Il testo che anticipiamo in questa pagina verrà letto dall’autore domani alla Milanesiana, la rassegna di letteratura, musica, cinema e scienza curata da Elisabetta Sgarbi (Teatro Dal Verme di Milano, ore 21).
La serata ha per tema «I paradossi del tempo» e prevede anche la partecipazione di Fiorenzo Galli, direttore del Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, del matematico Wendelin Werner e dello scrittore Lawrence Osborne, con un concerto finale della cantante Noa.
Shalom Auslander è nato a New York 40 anni fa.
In Italia è conosciuto soprattutto per il memoir Il lamento del prepuzio (Guanda), dove ha raccontato con umorismo spietato i mille divieti in mezzo ai quali è cresciuto nel quartiere ebraico ortodosso di Monsey e i condizionamenti che ne sono derivati.
Di recente, sempre da Guanda, ha pubblicato la raccolta di racconti A Dio spiacendo.
La Yeshiva di Spring Valley era una scuola ebraica ultraortodossa.
I nostri rabbini erano onniscienti, e padroneggiavano tale conoscenza con assoluta certezza.
Sapevano che la Terra aveva 6.000 anni.
Sapevano che Dio aveva creato il Cielo e la Terra, e sapevano che successivamente aveva creato le piante, e che poi aveva creato gli alberi, e che poi aveva creato l’uomo, e che poi si era preso un giorno di vacanza.
Sapevano che la Terra sarebbe arrivata a una fine, e sapevano cosa sarebbe successo a tutti noi dopo che il mondo fosse finito.
Ci osservavano attentamente.
Osservavano come parlavamo, cosa mangiavamo, come pregavamo, quali preghiere di ringraziamento recitavamo.
L’unico posto in cui si poteva sfuggire all’occhio sempre vigile dei rabbini era il bagno al secondo piano; i rabbini preferivano il bagno al primo piano, dove fumavano sigarette e si lamentavano della pigrizia dei loro studenti mentre, soltanto al piano di sopra, noi eravamo indaffarati a scoprire i segreti del mondo che loro cercavano disperatamente di nasconderci.
E così, una mattina, quando Avi Tuchman mi disse di seguirlo nel bagno al secondo piano, sapevo che mi aspettava qualcosa di interessante.
Avi controllò i cubicoli, e poi ispezionò gli orinatoi dietro l’angolo.
«Che c’è?», chiesi.
Lui si inclinò verso di me, unì le mani a forma di coppa sotto il mento e mi sussurrò all’orecchio.
«Se Hashem riesce a fare qualsiasi cosa», disse, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Hashem è il nome ebraico con cui ci si riferisce a Dio.
Non eri tenuto a usare il Suo nome senza una buona ragione, e di certo non eri tenuto a cercare di trovare dei modi per contestarlo.
Avi fece un passo indietro, incrociò le braccia e sorrise.
«Me l’ha detto mio cugino», disse.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», risposi.
«Ah sì?», esclamò Avi.
«Riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
«Certo che riesce».
«Allora ecco qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Sollevarlo».
«Allora riesce a sollevarlo».
«Allora ecco ancora qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Creare un masso che non riesce a sollevare».
Avi sorrise.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, alzando i tacchi e uscendo dal bagno.
La rivista porno aveva destato meno perplessità.
Avi Tuchman non mi piaceva granché, tuttavia la sua sembrava una gran bella domanda.
Un trucco, un trabocchetto, un filo allentato di un maglione che, se tirato, avrebbe disfatto tutta quella dannata maglia.
Non riuscivo a togliermelo dalla testa.
E così quel giorno, alla fine della lezione, dopo che il rabbino Brier ci aveva illustrato come Dio avesse trasformato l’acqua dell’Egitto in sangue, e come avesse fatto piovere rane, e diviso il mare in due parti e come fosse in grado di fare qualunque cosa – io alzai la mano.
«Che c’è?», chiese il rabbino Brier.
Brier era il rabbino della scuola che incuteva più timore, non per la sua intelligenza, bensì per le sue mani.
