IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Deuteronomio 18,15-20

 

       Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto.  Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.  Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».

 

  • Tutta la fede biblica è fondata sulla parola di Dio, feconda come la pioggia e la neve (cf. Is 55,10-11). Ed è di sempre il problema che essa sia autentica ed efficace. La prima lettura riporta il passo del Deuteronomio che fa risalire a Mosè l’origine dei profeti, gli inviati di Dio a portare la sua parola, e che ha suscitato pure l’attesa del Messia come profeta. Il discorso è in bocca a Mosè che parla a Israele, al di là del Giordano di fronte a Gerico, sul modo di comunicare con Dio.

Nei versetti che precedono il brano liturgico (Dt 18,9-14), egli esclude perentoriamente che possa farlo l’uomo, perché i suoi mezzi sono del tutto inadeguati e falsi. Sacrifici umani, divinazione, sortilegio, magia, evocazione dei morti, spiritismo, indovini, incantatori, ecc. sono un «abominio» davanti a Dio. Solo Dio può comunicare con l’uomo in modo autentico.

Ecco allora la promessa, che risponde alla richiesta già fatta dagli Israeliti al Sinai: dopo Mosè, Dio stesso continuerà a parlare ad Israele, mediante la figura del profeta, del quale tratteggia così le caratteristiche. Lo susciterà Lui stesso, quindi ne garantirà la vocazione e il carisma. Sarà un fratello tra fratelli e starà in mezzo a loro: sarà cioè, non uno stravagante, ma una persona normale che vive dentro alle situazioni normali, perché di esse deve capire il senso, per vivere davvero secondo Dio. Sarà suo porta-parola: «Gli porrò in bocca le mie parole…». E come tale dovrà essere ascoltato.

Dio poi prospetta un possibile duplice falso profeta: quello che parla falsamente a nome di Dio e quello che parla in nome di falsi dei. In entrambi i casi è comminata la pena di morte, spiegabile con la rigidità dei tempi e non certo da riesumare. Testimonia comunque l’importanza data alla parola di Dio. E può far riflettere se la mentalità moderna, assai severa contro le trasgressioni di ordine economico e materiale, non sia invece troppo indifferente e permissiva di fronte agli scandali e alle corrosioni dei valori morali.

Mosè usa sempre il singolare, un profeta, ma con significato collettivo, riferito a tutto il profetismo. Egli stesso, del resto, condivide il suo spirito profetico con i 70 Anziani (Nm 11,16-30 e Es 18,21-26) e ad essi e ai Leviti dà in consegna la Legge, da custodire, ripetere e attualizzare continuamente (Dt 10,8-9 e 31,9-13.24-27).

Il singolare ha pure fatto attendere il Cristo, come Profeta per eccellenza, come appare da interrogativi dei Giudei (cf. Gv 1,21.25). Gesù di Nazaret lo è effettivamente. Venuto da Dio, si è fatto vero fratello tra fratelli, partecipe del nostro essere e della nostra storia: «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

 

Seconda lettura: 1Corinzi 7,32-35

 

     Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!

Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.

 

  • La seconda lettura riporta uno stralcio delle risposte di Paolo alle domande scritte, su matrimonio e verginità, fattegli pervenire dalla comunità di Corinto e concentrate in 1Cor 7. Un legame col tema dell’annuncio e dell’ascolto della parola di Dio c’è nelle distinzioni che l’apostolo fa tra quello che dice lui e quello che ha detto il Signore. Anche lui cerca la parola autentica o quantomeno la traduzione autentica della parola di Cristo nella vita vissuta.

