IV DOMENICA DI AVVENTO Lectio Anno c Prima lettura: Michea 5,1-4a Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti.
Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele.
Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio.
Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra.
Egli stesso sarà la pace!».
v Il profeta Michea è un contemporaneo di Isaia (VIII secolo).
In questo passo egli dedica la sua attenzione non a Gerusalemme, ma a Betlemme, la città che ha dato i natali a Davide.
A distanza di anni i discendenti di Davide non hanno ancora assolto alla loro missione.
Occorre che venga un discendente particolare che darà origine a un nuovo inizio.
Da Betlemme infatti verrà il Salvatore, discendente di Davide.
Il testo profetico non è esplicito, però lo diventa alla luce del NT e anche del vangelo odierno.
Il sussultare di Giovanni nel seno di sua madre alla presenza di un altro feto, si capisce se pensiamo alla identità di Gesù.
Egli viene profeticamente celebrato nella prima lettura.
Il testo di Michea è un celeberrimo vaticinio messianico.
Il messia è il centro ideale e soggetto logico, anche se non sempre grammaticale.
Di Lui si esalta la patria, Betlemme/Efrata (dal nome di un clan di Efratei che si era stanziato a Betlemme): una modesta borgata assurge al ruolo di protagonista perché da essa «uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele» (v.
1).
I tempi non sono ancora maturi e, in attesa del grande evento, Israele sarà ancora alla mercé dei suoi nemici (cf.
v.
2).
Tra la profezia di Michea e la sua realizzazione si colloca la speranza, autentico motore della storia di Israele.
La figura del Messia è caratterizzata come il pastore che «pascerà con la forza del Signore»: affiora un tema a largo spettro biblico (cf.
Ez 34; Gv 10).
La espressione «con la maestà del nome del Signore, suo Dio» suona un po’ barocca, ma serve all’autore a far capire che Dio si impegna personalmente; per noi è facile leggere tra le righe la divinità del Messia (cf.
v.
3).
Il v.
4 conclude l’oracolo profetico e ne riassume il significato: la pax davidica fu effettivamente vissuta nei primi anni del regno di Salomone.
Ora la storia freme verso il futuro e colui che nascerà porterà la vera pace, lui chiamato «principe della pace» (Is 9,8).
Seconda: Ebrei 10,5-10 Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”».
Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà».
Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo.
Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.
v La Bibbia ha sempre di mira una visione ‘olistica’ della realtà: la sola prospettiva biologica non basta a garantire la grandezza della vita.
Che a colui che doveva nascere fossero riconosciuti indiscussi segni di grandezza morale, lo avevano detto bene le due precedenti letture: sia la muta testimonianza di Giovanni o quella esplicita di Elisabetta, sia il messag-gio della profezia di Michea.
La presente lettura ha il merito di interpretare la piena consapevolezza del Messia e il suo totale ingaggio a favore dell’umanità.
La lettera agli Ebrei parla della morte di Gesù servendosi del linguaggio cultuale dell’AT.
Gli ordinamenti cultuali antichi avevano funzione preparatoria e quindi transitoria.
Non era ancora giunto quanto Dio desiderava.
Poi arriva Cristo con l’offerta della sua vita.
L’Autore trova un prezioso parallelo nel Sal 40 che egli cita nel testo greco dei LXX.
La pienezza della vita viene raggiunta con il dono della medesima, perché solo allora si tocca il vertice dell’amore di Dio («Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà») e dell’amore del prossimo («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» Gv 15,13).
Vangelo: Luca 1,39-45 In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.
E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Esegesi Troviamo ora insieme due donne, Elisabetta e Maria, che in precedenza Luca aveva presentato separatamente.
Se un filo di soprannaturale comunione le legava già prima, in quanto parte attiva del progetto amoroso di Dio, ora hanno l’opportunità di incontrarsi e di comunicare.
Il brano si compone di due parti, introdotte da un quadro di riferimento cronologico-geografico: dopo l’evento dell’annunciazione, Maria si trasferisce dal nord (Nazaret) al sud (città di Giuda) (cf.
v.
