestiti, che mettono su una mini baracca fatta di pannelli e tendoni, sotto i quali dormire e attendere di riprendere il cammino.

Per ciò che riguarda l’ambientazione, tutti i personaggi si muovono in un unico ambiente, che possiede una forte espressione teatrale. Lo spessore teatrale si palesa anche nel modo in cui parlano i personaggi, nei loro intervalli e nelle inquadrature. Quando per la prima volta viene aperto il portone della chiesa si nota immediatamente che aldilà non c’è nulla, se non il vuoto di un proscenio. Il cast artistico vede la presenza di un bravissimo Michael Lonsdale (il vecchio prete), affiancato da Rutger Hauer (il sagrestano) e Alessandro Haber (il graduato), che rendono merito tanto quanto gli interpreti secondari a un film che pone lo spettatore in una posizione riflessiva, senza essere pedante.

Nella sua lunga carriera, il regista si è interessato di diverse tematiche sociali, che gli stavano a cuore e di cui ha reso partecipe lo spettatore. Ha parlato del mondo del lavoro, della vita dei contadini bergamaschi (L’albero degli zoccoli, 1979 – Palma d’Oro al Festival di Cannes), del mondo religioso e di molto altro. In questo film vuole far arrivare un concetto che supera qualsiasi argomento religioso: “il bene vale più della fede” – fare del bene non riguarda solo chi crede, ma riguarda il cuore di ogni essere umano, sia esso laico o credente.

“Il villaggio di cartone” non vuole imporre una lezione, ma far riflettere sui comportamenti che ognuno ha nei confronti del prossimo, qualunque esso sia. Olmi, ancora una volta, crea un linguaggio che va dritto al punto, mostrando ciò che c’è dentro l’involucro di “cartone”.

 

Olmi: «Così leggo la carità»
di Ermanno Olmi
in “Avvenire” del 19 ottobre 2011

 

Caro direttore, ricevo “Avvenire” fin da quando, molti anni fa, con cari amici ormai lontani, vedemmo uscire dalle  rotative il primo numero del giornale.
L’affezione e l’ammirazione sono sempre stati per me saldi riferimenti quotidiani per il rigore e la libertà d’opinione dei  suoi collaboratori e quindi per il rispetto del lettore. Tanto che ho molto apprezzato gli interventi apparsi in “Agorà”  dopo l’uscita del mio ultimo film Il villaggio di cartone. E di questa attenzione nei miei riguardi, caro direttore, la  ringrazio e, se lo riterrà utile per i suoi lettori, mi farà piacere se pubblicherà queste mie note sul dibattito che ne è  seguito.
Giovanni Bazoli, prima sul “Corriere della Sera” e poi su “Avvenire”, pone l’attenzione su due contrapposti valori  invocati dal vecchio prete, protagonista dell’apologo cinematografico.
Che dice: «Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede». Subito,  un intervento di Marina Corradi su “Avvenire”, mi rimprovera: «di coltivare così tanti dubbi di fede che la storia (del  film) rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani». Ma come sarebbe «la carità dei cristiani»?  Dunque ci sarebbero più carità? E quella dei cristiani è forse tanto speciale e diversa da quella di altre fedi religiose? Mi  piacerebbe conoscere l’elenco delle diverse carità. Bazoli chiarisce: «Il film è da intendere come un richiamo forte e  drammatico all’esercizio e della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati  del nostro tempo; vale come monito a intensificare l’impegno religioso e umano». Ugualmente, Marina Corradi insiste:  «In realtà il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete “per fare del bene” ma per  portare Cristo agli uomini, che è assai di più». La fede è in sé un valore, ma non è determinante per fare del bene.
Né il fare del bene ha mai ostacolato la fede di alcuno. La fede è innanzitutto un sentimento che ciascuno coltiva nel  profondo di sé, in solitudine. E con tale stato d’animo parteciperà la sua fede con quella dell’altro, in comunione con  Dio.
Un’altra voce che ha partecipato a questi interrogativi sul primato tra fede e carità è quella di Piero Coda, teologo e  presidente dell’Istituto universitario Sophia: «Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse nel capitolo  13 della Lettera ai Corinzi. L’ agape è la via che tutte le altre sopravanza. Non avere l’agape significa essere  nulla». E prosegue: «L’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano». Come vede, caro direttore, mi  appello a autorevoli testimoni della cristianità. Ed ecco che ancora Piero Coda mi suggerisce sant’Agostino: «La carità spinse Cristo a incarnarsi». È di pochi giorni fa, in Egitto, il divampare di conflitti fra appartenenze religiose mettendo  l’una contro l’altra. E soltanto ieri, a Roma, la dissennata violenza di giovani praticata con la rabbia della distruzione. E  mi domando se è del tutto azzardato pensare che anche questi giovani allo sbando non provino un loro delirante atto  di fede in una “religiosità” criminale.
Ancora una volta la Storia ci avverte che il vincolo tra fede e “Chiese delle diversità” può avere esiti di immani  tragedie. E sappiamo anche che, nel corso dei secoli, le religioni hanno avuto necessità di cambiamenti imposti dai  radicali mutamenti delle realtà che inarrestabilmente sopravvenivano. E quindi, concili, riforme e controriforme,  sempre per adeguarsi con significati nuovi alle esigenze del cammino della Storia. Dunque: anche le religioni cambiano  e cambiano i nostri comportamenti.
Solo il bene non cambia. Ma il bene non è esclusività di istituzioni. La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella  Sua e nella nostra incarnazione.