Quanto alle vergini, delle quali parla in questo brano, ha infatti premesso: «Non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» (1Cor 7,25). Parla quindi come un convertito, ma assunto alla dignità di apostolo. E dà consigli per un comportamento lineare nel proprio stato di vita, conforme alla propria vocazione, senza preoccupazioni che dividano l’animo. Questo lo vede più facile in chi non è sposato, come la vergine, perché si preoccupa delle cose del Signore. Mentre chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, di come piacere alla moglie o al marito. Proteso alla trascendenza e alle realtà ultime, per cose del mondo egli intende quelle provvisorie di questa vita che passa e per cose del Signore quelle dei valori più profondi ed eterni. Ma non è a senso unico quanto dice. Perché appena prima ha raccomandato: «Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla» (1Cor 7,27). E all’inizio ha scritto: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono da Dio» (1Cor 7,7). Importante è vivere secondo il dono ricevuto.

Paolo dunque invita ciascuno a vedere il proprio stato di vita come una vocazione da parte del Signore, alla quale dare risposta con una vita autentica, coerente e non divisa. E ciò è possibile solo nell’ascolto consapevole, continuo e profondo della parola di Dio.

 

Vangelo: Marco 1,21-28

 

   In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».  La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

 

Esegesi

La liberazione di un indemoniato è il primo miracolo che Marco racconta. Con esso egli introduce la descrizione di un sabato tipico di Gesù a Cafarnao. Ma in primo piano mette il suo insegnamento, lui che poi si sofferma più sui fatti che sui discorsi. Riporta, infatti, un episodio accaduto durante la liturgia della parola, nel culto sinagogale. E sviluppa il racconto in tre momenti, che mostrano come la parola nuova di Cristo ha provocato e compiuto il miracolo.

Dapprima (vv. 21-22), riferisce sommariamente l’insegnamento di lui nella sinagoga e lo stupore di tutti, perché lo fa «con autorità» e non come gli scribi.

Poi racconta il miracolo (vv. 23-26), compiuto dopo uno scontro verbale con un uomo, che si è messo a gridargli contro. L’uomo è posseduto da uno «spirito immondo», detto così perché lo spinge lontano da Dio e a comportamenti indegni. Egli riconosce che Gesù, all’opposto, è «il santo di Dio», cioè tutto dedito a lui e rivestito delle sue perfezioni. Lo deve aver percepito dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti. E si è messo in agitazione perché avverte lucidamente che ciò comporta la rovina del dominio diabolico. Ma con arroganza contesta a Cristo il diritto di intromettersi, usando un plurale col quale si identifica con tutte le potenze demoniache e nel quale pare voler coinvolgere anche gli uditori, presumendoli dalla sua parte. Al demonio Gesù prima comanda di tacere e poi di uscire da quell’uomo. Ciò avviene tra convulsioni e grida ancora più forti, provocate dal potere sconvolgente della parola di Dio. Si è trattato di un esorcismo, ma si può dire che tante resistenze a Dio sono fatte di contorcimenti e strepiti di vario genere, che si placano solo a partire dal silenzio delle nostre parole e dal lasciarsi prendere dalla forza della parola di Dio.

Infine (vv. 27-28) Marco torna sulla meraviglia generale, ancora più grande dopo il miracolo, accompagnata da timore reverenziale, di fronte alla potenza di Dio, e da interrogativi su che cosa questo significhi per tutti nella lotta contro il demonio.

La risposta viene dalla differenza, rimarcata in tutto il racconto, fra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi. Gli scribi insegnavano, commentando i testi sacri, con tante sottigliezze, elucubrazioni, accomodamenti interessati, per i quali si appellavano alle tradizioni e ai maestri umani: un insegnamento formalistico e sterile, che può ripetersi fra i cristiani. Gesù invece insegna con autorità. Cioè, egli parla a nome proprio, con la propria autorità divina: «Ma io vi dico…». Parla con la coerenza della vita, diversamente dagli scribi e farisei, che dicono e non fanno (cf. Mt 23,2-3). E la sua parola produce quello che afferma, in particolare ha la forza di contrapporsi al demonio e di vincerlo. Perché egli va al valore originario della parola di Dio e la propone come una semente da sviluppare, non come una teoria sulla quale dissertare o come un formalismo da assumere.

