l’ultimo film di Ermanno Olmi
La Trama
Il film narrerà dell’incontro tra due culture e varie etnie, quella africana e quella europea, quando un gruppo di clandestini prende possesso di una vecchia chiesa per safamarsi. La storia viene osservata attraverso gli occhi di un vecchio prete.
Piccola curiosità: l’anziano sacerdote è interpretato da Joe R. Landsale, sceneggiatore ma soprattutto apprezzato scrittore.
- Regia: Ermanno Olmi
- Con: Michael Lonsdale, Rutger Hauer, Massimo De Francovich, Alessandro Haber, Ibrahima Faye El Hadji, Irma Pino Viney, Fatima Alì, Samuels Leon Delroy, Fernando Chronda
- Distributori: 01 Distribution
- Genere: Documentario
- Durata: 87′
- Data di uscita: 07-10-2011
Il villaggio di cartone
Titolo originale: Il villaggio di cartone
Italia: 2011. Regia di: Ermanno Olmi Genere: Drammatico Durata: 87′
Interpreti: Michael Lonsdale, Rutger Hauer, Alessandro Haber, Massimo De Francovich, El Hadji Ibrahima Faye, Irma Pino Viney, Fatima Alì, Samuels Leon Delroy, Fernando Chironda, Souleymane Sow, Linda Keny, Blaise Aurelien Ngoungou Essoua, Heven Tewelde, Rashidi Osaro Wamah, Prosper Elijah Keny
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 07/10/2011
Recensione di: Francesca Caruso
L’aggettivo ideale: Simbolico
Il pluripremiato regista e sceneggiatore Ermanno Olmi torna dietro la macchina da presa realizzando un film che fotografa “ una realtà simbolo” – come ha spiegato lui stesso.
Vi si racconta il viaggio emotivo di un vecchio prete, che vede la sua chiesa smantellata pezzo dopo pezzo. Assiste impotente all’azione degli operai che staccano dalle pareti i quadri e il grande Crocifisso. Durante la notte, però, la chiesa si anima di nuova vita: vi trovano rifugio un gruppo di emigranti di passaggio, i quali chiedono al vecchio un po’ di carità cristiana.
Il maestro Olmi ha scritto il film come fosse un apologo secondo una visione teatrale.
“Nell’apologo la sublimazione è fatta dell’immagine simbolo e dalla parola simbolo, i personaggi parlano come un libro stampato” – spiega il regista – “ ed è stato volutamente realizzato così”. Il cineasta si è particolarmente soffermato sull’idea di carità, di fratellanza e di amore verso il prossimo. Si dice ama il prossimo tuo come te stesso, ebbene il vecchio prete trova dentro sé quel coraggio che lo porta a mettere in pratica quelle che, fino a quel momento, sono state parole dette durante un’omelia ai suoi fedeli.
L’individuo per trovare rassicurazioni e protezione ha da sempre costruito un’infinità di chiese: la chiesa religiosa è solo una delle tante possibilità, ma c’è anche quella in cui risiede il potere economico, nella quale molti si rifugiano. L’immagine della chiesa vuota dà l’idea di ciò che Olmi ha voluto sottolineare, ovvero quella di un essere umano che liberato dalle sue sovrastrutture sociali lascia emergere la parte migliore di sé. Il villaggio di cartone del titolo è formato da un gruppo di individui, con nulla addosso se non i loro vestiti, che mettono su una mini baracca fatta di pannelli e tendoni, sotto i quali dormire e attendere di riprendere il cammino.
Per ciò che riguarda l’ambientazione, tutti i personaggi si muovono in un unico ambiente, che possiede una forte espressione teatrale. Lo spessore teatrale si palesa anche nel modo in cui parlano i personaggi, nei loro intervalli e nelle inquadrature. Quando per la prima volta viene aperto il portone della chiesa si nota immediatamente che aldilà non c’è nulla, se non il vuoto di un proscenio. Il cast artistico vede la presenza di un bravissimo Michael Lonsdale (il vecchio prete), affiancato da Rutger Hauer (il sagrestano) e Alessandro Haber (il graduato), che rendono merito tanto quanto gli interpreti secondari a un film che pone lo spettatore in una posizione riflessiva, senza essere pedante.