 

 

Bazoli: Olmi
e il primato della carità
Caro direttore,
il «Corriere della sera» ha pubblicato in forma di articolo venerdì scorso una mia presentazione e interpretazione dell’ultimo film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, quella che avevo anticipato nel dibattito svoltosi il 2 ottobre al Piccolo Teatro Strehler di Milano, in occasione della presentazione in anteprima del film. Solo successivamente – per mia negligenza – sono venuto a conoscenza di due servizi che erano nel frattempo comparsi su «Avvenire».

 

 

La lettura di tali articoli e in particolare delle profonde e convincenti riflessioni di Marina Corradi mi stimola a inviarle questa lettera, perché mi offre l’opportunità di completare il discorso svolto in quell’articolo con alcune puntualizzazioni che nell’articolo sono soltanto accennate alla fine. Il racconto-apologo del film di Olmi – focalizzato sulla chiesa dismessa in cui trova rifugio e accoglienza e assistenza da parte del vecchio parroco un gruppo di immigrati – ha un significato simbolico che appare a tutti molto chiaro: l’edificio sacro ha perso la sua originaria destinazione a luogo di culto divino e di preghiera (il che evoca la crescente secolarizzazione del mondo attuale); ma ritrova una vocazione nobile e sacra di accoglienza e di servizio di carità nei confronti di poveri uomini diseredati.

È proprio il significato di questa rappresentazione che può essere interpretato in modo diverso per quanto riguarda il rapporto tra fede e carità. Tale rappresentazione vuole significare che l’esercizio della carità si pone in una linea religiosa di continuità con la fede e la pratica del culto divino ovvero che è destinato a sostituirlo? Nel primo caso, il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo: un richiamo che nei confronti della comunità dei credenti, anche come rimedio alla secolarizzazione e all’allontanamento distacco del mondo contemporaneo dalla fede e dalla pratica religiosa, vale come monito a intensificare il loro impegno religioso e umano in tale direzione.

Nel secondo caso, invece, il significato sarebbe completamente diverso e si collocherebbe – concordo con quanto dice Marina Corradi – al di fuori della visione e dell’esperienza religiosa e cristiana, che trova il suo cuore nel rapporto diretto e personale del credente con la figura divina di Cristo e che proprio da questo rapporto trae anche l’ispirazione per l’esercizio della carità. A me non pare che il film debba essere interpretato in questo senso. È vero che l’inquietudine e gli interrogativi che assillano il vecchio prete lo inducono anche a dubitare del legame tra fede e carità («Per fare il bene non occorre la fede»).

Ma è pur vero che, sin dalla sequenza iniziale del film, l’anziano e tormentato parroco si rivolge di continuo al Cristo Crocifisso. Questo è l’interlocutore cui egli confida – si può dire nelle cui braccia ripone – i dubbi che insidiano la sua fede e che sono aggravati dalla solitudine (perché il vuoto della chiesa sembra riflettersi nel suo cuore). Nel mio commento ho ritenuto corretto – oltre che appropriato alla sede di presentazione del film – non sostituirmi all’autore dando delle risposte.

Mi sono limitato a ricordare, alla fine, che la condivisione delle fatiche e delle sofferenze degli uomini «non è una funzione vicaria ma di integrazione dell’amore di Dio e della preghiera». La religiosità cristiana si nutre inscindibilmente della carità (definita proprio ieri dal Papa «l’abito nuziale» dei cristiani) e dell’amore di Dio.

Quello che qui posso aggiungere è che tutto ciò trova conferma nella realtà incontestabile che l’impegno maggiore a favore di coloro che nella società sono i più deboli e indifesi – oggi, in particolare, gli immigrati – è sostenuto nel nostro Paese principalmente da organizzazioni della Chiesa e del volontariato cattolico. E non dubito che lo stesso Olmi riconosca l’immenso valore delle opere di carità che in tutte le epoche della storia sono state ispirate dalla fede.