 

Meditazione

Subito dopo la chiamata dei primi discepoli, Gesù manifesta che cosa significa che il regno di Dio è iniziato con la sua parola e la sua opera: insegnamento e liberazione dal male, guarigione. Va nella sinagoga di Cafarnao, cittadina importante sul lago di Galilea, stazione di frontiera del territorio di Erode Antipa, a quel tempo governatore della Galilea in nome dei Romani, sede di una guarnigione romana, città di com­mercio con una popolazione mista.

Gesù entra nel giorno di sabato nella sinagoga, nel luogo della pre­ghiera, e si mette ad insegnare, come ogni domenica continua ad inse­gnare nel luogo dove la comunità cristiana si riunisce per la Liturgia Eucaristica. Ciò si inserisce perfettamente nella struttura della preghie­ra sinagogale. Gesù doveva essere conosciuto a Cafarnao, come è cono­sciuto da noi, e con tutta probabilità il capo della sinagoga lo invitava a spiegare la Scrittura proprio per questo. Un episodio analogo avverrà nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,16 ss.; Mc 6,1-6). L’insegnamento di Gesù provoca reazioni di stupore, perché sempre il Vangelo suscita stupore in chi lo ascolta con il cuore e non distrattamente. L’autorevolezza di Gesù è quella di una parola che tocca il cuore e suscita domande, non come quelle parole che talvolta si pronunciano, e che non interro­gano nessuno, perché sono o troppo teoriche o troppo banali. La sua parola suscita una reazione persino in un uomo posseduto dal male.

L’impurità di quell’uomo indica lontananza da Dio, che è il puro e il santo per eccellenza. Ma Gesù non lo disprezza, non lo allontana, come farebbe il nostro mondo davanti a gente che porta in sé i segni del male e del dolore. Non si arrabbia anche quando viene offeso da quell’uomo. Egli capisce che le sue parole violente esprimono paura, lacerazione interiore, incapacità a liberarsi da solo dallo spirito del male. Anzi Gesù coglie in esse una domanda di guarigione. «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?, grida con violenza quell’uomo, sentendosi minacciato da Gesù e dal suo insegnamento. Sì, il bene eccessivo appare una minaccia per chi è abituato al male fino ad esserne posseduto. Quanta ironia in questa pagina del Vangelo: uno spirito impuro, sentendosi minacciato, riconosce in Gesù il Santo di Dio, mentre quelli che stanno attorno a lui, convinti di conoscerlo, a contatto della sua figura santa, non sanno riconoscerlo. Così avviene spesso anche nella vita dei cristiani, che si abituano a vivere con Gesù senza però riconoscerne la forza di amore e di guarigione.

Gesù ordina allo spirito impuro di uscire da quel corpo, tutto sommato incolpevole. L’autorità di Gesù vince il male, vince la terribile frattura che sconquassa quell’uomo. Gesù lotta autorevolmente contro il male, non si lascia intimorire da esso, comanda che la vita di Dio entri nelle strutture vitali, nel corpo, nella mente, nel cuore, nelle viscere degli uomini incate­nate dal male, un male tanto forte da spaccare, lacerare l’uomo. «Taci! Esci», egli dice. Taci! — quasi che il male stesso parli attraverso l’uomo. E poi: «esci»!, quasi a dire che questo spazio non è tuo; nella vita di quest’uo­mo hai preso troppo spazio; esci e lascia il posto di Dio. La parola di Gesù vince il male, lo ridimensiona, creando spazio a Dio dentro quest’uomo dal quale è stato cacciato ciò che esclude Dio. L’uomo, immagine di Dio, non può essere abitato dal male per sempre. Il male è forte nel mondo e nella vita degli uomini, e non sempre se ne è consapevoli, perché tutti presi da se stessi, incapaci di fermarsi, di riflettere, perché il male fa paura e fa chiudere gli occhi, allontana gente interessata solo al proprio benes­sere. Esorcismo senza gesti magici, senza formule magiche, quello di Gesù. Basta la sua parola autorevole. Non che questa uscita, questo svuo­tamento sia indolore. Strazio, urla. Si ha l’impressione comunque di un taglio netto, rapido. Di un autentico strappo. La parola di Gesù, portatrice della forza del bene, vince anche il male più resistente.