39).
In tale contesto si colloca dapprima l’incontro delle due madri (vv.
40-45), quindi la preghiera di Maria, il Magnificat, nata in quell’occasione e per quell’occasione (vv.
45-48; in realtà continua fino al v.
55, ma il testo liturgico si interrompe prima).
Dal confronto delle due parti, vediamo che la prima è dominata dalla parola di Elisabetta, mentre la seconda dalla parola di Maria.
Due madri che, ciascuna a proprio modo, cantano un inno alla vita.
Dopo la stupenda esperienza di Nazaret che la promuoveva a ruolo di ‘Madre di Dio’, Maria non appare una creatura beata in se stessa, isolata nella sua intimità divina, bensì un essere corporeo, fatto di concretezza, di sensibilità e di disponibilità.
Ella lascia la mistica tranquillità della sua casa e si mette in strada.
Non viene detto espressamente il motivo del viaggio; tutto lascia pensare che la causa sia da ricercare nell’annuncio angelico: Maria era stata informata che la parente Elisabetta era al sesto mese di gravidanza (cf.
v.
37).
Il fatto che ella si fermerà tre mesi, giusto il tempo perché il bambino possa nascere, permette di concludere che effettivamente Maria intenda recare aiuto alla futura mamma.
Ella si muove e va là dove la chiama l’urgenza di un bisogno.
«In fretta» esprime la sollecitudine di recare il giovanile aiuto all’anziana parente.
L’amore al prossimo, anche in questo caso, testimonia l’autenticità dell’amore a Dio.
Non sono fornite indicazioni geografiche, se non un generico «verso la regione montuosa, in una città di Giuda».
Una tradizione del VI secolo identifica il luogo con Ein Karem, la cui scelta è forse dovuta alla bucolica serenità del luogo e al fatto di essere equidistante da Gerusalemme e da Betlemme.
A noi interessa rilevare lo spostamento da Nazaret, al nord, verso la Giudea, al sud, con un percorso di circa 150 Km che richiedeva circa tre giorni di cammino.
Da questo cammino, non privo di fatica e di disagi, verrà la possibilità di un incontro e quindi della lode.
Cammino, incontro e lode sono quindi i tre segmenti che costruiscono l’armonia di questo racconto.
Maria si mette in cammino.
Grazie a lei anche Gesù, prima ancora di nascere, è in movimento verso gli altri, profetico anticipo della sua missione itinerante che intende portare a tutti la parola che aiuta e che salva.
Luca utilizza l’episodio per mettere alla luce quanto si era compiuto nell’intimità di Nazaret, che solo con il dialogo con un’interlocutrice poteva lasciare la sua segretezza e la sua dimensione individuale.
La prima scena è dominata da Elisabetta e dalle sue parole; non va dimenticato che queste si sprigionano dal suo animo quando sono sollecitate da Maria.
Due eventi causano e spiegano tali parole.
Il primo, apparentemente ordinario, è l’ingresso di Maria nella casa di Zaccaria con il conseguente saluto rivolto a Elisabetta.
È una felice ‘provocazione’.
Il saluto origina il secondo evento, il sussulto del bambino di Elisabetta che sembra riconoscere la voce di Maria e, più ancora, sembra relazionarsi a colui che ella porta in grembo.
L’incontro delle due madri è l’occasione per l’incontro dei due figli che portano in grembo, Giovanni e Gesù.
Su di loro riposa lo spessore teologico del brano.
Si instaura ancora a livello di feto quella dipendenza gerarchica, un misto di servizio incondizionato e di gioia piena, che caratterizzerà la vita di Giovanni.
Egli testimonierà: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo: Ora questa mia gioia è compiuta.
Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,29-30).
Al presente c’è una percezione che si riverbera in un sussulto di gioia.
Le due madri sono ‘arche sante’, ‘ostensori sacri’ di due esseri destinati l’uno a tratteggiare la via, l’altro ad essere lui stesso via.
La scena, pur dominata dalle due madri, ha il suo fulcro nella percezione che Giovanni ha di Gesù e nell’implicito riconoscimento della sua grandezza.