Giovanni Bazoli

 

La creazione non è un istante ma una trama incompiuta

Pubblichiamo il testo dell’intervento con cui Haim Baharier, studioso ebreo di esegesi biblica, apre oggi il suo dialogo con Alberto Melloni sul tema «Bereshìt / In principio» nell’ambito della giornata conclusiva del festival Torino Spiritualità.

 

Rabbi Zadoq Hakohen, maestro hassidico, sosteneva: «La verità va perseguita e l’intelligenza deve essere al servizio della verità. Quando però l’intelligenza contraddice la verità, l’intelligenza non  va né piegata né soffocata. Occorre dire non so, e studiare». Spaccati tra creazionisti e anticreazionisti, gli studiosi di fine Ottocento non raccolsero la lezione di Zadoq come battuta riconciliante. La diatriba perdura ancora oggi. Ogni serio studioso sa bene che il problema non è considerare il testo biblico verità o meno. È invece scorgere un percorso tra le boe senza mai considerarle punti fermi, acquisiti una volta per tutte. Si può annegare nelle certezze o aprirsi alla pluralità. Nel testo  della Creazione ciò che sorprende è che né Dio né l’uomo si pongono come entità sfumate; anzi, si presentano come due evidenze che si confermano a vicenda. Quasi volessero deviare il nostro interesse verso ciò che la tradizione ebraica considera l’enigma più grande nell’ambito della creazione: il mondo. Un mondo che nasce prima di tutto come tempo, non come luogo. Secondo la Torah,  cieli e terra vengono poi, una materialità successiva a quel «in principio» (Genesi , 1,1) che è innanzitutto accensione del tempo. A contropelo rispetto al primo impulso del pensiero che lega a maglie strette spazio e tempo, la Torah viene a dirci che tra il tempo prima e lo spazio dopo, si annida (o si estende, non lo sappiamo poiché lo spazio è ancora di là da venire!) la volontà creatrice.
Chi crea libera per fare posto, si stringe, si ritira. Perché è lo spazio concesso che permette all’altro di vivere in dignità. Si dona l’essere all’altro da sé. Tra tempo e luogo germina non una legge metafisica, ma un imperativo morale. Potremmo spiegare che la Genesi biblica, Bereshìt in ebraico, custodisce questo principio nella sua lettera iniziale Bet, che ha valore di due: da assumere  prima come un due temporale, poi spaziale, in quanto numero minimo per dare un confine, per avere un vicino… Concetto non facile da digerire e che è anche suggerito da una mishnà secondo la quale il mondo è stato creato con dieci dire. Perché dieci dire, quando – ci immaginiamo – sarebbe bastato un solo colpo d’ interruttore? Si parla del Creatore e Lui non dovrebbe avere di questi  problemi.
Intuiamo dalle parole parsimoniose della Bibbia quanto poco Egli sprechi. La mishnà avverte che questi dire molteplici non esprimono una vicinanza tra la parola e l’effetto di questa parola,  bensì una distanza tra la parola e ciò che succede a seguito di questa parola, una presa di distanza rispetto a quello che si materializza dal dire. In questa distanza che separa il dire dal fare, lì siamo  noi.
Perché? È una forma di protezione della creazione: questa distanza da una parte allontana gli incoscienti, coloro che vogliono distruggere la creazione, costringendoli a percorrere distanze infinite, mentre dall’altra serve ai giusti come percorso: percorso conoscitivo. Distanza che contempla due aspetti: positivo per il giusto che può avvicinarsi alla parola e ai suoi effetti, può interiorizzarli ed elaborarli; cautelativo nei confronti dell’incosciente che, tenuto alla larga, non riesce a combinare tutto il male che vorrebbe. Il nostro habitat è una distanza «di sicurezza». Dunque creare non è mai una gettata a presa rapida; esiste un pensiero che smaglia e allarga le trame in virtù del quale anche ciò che in apparenza è già fatto, già creato, ci appare incompiuto…
Penso a quel mutamento di identità che la Torah attribuisce ad Adamo quando diventa nefesh haià, persona vivente. Dopo che nelle sue narici viene insufflato il vento. Solo allora l’uomo diventa  una persona. Si può essere un uomo e anche un vivente, e non essere una persona, dice la Torah.
Bisogna essere attraversati dal vento. Qui sta secondo me la chiave dell’accoglienza: quando scopro che l’altro non è soltanto un essere vivente ma è una persona, quando conosco l’alito che lo muove,  sogni che lo fanno vivere, solo in quel momento accolgo.