Una volta aveva schiaffeggiato uno dei ragazzi più grandi con una tale violenza da rompergli il naso, e aveva afferrato un altro studente per il braccio con una tale forza che per i due mesi successivi il ragazzo aveva dovuto portare il braccio al collo.
«Se Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Credevo non ci fosse niente di male nel fare una semplice domanda.
Dopo tutto, probabilmente c’era una semplice risposta; meglio chiarire queste cose velocemente prima che sfuggissero di mano.
«Chochemel», disse in yiddish il rabbino Brier con un certo sarcasmo – «Tu, saputello» – e mi mollò un ceffone in faccia.
«Hashem», ringhiò, «riesce a fare qualunque cosa», e poi mi disse di andare nell’ufficio del rabbino Greenbaum.
Questi era il preside e il capo dei rabbini della Yeshiva.
«Digli», disse il rabbino Brier, «che tu sai più di Hashem».
Che era esattamente l’opposto del nocciolo della questione.
Lo ammetto – la domanda mi faceva star bene.
Ma ciò che mi regalava una tale sensazione non era il pensiero di aver ingannato Dio, o di saperne di più di Lui.
Sicuramente allora non sarei stato in grado di riconoscerlo, ma ciò che di quella domanda faceva sentire talmente bene non era il pensiero di sapere qualunque cosa; piuttosto, era la chiara e distinta gioia di non sapere.
A quei tempi, sembrava che tutti credessero di sapere tutto.
Ultimamente, la situazione non ha fatto che peggiorare.
Tutti sanno tutto.
Sanno qual è il problema dell’America, qual è il problema del mondo, della letteratura, delle arti.
I blogger sono peggio dei giornalisti, gli utenti di Twitter sono peggio dei blogger.
Se esisteva un’arte del non sapere, l’abbiamo perduta.
«L’unica cosa che so», disse Socrate, «è che non so nulla».
Magari non è stato il primo a dirlo, ma comincio a sospettare che sia stato l’ultimo.
Il rabbino Greenbaum mi convocò nel suo ufficio, invitandomi a sedermi.
Mi accomodai con qualche difficoltà sulla sedia di fronte alla sua e mi fissai le scarpe.
«Dimmi», disse il rabbino Greenbaum, «credi che Hashem ti ami?».
«Sì», risposi.
«E credi che Hashem voglia che tu Lo ami?».
«Sì», risposi.
«E allora come credi che si senta Hashem quando affermi che non riesce a fare qualcosa?».
«Male», risposi.
«Naturalmente», disse il rabbino Greenbaum.
«E tu sai che Lui riesce a fare qualunque cosa».
Annuii.
«Ma se Lui non riesce a sollevarlo…», dissi.
«Certo che riesce a sollevarlo».
«Ma allora non riesce a farlo così pesante…».
«Certo che ci riesce».
«Ma allora…».
«Shalom», disse il rabbino Greenbaum, attorcigliandosi la barba, «sono più intelligente di te?».
Annuii.
«Sono più dotto di te?».
Annuii.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», disse.
«Okay?».
Annuii.
«Ora torna in classe», disse il rabbino Greenbaum.
Mi alzai avviandomi verso la porta.
La sua risposta non era una risposta.
Adesso la questione più importante era perché lui insisteva che lo fosse.
Raggiunsi la porta del suo ufficio e mi voltai verso di lui.
«Rabbino Greenbaum?», dissi.
«Sì?» \ «Mi dispiace di aver messo in dubbio Hashem», dissi.
Lui sorrise.
«Sei un bravo ragazzo», rispose.
Mi incamminai lungo il corridoio in direzione della mia classe.
Alle mie spalle, udii la porta dell’ufficio del rabbino Greenbaum richiudersi – il cigolio dei cardini logori, lo scatto della maniglia d’acciaio della porta, e poi la serratura, pesante, bloccare la porta scorrendo vigorosamente.
(Traduzione di Licia Vighi) in “La Stampa” del 13 luglio 2010
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