Effettivamente le parole di Elisabetta documentano che lo spessore teologico attraversa i ‘concepiti’ più che le madri: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (vv.
42-43).
Con una espressione semitica che equivale a un superlativo («fra le donne»), Maria viene celebrata per la sua funzione o carisma (essere «Madre del mio Signore») e per la sua adesione incondizionata a tale vocazione.
A lei vengono riservate una benedizione («benedetta tu») e una beatitudine («beata»).
La benedizione è una formula tipica dell’AT, dove il verbo ebraico barak e il sostantivo derivato berakah si trovano ben 398 volte.
Secondo diversi studiosi, la radice ebraica brkh è collegata a berekh (= ginocchio) creando il nesso tra la benedizione e l’inginocchiarsi, tipico atto di adorazione e di omaggio alla divinità.
Nella Bibbia le benedizioni si dividono in ‘ascendenti’ quando celebrano Dio per qualche intervento (cf.
Sal 41,14) e ‘discendenti’ quando si invoca la potenza di Dio su qualcuno o su qualcosa (cf.
Nm 6,24-27) o quando è lo stesso Dio a benedire (cf.
Gn 1,28).
La benedizione è un dono che ha rapporto con la vita; possiamo affermare che la ricchezza fondamentale della benedizione è quella della vita e della fecondità: questo vale tanto per la terra, quanto per le persone (cf.
Dt 28,1-14).
Lo vediamo bene nel nostro passo, quando alla benedizione per Maria viene affiancata quella per il figlio: «e benedetto il frutto del tuo grembo!».
Maria viene celebrata proprio per la sua maternità.
Così la benedizione viene da Dio e a Lui ritorna ora sotto forma di invocazione e di preghiera; è un riconoscere quello che Lui ha fatto.
La beatitudine del v.
45 la prima del vangelo di Luca, certifica l’adesione di Maria alla volontà divina.
Ella quindi non è solo destinataria privilegiata di un arcano disegno che la rende benedetta, ma pure persona responsabile che accetta e aderisce.
Maria non è una creatura che sa, ma una creatura che crede, perché si è aggrappata ad una parola nuda che ella ha rivestito di amore.
Ora Elisabetta le riconosce questo amore, espresso con «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto», e la celebra come la prima di tutte le donne.
Maria va da Elisabetta per un servizio domestico, Elisabetta le restituisce il servizio liturgico della lode, riconoscendola benedetta come madre e beata come credente.
Il ‘cantico di Elisabetta’ (cf.
vv.
42-45), dono dello Spirito, pubblicizza per il lettore e per il credente il mistero che Maria pensava affidato alla segretezza della sua intimità.
Non esiste rapporto autentico con Dio che non abbia la possibilità di diventare ‘pubblico’: questo è il concetto fondamentale di carisma e Maria ha in primis il carisma di essere la «madre del mio Signore», come le riconosce la parente.
L’incontro di due madri in attesa, diventa l’incontro del frutto che hanno in grembo; Giovanni percepisce la presenza del suo Signore ed esulta, esprimendo con il suo sussultare la gioia a contatto con la salvezza, che Maria potrà formalizzare nel canto che segue.
Meditazione «Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto» (Lc 1,78).
Così aveva profetato Zaccaria nel suo cantico di lode per la nascita prodigiosa del figlio Giovanni.
Ora la visita di Dio si fa prossima; il suo volto si sta intessendo nel grembo di una vergine, Maria; colui che è chiamato «profeta dell’Altissimo», colui che andrà «innanzi al Signore a preparargli le strade» (Lc 1,76), già ne riconosce la presenza e ancora nel seno della madre, Elisabetta, esulta di gioia messianica.
La liturgia della IV domenica di Avvento ci orienta ormai al cuore del mistero: Dio non solo visita il suo popolo, ma sceglie di dimorare stabilmente in mezzo ad esso.
L’irruzione di Dio nella storia dell’umanità ha sempre qualcosa di inatteso e ogni visita di Dio opera una sorta di capovolgimento dei criteri e delle attese dell’uomo.