 

in “Corriere della Sera” del 2 ottobre 2011

Economia e gratuità

 

Le vacanze stanno per terminare e presto ritroveremo dei ritmi di vita più consuetudinari. La società della merce manifesta chiaramente le sue convinzioni profonde. Il gioco produzione-consumo costituisce il ritmo essenziale. Non solo produzione e consumo delle cose, ma visione di sé come quantità-merce da gestire con progetti di carriera o più prosaicamente con attese in coda ai centri per l’impiego.
Al contempo, la nostra epoca conosce i momenti della speculazione selvaggia dove una sola operazione di borsa può permettere di acquisire patrimoni che un tempo necessitavano il lavoro di intere vite. Il fascino idolatrico per il regno della merce finanziarizzata ha occultato ogni altro rapporto con il tempo poiché, è il ritornello martellante, “time is money”: “La razionalità occidentale ha dispiegato un’economia secondo la quale il tempo deve essere produttivo, utile, redditizio. Per questo, dare il proprio tempo, dispensarlo o perderlo, lasciarlo passare, sono i soli modi di resistere oggi all’economia generale del tempo” (1).
Questo lavoro indispensabile di resistenza e di invenzione di nuovi paradigmi economici è stato analizzato particolarmente bene da Elena Lasida nel suo libro “Le goût de l’autre. La crise, une chance pour réinventer le lien” (Il gusto dell’altro. La crisi, un’opportunità per reinventare il rapporto). Elena Lasida insegna economia solidale all’Institut catholique di Parigi. Di origini uruguaiane, ha conosciuto l’emigrazione e le frontiere: “La frontiera, la mancanza e l’estraneità, scrive, hanno così segnato il mio sguardo sull’economia” (2). Con molta intelligenza, attinge dai testi biblici
dei concetti come la creazione, l’alleanza, la promessa che illuminano l’economia di luce nuova e le ridanno tutta la sua ricchezza esistenziale: “L’economia è un luogo di vita, un luogo in cui  si impara a vivere, un luogo in cui si costruisce la propria vita personale con altri. L’economia (…) ci obbliga in permanenza a definire le nostre finalità e ci insegna a fare delle scelte” (3).
Questa riflessione la porta a ripensare l’economia non innanzitutto come la moltiplicazione dei beni di consumo, ma come la promozione in ciascuno delle proprie capacità creatrici: “È il fatto di partecipare alla creazione dei beni, piuttosto che quello di beneficiarne, che permette di considerare una vita come veramente umana. Il senso dello sviluppo cambia così obbiettivo: il miglioramento della qualità della vita non si riduce alla capacità di accesso ai beni, ma si definisce piuttosto con l’aumento della capacità di ciascuno di essere creatore” (4).

Ora, ogni creazione è innanzitutto una questione di relazione con se stessi, con gli altri, con il mondo, con la trascendenza.

In poche linee molto dense, Elena Lasida rovescia tranquillamente i dogmi economici: “la funzione dell’economia non sarebbe quindi sopprimere la mancanza, ma metterla in movimento. La sua finalità non sarebbe rendere le persone autosufficienti, ma interdipendenti. Il valore che crea non sarebbe solo misurato dall’uso o dallo scambio dei beni ma soprattutto dal rapporto che questa circolazione produce” (5).Nel 2003, Bernard Maris pubblicava un Antimanuale di economia che dedicava così: “All’economista sconosciuto morto per la guerra economica, che per tutta la sua vita ha spiegato magnificamente, il giorno dopo, il motivo per cui si era sbagliato il giorno prima, a tutti coloro, ben vivi, che gustano la parola gratuità” (6). È una bellissima cosa che degli economisti  ci ricordino che la gratuità non è ristretta in una parentesi vacanziera, ma che essa sola dà senso all’arte di vivere da esseri umani.

 

1 – Sylviane Agacinski : Le passeur de temps. Modernité et nostalgie. Éditions du Seuil, 2000, pag. 12
2 – Elena Lasida : Le goût de l’autre. La crise, une chance pour réinventer le lien. Éditions Albin Michel, 2011, pag. 27
3 – Idem, pag. 31-32
4 – Idem, pag. 59
5 – Idem, pag. 169
6 – Bernard MarisS : Antimanuel d’économie. Éditions Bréal, 2003


in “www.garrigues-et-sentiers.org” del 28 agosto 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Una campagna anticattolica?

 

Riprende la campagna mai sopita su Chiesa cattolica e tasse.

 

 

Riportiamo di seguito alcuni contributi per comprendere i dati della polemica e la rispota scaricabile  pubblicata nel volume “La vera questua”

 


Campagna anticattolica
Da 4 anni le stesse bugie


Freezer e microonde sono il toccasana in tante cucine. E pure in certe redazioni. Proprio ieri un “settimanale di politica cultura economia” lanciava una roboante inchiesta dal titolo «La santa evasione», così riassunta: «I vescovi lanciano l’anatema contro chi non paga le tasse, ma i patrimoni della Chiesa vivono di agevolazioni ed esenzioni. Ecco la mappa di un tesoro che conta un quinto degli immobili italiani. E per legge sfugge alla manovra».