«Tutti furono presi da timore» di fronte a Gesù. Una emozionata meraviglia, profonda, è il primo sentimento degli astanti, che si inter­rogano seriamente su Gesù e sul suo insegnamento. Che cosa succede qui adesso? Che cosa è questo? Una nuova dottrina? Perché questo scossone nella vita di quell’uomo… e nella nostra? Nuovo, diverso da quello degli scribi: un insegnamento autorevole e nuovo. Qual è la novità che balza evidente al primo sguardo? L’insegnamento di Gesù è subito e soprattutto lotta diretta contro lo spirito impuro, contro il male che abita negli uomini, facendola indebitamente da padrone. La parola di Gesù è allora una forza che cambia, perché entra nella vita degli uomini, anche nei peggiori, perché nessuno è così posseduto dal male da essere del tutto lontano da Dio. Anzi Gesù è venuto proprio per rendere possibile a tutti l’incontro con Dio, che è perdono e guari­gione. Per questo Gesù, subito dopo aver chiamato i discepoli, incontra i malati e tra essi per primi gli indemoniati. Il Regno di Dio comincia a realizzarsi nel fare posto a Dio nella vita degli uomini, nello scacciare il male perché il bene penetri dovunque senza resistenze.

Gesù entra nella vita degli uomini, innanzitutto nello spazio religioso per eccellenza: la sinagoga, dove si predica abitualmente la Parola di Dio. Gesù indica una nuova, entusiasmante dimensione del rapporto con Dio, che scuote gli uomini, anche quelli che pensano di conoscerlo. Egli mette in discussione radicalmente la struttura religiosa tradizionale, provocando la guarigione degli uomini dal male. E gli uomini sono scossi, si meravigliano, cosicché alcuni saltano nella fede, mentre altri si trincerano in un atteggiamento difensivo, ostile. Lo stupore è ambivalente e, solo, non basta per compiere il salto della fede. Infatti l’ostilità è la reazione evidente nell’episodio di Gesù che parla nella sinagoga di Nazaret (Mc 6,1-6). Gesù è davvero il profeta annunciato a Mosè nel libro del Deuteronomio. Proprio a lui Dio ha «messo in bocca le sue parole», perché possano liberare il mondo dal male. Il regno di Dio ha preso avvio e continua a manifestarsi ogni volta che viene comu-nicato il Vangelo di Gesù. Forse non si è sempre consapevoli della forza di bene che il Signore ha posto nelle mani dei suoi discepoli. Per questo si vive in modo rassegnato e pessimista, come se il male fosse così forte da non poter essere sconfitto. Forse, come avverte l’apostolo Paolo, siamo troppo presi dalle preoccupazioni quotidiane, che ci assillano più di prima, e non poniamo mente e cuore alla forza del Vangelo del regno. Forse dovremmo preoccuparci di più di piacere al Signore, facendoci scuotere dalla sua parola, perché essa ci converta a lui e al bene, liberando anche noi dal male che si annida nei cuori.

 

L’immagine della domenica

 

COLLINA DI RIAZA (SEGOVIA)       –       2016

 

«Quando perdi il contatto con la quiete interiore, perdi il contatto anche con te stesso. Quando perdi il contatto con te stesso, ti perdi nel mondo».

