Uomini di Dio

Trama del film Uomini di Dio: Un monastero in mezzo alle montagne aglerine negli anni 1990…
Otto monaci cristiani francesi vivono in perfetta armonia con i loro fratelli musulmani.
Progressivamente la situazione cambia.
La violenza e il terrore integralista si propapagano nella regione.
Nonostante l’incombente minaccia che li circonda, i monaci decidono di restare al loro posto, costi quel che costi.
USCITA CINEMA: 22/10/2010 REGIA: Xavier Beauvois SCENEGGIATURA: Etienne Comar, Xavier Beauvois ATTORI: Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Sabrina Ouazani, Philippe Laudenbach, Jacques Herlin, Xavier Maly, Jean-Marie Frin, Abdelhafid Metalsi, Olivier Perrier, Adel Bencherif Ruoli ed Interpreti FOTOGRAFIA: Caroline Champetier DISTRIBUZIONE: Lucky Red PAESE: Francia 2010 GENERE: Drammatico DURATA: 120 Min FORMATO: Colore Note: In concorso al Festival di Cannes 2010 Uomini di Dio  L’Ultima Cena dei monaci di Tibhirine prima del martirio In settembre, nei cinema parigini, sette monaci trappisti circencensi, votati al silenzio e alla preghiera, hanno sbaragliato i sontuosi incubi di Di Caprio (Inception), e i misteri seduttivi della Jolie (Salt).
Nelle prime tre settimane Uomini di Dio di Xavier Beauvois, ha più che triplicato il pubblico dei due filmoni americani, sfiorando i due milioni di spettatori.
È vero che per i francesi la storia, vera, è tuttora una ferita oscura e tragica, ma ad assegnare al film a Cannes il Gran Premio è stata una giuria internazionale presieduta dal pur bizzarro Tim Burton: e del resto al festival i monaci in saio bianco avevano già trafitto il cuore di signore ingioiellate e critici burberi, di credenti, di agnostici e persino di atei.
Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, un drappello del Gruppo Islamico Armato rapisce sette (su nove, due erano riusciti a nascondersi) monaci del monastero di Tibhirine, sui monti dell’Atlante, e due mesi dopo ne annuncia l’assassinio.
Il 30 maggio vengono ritrovate le loro teste, mai più i corpi.
Il film racconta gli ultimi mesi di vita di questa comunità religiosa, e proprio perché il regista si definisce miscredente, riesce a comunicare, anche, o soprattutto a chi non crede, il mistero insondabile della fede.
L’Algeria è in piena guerra civile, eppure i monaci vivono in tranquillità e autosufficienza la giornata di preghiera, di canti, di lettura, di lavori agricoli e domestici: il loro ordine non prevede il proselitismo, quindi c’è armonia, rispetto e fratellanza con gli abitanti del piccolo villaggio musulmano.
Il vecchio padre Luc (Michael Lonsdale) è medico e riceve gratis anche 150 pazienti al giorno, il priore padre Christian (Lambert Wilson) che conosce a memoria il Corano e legge I fioretti di San Francesco, porta il miele del convento al mercato, tutti insieme assistono alla festa per la circoncisione di un piccino e ascoltano le parole dell’Imam, che paiono tanto simili a quelle del Vangelo.
Il paesaggio che circonda il monastero è paradisiaco, immenso, intatto, e induce a provare quel sentimento inquieto d’incanto che oscuramente avvicina a un mistero, forse proprio quello della fede.
Dopo il massacro di un gruppo di lavoratori croati da parte dei terroristi, ai monaci viene imposto o di accettare la protezione dell’esercito, o di tornare in Francia.
«È stato il colonialismo francese la radice di questa guerra civile», dice un militare al priore, che rifiuta «la protezione di un governo corrotto» (un governo militare imposto da un colpo di stato per non riconoscere la vittoria elettorale del Fronte Islamico), mentre il dubbio sull’opportunità di restare comincia a inquinare la serenità e la compattezza della comunità.
Forse un quasi certo suicidio collettivo è insensato, la fede non pretende il martirio: eppure alla fine, i monaci decidono che vale la pena di restare, sapendo che non ci sarà futuro per loro.
Ci sono scene indimenticabili: il terrorista ferito viene medicato nel convento, e pare il Cristo del Mantegna, però con la faccia di Che Guevara; nella notte di addio alla vita, i monaci si riuniscono attorno alla tavola come nell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, contro la regola si stappano due bottiglie di vino, e il disco scelto è quello fragoroso del Lago dei cigni di Ciaikovskij.
I visi s’illuminano nel sorriso, si spengono davanti all’angoscia che li attende.
In primo piano, ad uno ad uno, solo quei volti, quelle teste, che due mesi dopo si troveranno mozzate ai bordi di una strada.
È un’efferatezza che Beauvois ci risparmia: rapiti e spinti su un sentiero di montagna i monaci a poco a poco svaniscono nel chiarore notturno e funebre della neve.
Nel suo testamento spirituale (pubblicato in Più forti dell’odio, editore la Comunità di Bose) padre Christian scrive (e dice dallo schermo): «L’Algeria e l’Islam per me sono un corpo e un’anima… Anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi, dico grazie… e che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due».
Quasi quindici anni dopo quella strage non si sa ancora chi furono i veri responsabili.
Solo l’anno scorso è stato tolto il segreto di Stato, e l’inchiesta giudiziaria è in corso.
La tesi ufficiale del governo algerino è che colpevole fu la GIA di Djamel Zitouni; altri che lo stesso Zitouni fu manipolato dai servizi algerini per screditare i ribelli, mentre un generale francese sostiene che fu l’esercito algerino a bombardare il campo dove erano prigionieri i monaci, e a ucciderli.
Il presidente Sarkozy ha chiesto la verità.
di Natalia Aspesi in “la Repubblica” del 19 ottobre 2010