Nulla di nuovo. La fonte principale, se non unica, è una vecchia inchiesta di Curzio Maltese apparsa sulla “Repubblica” dal 28 settembre al 17 dicembre 2007, poi raccolta nel volume “La Questua”. A ogni puntata dell’inchiesta seguiva una pagina di Avvenire che confutava, dati alla mano, errori, verità dimezzate e omissioni, lavoro poi confluito nel libro “La vera questua” (scaricabile qui). “Repubblica” non rispose mai né mai corresse i suoi sbagli; ma Maltese ripulì il libro dagli errori più madornali, pur senza mai citare “Avvenire”, esempio perfetto di mobbing mediatico: ci sei ma non esisti.

Nient’altro di nuovo, se non un misterioso «altro libro» di Piergiorgio Odifreddi, che accuserebbe la Chiesa di un’evasione doppia, rispetto a quella denunciata da Maltese.

A sconcertare è l’assenza totale di fonti che i lettori possano controllare. Si citano vaghe «stime» e «calcoli», magari dei «Comuni». Tutto così generico da risultare inattendibile. Si dice, si ripete, si ridice che «la Chiesa non paga l’Ici», ma da quattro anni non facciamo che ripetere la verità: la Chiesa paga l’Ici per tutti gli immobili di sua proprietà che danno reddito, a cominciare dagli appartamenti (vedi la lettera del parroco romano) e dai cinema con caratteristiche commerciali. E se qualcuno non paga ma dovrebbe pagare, sbaglia e va fatto pagare. Ma chi?

L’inchiesta, se così la si può definire, non lo dice. Sbrina e riscalda. E insinua. Afferma che a Roma gli immobili del Vaticano sono grandi evasori. Ma non si prende la briga di chiedere all’Agenzia delle Entrate della capitale l’elenco degli enti non commerciali contribuenti. Comprensibile: se fosse una vera inchiesta, dovrebbe spiegare che Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica) e Propaganda Fide sono al secondo e al terzo posto tra i contribuenti, dietro un importante istituto di previdenza. Quindi paga, eccome se paga. Ma poiché il teorema esige che evada, le cifre dell’Agenzia vanno oscurate, altrimenti farebbero saltare il teorema.

Son fatte così queste “inchieste”. Perfino la Caritas romana viene messa nel mirino come «proprietaria» di ben 70 immobili. La Caritas non «possiede» nulla ma gestisce, in effetti, mense e comunità di recupero per ex tossicodipendenti, case per malati terminali di Aids o per giovani madri in difficoltà… che per il gruppo guidato da Carlo De Benedetti, così in sintonia con le parole d’ordine e le campagne di Radicali italiani e Massoneria italiana, devono fruttare ampi redditi, e quindi vanno ben spremuti.

Nulla di nuovo, dunque. Anche se con ineffabile faccia tosta qualcuno afferma che la Chiesa manterrebbe un imbarazzato silenzio e non avrebbe mai smentito nulla, tutto è già stato ampiamente confutato dal 2007 in poi; ma la campagna militare esige l’applicazione del mobbing mediatico: so perfettamente che ci sei, mi rispondi e cerchi il dialogo, ma ti ignoro e faccio come se tu non esistessi. Via allora con le cifre sparate a casaccio senza citare fonti controllabili. Così gli immobili di proprietà della Chiesa cattolica, in Italia, ieri erano il 30 per cento, oggi calano al 22 e domani chissà… palesi enormità, avvalorate da numeri che si riferiscono a Roma, dove però tutte le congregazioni religiose del mondo hanno una “casa madre” o una rappresentanza, e molte Conferenze episcopali nazionali hanno i loro collegi dove ospitano i propri studenti che frequentano le Pontificie università. Che un collegio di seminaristi o giovani preti, che studiano e pregano, collegio che non produce reddito alcuno ma ha soltanto dei costi, debba pagare l’Ici è una palese sciocchezza. Nessun istituto d’istruzione la paga.

Ma la campagna contro la Chiesa non teme le sciocchezze. Leggiamo infatti l’elogio dell’emendamento dei Radicali «che farebbe cadere l’esenzione dall’Ici (…) per tutti gli immobili della Chiesa non utilizzati per finalità di culto», con questo elenco: «Quelli in cui si svolgono attività turistiche, assistenziali, didattiche, sportive e sanitarie, spesso in concorrenza con privati che al fisco non possono opporre scudi di sorta». La scure decapiterebbe anche innumerevoli ong, enti di promozione sportiva laicissimi, scuole non cattoliche, realtà culturali, politiche e sindacali. Un massacro. E costerebbe una cifra inaudita (la sola scuola paritaria, pubblica esattamente come la statale, fa “risparmiare” 6 miliardi all’anno) a uno Stato costretto a intervenire là dove la Chiesa, e altri, sarebbe costretti a mollare. Ma che importa? La furia demagogica ha bisogno di un facile bersaglio da additare all’odio popolare. E intanto gli evasori, quelli veri, gongolano.