(Eckhart Tolle)

 


Preghiere e racconti

 

Dire Dio oggi

La parola ha dato la possibilità all’uomo di coltivare la propria ricchezza interiore e di condividerla con chi gli stava vicino. La parola ha permesso all’essere umano di creare un’intensità e una complessità di relazioni che è unica, almeno nel nostro mondo conosciuto. È stata proprio la parola ad averci permesso di tramandare – attraverso la scrittura – le esperienze più complesse e dunque ad averci aiutato a costruire la memoria, che è il grande patrimonio della nostra specie. Nella parola è racchiuso il mistero della relazione con Dio. C’è una voce che chiama – la Sua – e una voce – la nostra – che può scegliere se rispondere o meno. Il rapporto con Dio non è un rapporto passivo, bensì quello tra due volontà vive e autonome. […] La delusione, l’amarezza, la depressione che tante persone esprimono al giorno d’oggi nei riguardi della vita, delle aspettative tradite, sono proprio dovuto al fatto che la parola si è ritirata, e le poche rimaste hanno perso il loro legame profondo con la verità.

Così, dire Dio oggi vuol dire soprattutto proporre l’idea di un’esistenza come scelta tra una vita autentica – che segue le parole della Rivelazione – e una vita rappresentata – plasmata dalle contingenze del proprio tempo, tra una vita posseduta e una vita consumata.

 

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Torino, Lindau, 2011, 148-149)

Quel Dio che s’immerge nelle nostre ferite

Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore, quella esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione della passione, quella che smuove anche le montagne. Salviamo lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il centro della vita perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.

La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che nutrono la vita e la fanno fiorire; Gesù ha autorità perché non è mai contro l’uomo ma sempre in favore dell’uomo, e qualcosa dentro chi lo ascolta lo sa.

Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù: la sua persona è il messaggio, l’intera sua persona. Come emerge dal seguito del brano: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulle fragilità dell’uomo e la prima di tutte le povertà è l’assenza di libertà, come per un uomo «posseduto», prigioniero di uno più forte di lui.

E vediamo come Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non cerca spiegazioni sul male, Gesù mostra Dio che si immerge nelle ferite dell’uomo; è Lui stesso il Dio che si immerge, come guarigione, nella vita ferita, e mostra che «il Vangelo non è un sistema di pensiero, non è una morale, ma una sconvolgente liberazione» (G. Vannucci).

Lui è il Dio il cui nome è libertà e che si oppone a tutto ciò che imprigiona l’uomo. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a demolire prigioni; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che non è amore. A rovinare il regno dei desideri sbagliati che si impossessano e divorano l’uomo: denaro, successo, potere, egoismi. A essi, padroni del cuore, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui.

Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Va in rovina, come aveva sognato Isaia, vanno in rovina le spade e diventano falci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l’uomo libero e amante. Posso diventarlo anch’io, se il Vangelo diventa per me passione e incanto. Patimento e parto. Allora scopro «Cristo, mia dolce rovina» (Turoldo), che rovina in me tutto ciò che non è amore, che libera le mie braccia da tutte le cose vuote, e che dilata gli orizzonti che respiro.

(Ermes Ronchi)

 

«Che è mai questo?»

  1. Gesù l’annunciatore della vicinanza regale di Dio è la vicinanza regale di Dio, è il farsi prossimo in maniera compiuta di Dio alle attese del povero mondo. Una buona notizia che domanda accoglienza riconoscente e che pone in una nuova condizione, l’ambito dell’amore di Dio. Oggi i chiamati da Gesù entrano con lui nella sinagoga di una città di nome Cafarnao. Di sabato (Mc1,21). E assieme ai presenti nella sinagoga assistono a un primo e singolare porsi in atto della regalità di Dio in Gesù.
  2. Sta scritto: «Entrato nella sinagoga… insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc1,21-22). Gesù è un maestro di sapienza nella cui parola il pensiero, il sentimento e il volere di Dio si rendono presenti in maniera diretta, vera, efficace e decisiva per chi ascolta. Con autorità appunto. Egli non appartiene alle scuole della interpretazione della volontà di Dio, egli è il dirsi e il dire di Dio, e questo lo contraddistingue dagli scribi: «Avete inteso…ma io vi dico» dirà analogamente il Gesù di Matteo.