Nella sua lunga carriera, il regista si è interessato di diverse tematiche sociali, che gli stavano a cuore e di cui ha reso partecipe lo spettatore. Ha parlato del mondo del lavoro, della vita dei contadini bergamaschi (L’albero degli zoccoli, 1979 – Palma d’Oro al Festival di Cannes), del mondo religioso e di molto altro. In questo film vuole far arrivare un concetto che supera qualsiasi argomento religioso: “il bene vale più della fede” – fare del bene non riguarda solo chi crede, ma riguarda il cuore di ogni essere umano, sia esso laico o credente.
“Il villaggio di cartone” non vuole imporre una lezione, ma far riflettere sui comportamenti che ognuno ha nei confronti del prossimo, qualunque esso sia. Olmi, ancora una volta, crea un linguaggio che va dritto al punto, mostrando ciò che c’è dentro l’involucro di “cartone”.
Olmi: «Così leggo la carità»
di Ermanno Olmi
in “Avvenire” del 19 ottobre 2011
Caro direttore, ricevo “Avvenire” fin da quando, molti anni fa, con cari amici ormai lontani, vedemmo uscire dalle rotative il primo numero del giornale.
L’affezione e l’ammirazione sono sempre stati per me saldi riferimenti quotidiani per il rigore e la libertà d’opinione dei suoi collaboratori e quindi per il rispetto del lettore. Tanto che ho molto apprezzato gli interventi apparsi in “Agorà” dopo l’uscita del mio ultimo film Il villaggio di cartone. E di questa attenzione nei miei riguardi, caro direttore, la ringrazio e, se lo riterrà utile per i suoi lettori, mi farà piacere se pubblicherà queste mie note sul dibattito che ne è seguito.
Giovanni Bazoli, prima sul “Corriere della Sera” e poi su “Avvenire”, pone l’attenzione su due contrapposti valori invocati dal vecchio prete, protagonista dell’apologo cinematografico.
Che dice: «Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede». Subito, un intervento di Marina Corradi su “Avvenire”, mi rimprovera: «di coltivare così tanti dubbi di fede che la storia (del film) rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani». Ma come sarebbe «la carità dei cristiani»? Dunque ci sarebbero più carità? E quella dei cristiani è forse tanto speciale e diversa da quella di altre fedi religiose? Mi piacerebbe conoscere l’elenco delle diverse carità. Bazoli chiarisce: «Il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio e della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo; vale come monito a intensificare l’impegno religioso e umano». Ugualmente, Marina Corradi insiste: «In realtà il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete “per fare del bene” ma per portare Cristo agli uomini, che è assai di più». La fede è in sé un valore, ma non è determinante per fare del bene.
Né il fare del bene ha mai ostacolato la fede di alcuno. La fede è innanzitutto un sentimento che ciascuno coltiva nel profondo di sé, in solitudine. E con tale stato d’animo parteciperà la sua fede con quella dell’altro, in comunione con Dio.
Un’altra voce che ha partecipato a questi interrogativi sul primato tra fede e carità è quella di Piero Coda, teologo e presidente dell’Istituto universitario Sophia: «Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse nel capitolo 13 della Lettera ai Corinzi. L’ agape è la via che tutte le altre sopravanza. Non avere l’agape significa essere nulla». E prosegue: «L’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano». Come vede, caro direttore, mi appello a autorevoli testimoni della cristianità. Ed ecco che ancora Piero Coda mi suggerisce sant’Agostino: «La carità spinse Cristo a incarnarsi». È di pochi giorni fa, in Egitto, il divampare di conflitti fra appartenenze religiose mettendo l’una contro l’altra. E soltanto ieri, a Roma, la dissennata violenza di giovani praticata con la rabbia della distruzione. E mi domando se è del tutto azzardato pensare che anche questi giovani allo sbando non provino un loro delirante atto di fede in una “religiosità” criminale.
Ancora una volta la Storia ci avverte che il vincolo tra fede e “Chiese delle diversità” può avere esiti di immani tragedie. E sappiamo anche che, nel corso dei secoli, le religioni hanno avuto necessità di cambiamenti imposti dai radicali mutamenti delle realtà che inarrestabilmente sopravvenivano. E quindi, concili, riforme e controriforme, sempre per adeguarsi con significati nuovi alle esigenze del cammino della Storia. Dunque: anche le religioni cambiano e cambiano i nostri comportamenti.