Umberto Folena

 

Qualcosa che impressiona di Marco Tarquinio


– Il Grande Oriente suona la carica | La lettera: «Io, parroco, pago tutto»


– L’OSPITE  Chiesa e non profit: la ricchezza dei poveri di Angelino Alfano

 

 

L’Ici no, ma la Chiesa qualcosa deve fare
di Alberto Melloni

Farebbero malissimo i vescovi a sottovalutare la richiesta che arriva da più parti e che riguarda i «sacrifici» che anche la Chiesa dovrebbe fare nell’indomabile montare della crisi.
È ovvio che in molti casi queste istanze nascondono la stessa faciloneria che ha convinto milioni di italiani che il problema dei debiti sovrani dipenda in Italia dai privilegi dei politici che  esistono e sono odiosi ma non sono certo il cuore della cosa. E dunque potrebbe essere fortissima la tentazione di respingere al mittente tali istanze con argomenti tecnicamente e giuridicamente solidi.
Sui patroni basterebbe ammiccare ai sindaci e agli uffici scolastici per far sì che il calendario delle lezioni reintroduca dalla finestra festività che così verranno sottratte solo ai ceti operai e impiegatizi che non possono permettersi i ponti. Sulle festività che il concordato blinda ci si potrebbe limitare a richiamare la indisponibilità del tema (è la Repubblica che ha deciso insieme alla Santa Sede di mettere sotto l’ombrello di un trattato internazionale le feste dei dogmi di Pio IX e di Pio XII anziché il triduo pasquale: per cui, se ne ha voglia, porti la politica al Papa una legge con allegato il trattato sul triduo di Hans Urs von Balthasar). Sull’8 per mille, materia decisa dal concordato Casaroli-Craxi, i vescovi potrebbero ricordare agli smemorati radicali che gli accordi di Villa Madama prevedevano un riesame in commissione paritetica (nell’infondato timore che la quota stabilita non colmasse la «congrua») e che non è stato un ukaze Cei a impedirlo. Così pure sulle esenzioni Ici i vescovi potrebbero legittimamente rimandare ad una più attenta lettura all’elenco delle Onlus fra le quali (con esiti insostenibili dal punto di vista costituzionale) si chiede di discriminare quelle che hanno «fini di religione», declinati nella libertà della loro espressione.
Così facendo, però, verrebbero meno a quel dovere evocato dal presidente Napolitano nella sua orazione civica di Rimini, e che è una chiamata in attesa di reclute: porsi cioè al livello delle sfide che il Paese non può non affrontare. E qui i vescovi potrebbero cogliere in istanze vulnerabili o populiste una occasione. Il sistema dell’8 per mille, infatti, era stato inventato da grandi  ecclesiastici (Casaroli, Silvestrini, Nicora) per dare alla Chiesa italiana, e non alla Santa Sede, una sua autonomia, specialmente rispetto alla politica: e quel sistema aveva una implicazione di parificazione fra Chiese e religioni che non è stato implementato dallo Stato che ne aveva il dovere.
Se il miliardo e passa di entrate non basta a proteggere la Chiesa da una politica delle blandizie la questione, allora, è ancora più grande.
Il denaro dato alla Cei, infatti, è stato speso (quasi sempre) bene: ha rimesso in sesto un patrimonio che il Fondo edifici di culto del ministero degli Interni non poteva mantenere; ha finanziato tanta solidarietà. Non mancano le ombre: ha certo foraggiato sacche di interessi e comprato consensi in vendita, ha dato fiducia a mezze tacche della finanza o della cultura, ha coperto operazioni meschine (d’altronde, come spiegava un grande cardinale italiano, in fatto di denaro «i preti delinquenti si fidano sempre di delinquenti, perché sono anche loro delinquenti; i preti buoni si fidano dei delinquenti perché sono buoni»). Ma non è lo Stato che può dar lezioni di rigore, se non segna un punto e a capo per tutti.
Quel denaro però ha eroso qualcosa di assai più profondo per la Chiesa italiana: e cioè la sua fede nella povertà come via necessaria della Chiesa, secondo il limpido dettato della costituzione conciliare Lumen Gentium 8. Perché — come ha insegnato l’emersione dei crimini di pedofilia — ogni consiglio evangelico può essere vissuto in modo estrinseco o profondo: e come la superficialità esalta le turpitudini, la sincerità anche debole accresce la virtù. Così la scarsa fiducia, per dir così, nella povertà ha sottratto alla Chiesa una credibilità di cui oggi avrebbe bisogno, per essere  nella svolta che stiamo vivendo fattore di unità profonda del Paese.
Con quella credibilità potrebbe affrontare tutte le questioni sul tappeto difendendo il diritto delle feste religiose di tutti, cercando un punto di ripartenza del senso civico di tutti, insegnando  quel «linguaggio di verità», che il presidente ha evocato sul presente, sui vent’anni ultimi e che forse andrebbe spinto almeno indietro per poter produrre un rinnovamento vero della coscienza civica di tutti.
Qualcosa di limpido e impolitico come un tale atto di fede — con tutte le conseguenze di rigore e di trasparenza che esso comporta — darebbe ai vescovi o comunque accrescerebbe quella autorevolezza di cui hanno bisogno loro, spettatori di rimpianti e di lotte di carriera ecclesiastica spudorate: e di cui ha ancor più bisogno il Paese. Nei giorni più difficili della sua storia  post-fascista — l’8 settembre del 1943, il 9 maggio del 1978 — l’Italia ha trovato nella Chiesa un sostegno infungibile e in quei gesti di coraggio la Chiesa ha guadagnato una credibilità capitalizzata  per decenni. Nessuno può escludere che giorni, per fortuna diversi nella forma, ma non meno impegnativi nella sostanza, siano oggi innanzi al Paese.