E il contenuto di tale volontà viene immediatamente raccontato dall’esorcismo che segue, l’ incontro-scontro tra Gesù e uno spirito impuro a cui è nota l’identità di Gesù: «Io so chi tu sei: il Santo di Dio!» (Mc1,24), e so perché ci sei: «Sei venuto a rovinarci» (Mc1,24). L’evangelista legge l’uomo come terreno di contesa tra uno spirito-demone detto impuro a motivo del suo appartenere alla sfera del male totalmente dedito a inserirvi l’uomo, e Gesù detto santo a motivo del suo appartenere alla sfera del bene totalmente dedito a inserirvi l’uomo.

Dio in Gesù è venuto a rovinare chi rovina l’uomo, un chi annidato nell’uomo e di lui padrone (Mc1,23). Uno spirito impuro a cui Gesù ordina: «Taci! Esci da lui! E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui» (Mc 1,25-26). All’evangelista preme sottolineare tre cose. La prima consiste in una visione disincantata dell’uomo nel senso che il suo profondo può essere abitato, qualunque siano i nomi che gli si voglia attribuire, da forze oscure che lo alienano dalla propria verità muovendolo verso sentieri di menzogna, l’odio che genera morte (Gv 8,44s).

La seconda è la proclamazione che Dio nel suo Santo, equivalente di Messia (Gv 6,69; At 3,14; 4,27.30), è più forte di ogni male, è potenza di Dio al cui «esci» segue l’»uscì». E in questo sta l ’insegnare con autorità, il proferire una parola che fa accadere quanto dice, parola che al contempo è ingiunzione di silenzio: «Taci», non è ancora giunto il tempo dei pieni svelamenti della identità di Gesù. Inoltre, detto per inciso, è bene che taccia ora e in ogni tempo una confessione di fede radicalmente sganciata dall’amore e dalla sequela.

Lo spirito impuro è dottrinalmente perfetto, inappuntabile dal punto di vista dell’ortodossia cristologica, ed è diabolicamente perfetto nel volere lucidamente stravolgerla. Infatti confessare Gesù il Santo di Dio è proclamarlo traduzione della passione d’amore di Dio per l’uomo, cosa programmaticamente detestata dal male che fa di tutto per spegnerne la presenza e il messaggio nel cuore dell’uomo felice della rovina dell’uomo.

Diabolico è il sapere ciò che è vero e il sapere di volere negarlo ad occhi aperti. In questa prospettiva la lotta tra Gesù il bene e il male è senza quartiere, e l’uomo ne è il diretto interessato. La terza cosa infine che Marco vuole sottolineare è lo stupore dei presenti nella sinagoga: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità» (Mc1,27). La novità di una parola che con autorità comanda a chi ha sempre comandato rendendo l’uomo panno sporco.

  1. Questo avvenimento accadde di sabato, il giorno consacrato alla proclamazione della parola di Dio nella Legge e nei profeti, e in una sinagoga, il luogo del raduno assembleare per l’ascolto della parola di Dio; questo avvenimento accade oggi di domenica in ogni assemblea attraverso la lettura. Siamo ancora capaci di stupirci di una parola potente che ove accolta è in grado di dire «esci» al male oscuro che impedisce il dilatarsi e l’esprimersi in verità secondo le proprie potenzialità?

Siamo ancora capaci di riconoscere in Gesù il medico della nostra interiorità malata? Il sole che chiede ospitalità nella zona d’ombra di ciascuno per guarirla dagli spiriti impuri che la abitano? Il culto di sé, del denaro, del successo, del possesso incontinente di corpi e di merci, del non senso, del demoniaco e ancora di sensi di colpa che straziano legando il presente a un passato che impedisce futuri diversi.

Lista breve di un lungo elenco a cui è buona notizia un Dio che in Gesù viene a liberare il tuo cuore da ogni spirito impuro, da ogni pensiero, sentimento desiderio e volere non abitati dal sapersi e dal volersi presenza di bene per l’uomo. La qualità della cui vita dipende da chi e da che cosa lo abita.