E così Dio sceglie uno sconosciuto villaggio della Palestina, Betlemme, «così piccolo per essere tra i villaggi di Giuda» per rivelare «colui che deve essere il dominatore di Israele», colui che «pascerà con la forza del Signore», colui che «sarà la pace» (cfr.
Mi 5,1-4).
Lo sguardo di Dio si posa, con infinita gratuità, su una povera ragazza di Nazaret, Maria; sarà lei a dare un corpo e un volto umano all’Emmanuele.
In Maria, il Figlio di Dio può dire: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato» (Eb 10, 5; citazione del Sal 40,7-9).
E così, fedele al suo amore per i piccoli, Dio rivela i primi frutti della sua visita all’umanità nell’incontro tra due donne che portano nel loro grembo la vita e che si accolgono l’un l’altra riconoscendo reciprocamente ciò che Dio ha operato in ciascuna di loro.
Maria ed Elisabetta, custodi del dono di Dio, diventano l’icona dell’umanità visitata dalla misericordia di Dio.
Attraverso il racconto di Luca, cerchiamo allora di cogliere la qualità di questo incontro e i frutti che da esso scaturiscono. Anzitutto dobbiamo riconoscere che l’incontro tra Maria ed Elisabetta è una esperienza della forza della parola di Dio che agisce nella vita di chi sa accoglierla.
Elisabetta dirà a Maria: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45).
È questa la prima beatitudine: credere nell’efficacia della parola di Dio, poggiare la propria vita sulla fedeltà di Dio alla sua promessa come su di una roccia.
È ciò che permette al Signore di vivere ‘oggi’ nel credente che lo ascolta.
A chi proclamava la beatitudine e la gioia della maternità di Maria, Gesù risponderà proprio con questa prima e fondamentale beatitudine: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28).
Ed è per questo che Maria ed Elisabetta non possono fare altro che rileggere tutta la loro esperienza alla luce della parola di Dio che permette una comprensione profonda dei segni di cui sono protagoniste, segni in cui si riconosce l’onnipotenza di Dio.
Ogni parola e ogni gesto di questo incontro portano impresso il sigillo della Scrittura trasformandosi così nell’abbraccio tra la Prima e la Seconda Alleanza, tra la promessa e il compimento.
Davvero solo la parola di Dio può permetterci di riconoscere quando il Signore ci visita e quali frutti ci porta.
Alla luce della Scrittura, allora noi possiamo cogliere più in profondità il senso di questo incontro.
Esso non è solamente la commozione tra due donne per la gioia della loro maternità così straordinaria e singolare.
Il saluto di Maria (aspasmon, termine che ritorna tre volte) provoca qualcosa di speciale: in Elisabetta che «fu colmata di Spirito Santo» (v.
41) e nel bambino che portava in sé, che «ha sussultato di gioia nel suo grembo» (v.
44).
Lo Spinto santo e la gioia sono due doni tipicamente messianici segni della presenza e dell’incontro con il Signore che visita il suo popolo, doni che Maria ha riconosciuto in se con l’annuncio dell’angelo (cfr.
1, 28.35) e che ora comunica ad Elisabetta (quasi una eco di quella Parola da cui tutto ha avuto inizio e da cui tutto proviene).
Ed è significativo che lo spazio in cui questi doni sono comunicati è l’ascolto: «appena…
ebbe udito il saluto di Maria…
appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi…» (vv.
41.44).
È l’ascolto il luogo in cui si riconosce la presenza del Signore e in cui si accoglie la sua parola; e riconoscere la voce di Dio produce gioia e comunica lo Spirito.
Ci soffermiamo allora su questi due doni che scaturiscono dalla visita di Dio, di quel Dio portato nel grembo di Maria, come nell’arca dell’Alleanza, ad Elisabetta (che riconosce in Maria «la madre del mio Signore», v.
43).
Alla presenza di Maria e alla voce del suo saluto, Elisabetta «fu colmata di Spirito Santo» (v.
42).