in “Corriere della Sera” del 28 agosto 2011

 

 

 

Rassegna Stampa

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30 agosto 2011

 

“«So bene – ha detto Bagnasco… – che il compito è arduo perché si tratta di intaccare consuetudini e interessi vetusti»… ha parlato di «reazione di disgusto» della gente semplice nei confronti, in politica, di «stili non esemplari che sono la norma»… Il vero uomo, ha detto il cardinale, non è quello che ha potere e denaro: «I giovani non vogliono essere ingannati»…”
“Per combattere la corruzione, tornata a galla nelle cronache di questi giorni, bisogna far capire con l’esempio che cos’è il valore della verità… essa va richiesta in modo particolare a coloro che costituiscono, per ruolo o visibilità, modelli di comportamento, [ma] è necessario interrogare in primo luogo se stessi… se abbiamo… la determinazione… di cercare al di là dell’apparenza, di fare fatica. Se si ha voglia, in sintesi, di essere consapevoli o servi”
“Gennaro Acquaviva, che è stato il plenipotenziario di Bettino Craxi per la revisione del Concordato del 1984… non chiede certo alla Chiesa di pensare a «una rinuncia, ma a una riduzione», questo sì, «per coerenza con lo scopo dell’8 per mille»… «Il metodo dei radicali non va bene perché non si può strattonare in questo modo un soggetto come la Chiesa cattolica che letteralmente tiene in piedi e unito il nostro Paese»… Sta alla Cei pensare il da farsi…”

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29 agosto 2011

 

“in un momento di straordinaria gravità, non è lecito attendersi dalla Chiesa un qualcosa di più, un gesto unilaterale e di valore sostanziale e simbolico?”.

28 agosto 2011

 