Solo il bene non cambia. Ma il bene non è esclusività di istituzioni. La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella Sua e nella nostra incarnazione.
e il primato della carità
il «Corriere della sera» ha pubblicato in forma di articolo venerdì scorso una mia presentazione e interpretazione dell’ultimo film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, quella che avevo anticipato nel dibattito svoltosi il 2 ottobre al Piccolo Teatro Strehler di Milano, in occasione della presentazione in anteprima del film. Solo successivamente – per mia negligenza – sono venuto a conoscenza di due servizi che erano nel frattempo comparsi su «Avvenire».
La lettura di tali articoli e in particolare delle profonde e convincenti riflessioni di Marina Corradi mi stimola a inviarle questa lettera, perché mi offre l’opportunità di completare il discorso svolto in quell’articolo con alcune puntualizzazioni che nell’articolo sono soltanto accennate alla fine. Il racconto-apologo del film di Olmi – focalizzato sulla chiesa dismessa in cui trova rifugio e accoglienza e assistenza da parte del vecchio parroco un gruppo di immigrati – ha un significato simbolico che appare a tutti molto chiaro: l’edificio sacro ha perso la sua originaria destinazione a luogo di culto divino e di preghiera (il che evoca la crescente secolarizzazione del mondo attuale); ma ritrova una vocazione nobile e sacra di accoglienza e di servizio di carità nei confronti di poveri uomini diseredati.
È proprio il significato di questa rappresentazione che può essere interpretato in modo diverso per quanto riguarda il rapporto tra fede e carità. Tale rappresentazione vuole significare che l’esercizio della carità si pone in una linea religiosa di continuità con la fede e la pratica del culto divino ovvero che è destinato a sostituirlo? Nel primo caso, il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo: un richiamo che nei confronti della comunità dei credenti, anche come rimedio alla secolarizzazione e all’allontanamento distacco del mondo contemporaneo dalla fede e dalla pratica religiosa, vale come monito a intensificare il loro impegno religioso e umano in tale direzione.
Nel secondo caso, invece, il significato sarebbe completamente diverso e si collocherebbe – concordo con quanto dice Marina Corradi – al di fuori della visione e dell’esperienza religiosa e cristiana, che trova il suo cuore nel rapporto diretto e personale del credente con la figura divina di Cristo e che proprio da questo rapporto trae anche l’ispirazione per l’esercizio della carità. A me non pare che il film debba essere interpretato in questo senso. È vero che l’inquietudine e gli interrogativi che assillano il vecchio prete lo inducono anche a dubitare del legame tra fede e carità («Per fare il bene non occorre la fede»).
Ma è pur vero che, sin dalla sequenza iniziale del film, l’anziano e tormentato parroco si rivolge di continuo al Cristo Crocifisso. Questo è l’interlocutore cui egli confida – si può dire nelle cui braccia ripone – i dubbi che insidiano la sua fede e che sono aggravati dalla solitudine (perché il vuoto della chiesa sembra riflettersi nel suo cuore). Nel mio commento ho ritenuto corretto – oltre che appropriato alla sede di presentazione del film – non sostituirmi all’autore dando delle risposte.
Mi sono limitato a ricordare, alla fine, che la condivisione delle fatiche e delle sofferenze degli uomini «non è una funzione vicaria ma di integrazione dell’amore di Dio e della preghiera». La religiosità cristiana si nutre inscindibilmente della carità (definita proprio ieri dal Papa «l’abito nuziale» dei cristiani) e dell’amore di Dio.
Quello che qui posso aggiungere è che tutto ciò trova conferma nella realtà incontestabile che l’impegno maggiore a favore di coloro che nella società sono i più deboli e indifesi – oggi, in particolare, gli immigrati – è sostenuto nel nostro Paese principalmente da organizzazioni della Chiesa e del volontariato cattolico. E non dubito che lo stesso Olmi riconosca l’immenso valore delle opere di carità che in tutte le epoche della storia sono state ispirate dalla fede.