Colei che è «piena di grazia» e sulla quale lo Spirito Santo è sceso, diventa pneumatofora, portatrice di Spirito, capace di comunicare ad altri lo Spirito di Dio.
Ed è lo Spirito, accolto da Elisabetta attraverso l’ascolto della voce di Maria, a permettere di riconoscere la presenza di Dio in questo incontro.
Sembra quasi che Luca abbia voluto anticipare la Pentecoste, che narrerà poi in At 2,1-4 (in cui sarà ancora presente Maria insieme agli apostoli nella camera alta: At 1,13-14).
Elisabetta e Giovanni passano così dall’economia della legge a quella dello Spirito, quasi formando un nucleo iniziale di Chiesa.
La potenza dello Spirito Santo, comunicato da Maria, investe anche Giovanni nel grembo di sua madre e lo fa trasalire, saltare e danzare di gioia (vv.
41.44; chiara è l’allusione alla danza di Davide di fronte all’arca in 2Sam 6,14-16).
La gioia, di fatto, investe tutta la scena.
È una gioia ‘viscerale’, profonda, che, attraverso il dono dello Spirito, sgorga dal riconoscimento di una promessa attesa da secoli e che finalmente trova il suo compimento.
Ed è una gioia tanto più intensa quanto più lunga era stata l’attesa; una gioia vissuta dapprima nell’esultanza delle viscere e poi celebrata dal cuore e dalle labbra delle due donne.
In questa gioia, i Padri (in particolare Origene) hanno anche voluto sottolineare l’incontro e il riconoscimento dei due figli ancora nel grembo materno: colui che cammina davanti al Messia ne riconosce la presenza e lo testimonia, lo annuncia (euangelion) non con la voce di chi grida nel deserto, ma con la gioia comunicativa del bambino.
Giovanni prenderà coscienza di questa gioia quando dirà: «L’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo.
Ora questa mia gioia è piena» (Gv 3,29).
La semplice gioia di un bambino non ancora nato e comunicata dalle labbra della madre compie il suo corso trovando spazio nel cuore di Maria.
E diventa un canto, il Magnificat.
E in esso Maria riconosce la verità di tutto ciò che Elisabetta e il suo bambino le hanno detto.
Davvero il Signore l’ha visitata, l’ha riempita di Spirito Santo e di gioia: «Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (1, 48).
Come Maria, il credente che ha saputo riconoscere la visita di Dio nella sua vita attraverso quella parola che ha cercato di ascoltare, custodire, mettere in pratica, diventa missionario: capace di annunciare e comunicare il dono di Dio.
E il dono di Dio è la gioia nello Spirito Santo, la lieta notizia che è Gesù.
Preghiere e Racconti Andiamo fino a Betlem Andiamo fino a Betlem, come i pastori.
L’importante è muoversi.
Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro.
E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.
Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell’onnipotenza di Dio.
Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, senza paura.
Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.
(don Tonino Bello) C’era una volta un lupo C’era una volta un lupo che viveva nei dintorni di Betlemme.
I pastori lo temevano e vegliavano l’intera notte per salvare le loro greggi.
C’era sempre qualcuno di sentinella, così il lupo era ogni volta più affamato, scaltro e arrabbiato.
Una strana notte, piena di suoni e luci, mise in subbuglio i campi dei pastori.
L’eco di un meraviglioso canto di angeli era appena svanito nell’aria.
Era nato un bambino, un piccino, un batuffolo rosa, roba da niente.
Il lupo si meravigliò che quei rozzi pastori fossero corsi tutti a vedere un bambino.
“Quante smancerie per un cucciolo d’uomo” pensò il lupo.
Ma incuriosito e soprattutto affamato com’era, li seguì nell’ombra a passi felpati.
Quando li vide entrare in una stalla si fermò nell’ombra e attese.
I pastori portarono dei doni, salutarono l’uomo e la donna, si inchinarono deferenti verso il bambino e poi se ne andarono.
L’uomo e la donna stanchi per le fatiche e le incredibili sorprese della giornata si addormentarono.
Furtivo come sempre, il lupo scivolò nella stalla.