  • Economia e gratuità di Bernard Ginisty in www.garrigues-et-sentiers.org del 28 agosto 2011 (nostra traduzione)
“È una bellissima cosa che degli economisti ci ricordino che la gratuità non è ristretta in una parentesi vacanziera, ma che essa sola dà senso all’arte di vivere da esseri umani”
“Per la strategia liberista, che ha un’ossessiva paura della memoria, la gente deve dimenticare il suo passato sociale… senz’altro ideale che la religione del danaro. Sono da seppellire le aspirazioni condivise di una vita felice per tutti senza confini, il senso di compiutezza umana provato nel lottare insieme per la giustizia… la constatazione che la fatica e il sangue versato sono seme e nutrimento, la speranza contro ogni speranza, l’esperienza che il pane condiviso è pane moltiplicato e fonte di vita per tutti”
“In Cei lo ripetono da giorni: «E’ sbagliato confondere una tassa come l’Ici con l’otto per mille che è un’intesa tra lo Stato e le confessioni religiose». E una cosa è il Vaticano e un’altra le diocesi con le loro spese per culto e carità. Adesso la protesta esce dai Sacri Palazzi e diventa pubblica. Il quotidiano della Conferenza episcopale punta l’indice contro «Radicali, massoni e il potente partito dell’evasione»”
“Quel denaro però ha eroso qualcosa di assai più profondo per la Chiesa italiana: e cioè la sua fede nella povertà come via necessaria della Chiesa, secondo il limpido dettato della costituzione conciliare Lumen Gentium 8. (…) Così la scarsa fiducia, per dir così, nella povertà ha sottratto alla Chiesa una credibilità di cui oggi avrebbe bisogno, per essere nella svolta che stiamo vivendo fattore di unità profonda del Paese.”
“Per restare con i piedi per terra conviene ricordare pacatamente all’Avvenire che sul Fatto Quotidiano è stata posta sin dall’inizio una domanda fondamentale, che circola nelle teste di tanti cittadini credenti e diversamente credenti. La Chiesa è disponibile o no – di fronte al rischio di crack dell’Italia – a rinunciare volontariamente a una parte delle sovvenzioni statali derivanti dall’8 per mille, visto che tagli pesanti sono imposti a settori vitali come sanità, istruzione, enti locali? È una domanda non acrimoniosa, che nulla disconosce dell’impegno della Chiesa per i più deboli. “
“Oggi, la Chiesa ufficiale, quella del Vaticano e della Cei, è un potente sostegno al potere politico, qui da noi. E davanti a una mobilitazione della pubblica opinione, arcistufa dei privilegi fiscali che quel potere ha concesso al sistema ecclesiastico (una “leggenda nera”, secondo il quotidiano dei vescovi), il tirare in ballo il potere occulto della Massoneria suona a dir poco grottesco. Davvero, come ha scritto Avvenire, si tratta di “Qualcosa che impressiona””
“Impressionante la realtà dell’evasione fiscale. Impressionante la disattenzione verso quell’immenso e bistrattato valore e quella portentosa (ma non inesauribile) risorsa che è la famiglia, e la famiglia con figli. Impressionante la campagna politico-mediatica che è stata scatenata contro la Chiesa per il solo fatto di aver detto tutto questo”

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27 agosto 2011

 

“è anche vero che spesso non c’è trasparenza nella gestione di tutte le risorse materiali della Chiesa cattolica. Un dibattito aperto e partecipato sulle scelte che è possibile operare e sui criteri da seguire alla luce del Vangelo sarebbe un passo importante.”
“Senza grandi gesti, in realtà, basterebbe che l’8×1000 fosse calcolato esattamente per il gettito che dà”
premesso tutto quanto già sta facendo per fronteggiare la crisi e le ragioni dell’attuale regime fiscale, è immaginabile qualche gesto simbolico e liberamente scelto da parte della Chiesa italiana per contribuire al risanamento del debito pubblico?
“Freneticamente alla ricerca di unità d’azione nel luglio scorso, l’associazionismo cattolico si è ammutolito dopo il decreto anticrisi. Eppure ci sarebbe molto da dire da parte cattolica sullo svuotamento dell’art.18 dello statuto dei lavoratori, sull’evasione fiscale, sui costi della politica. Stupisce particolarmente il silenzio sullo scardinamento – attraverso l’articolo 8 del decreto – del principio della “giusta causa” nei licenziamenti…”
“E’ in giuoco quell’impresa di riappropriazione “pubblica” dei “beni comuni” (al plurale) che pure è stata da più parti segnalata come l’indice di un vento nuovo fatto di insperata coscienza politica e di desiderio di partecipazione” “non va mollata la presa sul tema dei “beni comuni” come tessere di quel più vasto mosaico che è il massimo bene umano possibile, da realizzare non con la delega in bianco a qualcuno ma con il concorso consapevole e il controllo assiduo di tutti.”

26 agosto 2011

 

“”Possiamo rassicurare tutti, compreso Pierluigi Bersani: le mense della Caritas non si toccano e rimarranno esenti dalle fiscalità come del resto tutte le associazioni di assistenza e beneficenza”.” “L’intento del partito di Marco Pannella è quello di far abolire gli sgravi per le attività commerciali svolte da enti ecclesiastici, come per l’appunto quelle ricettivo-turistiche, assistenziali, ricreative, sportive e sanitarie, “equiparandoli a chi fa le stesse cose senza insegna religiosa””
“A questi ricchi italiani non si chiede la metà in solidarietà, ma solo un piccolo contribuito. E se hanno frodato il Fisco non si chiede loro il quadruplo, ma solo il giusto. Quella di Zaccheo è stata una conversione miracolosa. A questi ricchi si chiede solo una conversione all’equità e alla solidarietà semplicemente umane e all’osservanza delle leggi” “… Se n’è accorta finalmente anche la Conferenza episcopale italiana…”
“Anziché tassare i patrimoni dei ricchi, coloro ai quali anche un forte prelievo fiscale non cambierebbe la vita, s’è preferito colpire quell’ammortizzatore sociale italiano per eccellenza che è la famiglia. Unico vero patrimonio del Paese”