Nessuno avvertì la sua presenza.
Solo il bambino.
Spalancò gli occhioni e guardò l’affilato muso che, passo dopo passo, guardingo, ma inesorabile si avvicinava sempre più.
Il lupo aveva le fauci socchiuse e la lingua fiammeggiante.
Gli occhi erano due fessure crudeli.
Il bambino però non sembrava spaventato.
“Un vero bocconcino” pensò il lupo.
Il suo fiato caldo sfiorò il bambino.
Contrasse i muscoli e si preparò ad azzannare la tenera preda.
In quel momento una mano del bambino, come un piccolo fiore delicato, sfiorò il suo muso in una affettuosa carezza.
Per la prima volta nella vita qualcuno accarezzò il suo ispido e arruffato pelo, e con una voce, che il lupo non aveva mai udito, il bambino disse: “Ti voglio bene, lupo”.
Allora accadde qualcosa di incredibile, nella buia stalla di Betlemme.
La pelle del lupo si lacerò e cadde a terra come un vestito vecchio.
Sotto, apparve un uomo.
Un uomo vero, in carne e ossa.
L’uomo cadde in ginocchio e baciò le mani del bambino e silenziosamente lo pregò.
Poi l’uomo che era stato un lupo uscì dalla stalla a testa alta, e andò per il mondo ad annunciare a tutti: “È nato un bambino divino che può donarvi la vera libertà! Il Messia è arrivato! Egli vi cambierà!”.
La venuta del Signore Noi aspettiamo il giorno anniversario della nascita di Cristo: il nostro spirito dovrebbe come slanciarsi, pazzo di gioia, incontro al Cristo che viene, tutto teso in avanti con un ardore impaziente, quasi incapace di contenersi e di sopportare ritardo…
Chiedo per voi, fratelli, che il Signore, prima di apparire al mondo intero, venga a visitarvi nel vostro intimo.
Questa venuta del Signore, sebbene nascosta, è magnifica, e getta l’anima che contempla nello stupore dolcissimo dell’adorazione.
Lo sanno bene coloro che ne hanno fatto l’esperienza; e piaccia a Dio che quelli che non l’hanno fatta ne provino il desiderio! (GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, II, 2-4).
Quando Dio spera… …non è per lo spazio d’una notte che Dio spera contro speranza.
Mendicante sconosciuto, instancabilmente percorri i lidi delle notti umane, ombra tra le ombre innumerevoli dei senza speranza.
Nella tua bocca muta si spengono i singhiozzi, ma tu vorresti gridare, anche tu, perché questo grido se ne vada, come un’eco diversa, come un richiamo nuovo, a confondersi con il lamento crescente, con le grida degli assetati di luce con il terribile silenzio dei pianti soffocati, e non resta che aprirsi al vuoto dei marosi grigi, all’alba che si accende non veduta.
Sul lido delle notti umane, sei il Dio senza voce.
Poiché la tua Parola fu detta in un giorno del tempo.
L’ hai pronunciata tutta, l’hai gridata sino alla fine, sino all’ultimo respiro del tuo Figlio.
Ma quando fu compiuta la tua Parola nella sua pienezza, per te, Dio, venne il tempo della speranza nuda, della speranza muta, della speranza contro ogni speranza.
Preghiera della quarta domenica di Avvento Dio eterno, Dio sempre nuovo, inafferrabile, Dio di alleanza, Dio di libertà, dove adorarti? dove cercarti? dove attenderti? dove si annuncia la tua venuta? La tua Parola ci rassicuri, o Padre degli uomini, Dio della promessa, ora e sempre.
Presenza imprevedibile, Dio di lunga pazienza, Signore dell’impossibile, noi non sappiamo ne l’ora ne il luogo della tua venuta.
Ma, sicuri che il tuo amore ci è dato per scoprire, per svelare, per generare, non cessiamo di pregarti: il tuo Spirito ci guidi alle opere del Regno, all’incontro con il tuo Figlio Gesù Cristo, nostro fratello e nostro Signore, per sempre.
(Nicole Berthet).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
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