(Giancarlo Bruni)

 

L’enigma del male

«Dobbiamo essere consapevoli», dice Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, «che siamo fragili, esposti al grande enigma del male. Non ci sono per l’uomo luoghi sicuri, “paradisi”. Coscienti del nostro limite, dobbiamo respingere ogni pretesa di onnipotenza. Non si tratta, per questa catastrofe, di incolpare Dio, ma neanche noi uomini. Con la fede, possiamo dire che Dio vuole vincere il male con noi, e l’esito finale sarà la trasfigurazione dell’universo».

(Da «Famiglia Cristiana», 2005, 3).

 

Sofferenza materia prima della redenzione

Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.

Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.

Tu dici del tuo amico:

lo porto nel mio cuore,

mi vergogno per lui del suo peccato,

la sua sofferenza mi fa male.

È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.

Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito. Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.

Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, «cancellali», le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia morte. Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzione.

(M. QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).

 

Si stupivano della sua dottrina

Entrarono in Cafarnao, e subito, entrato di sabato nella sinagoga insegnava loro, insegnava affinché abbandonassero gli ozi del sabato e cominciassero le opere del Vangelo. Egli li ammaestrava come uno che ha autorità, non come gli scribi. Egli non diceva, cioè «questo dice il Signore», oppure «chi mi ha mandato così parla»: ma era egli stesso che parlava, come già prima aveva parlato per bocca dei profeti. Altro è dire «sta scritto», altro dire «questo dice il Signore», e altro dire «in verità vi dico».

Guardate altrove. «Sta scritto — egli dice — nella legge: Non uccidere, non ripudiare la sposa». Sta scritto: da chi è stato scritto? Da Mosè, su comandamento di Dio. Se è scritto col dito di Dio, in qual modo tu osi dire «in verità vi dico», se non perché tu sei lo stesso che un tempo ci dette la legge? Nessuno osa mutare la legge, se non lo stesso re. Ma la legge l’ha data il Padre o il Figlio? […] Qualunque cosa tu risponda, l’accetterò volentieri: per me, infatti, l’hanno data ambedue. Se è il Padre che l’ha data, è lui che la cambia: dunque il Figlio è uguale al Padre, poiché la muta insieme a colui che l’ha data. Se l’uno l’ha data e l’altro la muta è con uguale autorità che essa è stata data e che viene ora mutata: infatti nessuno che non sia il re può mutare la legge.

Si stupivano della sua dottrina. Perché, mi chiedo, insegnava qualcosa di nuovo, diceva cose mai udite? Egli diceva con la sua bocca le stesse cose che aveva già detto per bocca dei profeti. Ecco, per questo si stupivano, perché esponeva la sua dottrina con autorità, e non come gli scribi. Non parlava come un maestro, ma come il Signore: non parlava per l’autorità di qualcuno più grande di lui, ma parlava con la sua propria autorità. Insomma egli parlava e diceva oggi quello che già aveva detto per mezzo dei profeti. «Io che parlavo, ecco, sono qui» [Is 52,6].

(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2)

 

Il silenzio di Dio

Il problema del male con la sua enorme portata di sofferenza prova a fondo la fiducia in Dio del credente e «…molti si arrestano perché dicono: Forse c’è qualcuno là di sopra, però se ci fosse davvero tanto male non ci sarebbe, dunque… Qui la fede entra nella sua agonia più profonda» è posta di fronte al silenzio di Dio e sembra non aver attenuanti, non aver parole che siano sufficienti, appare… «intrinsecamente insicura, non è fondata, come diceva Agostino: la mia fede non è fondata, non è un fondamento, la mia fede sta appesa alla croce. La mia fede non da alcuna sicurezza. L’esperienza del silenzio di Dio conduce sull’orlo del «forse», un «forse» che per Andrè Neher «sta all’inizio della silenziosa vertigine della libertà»».

(C.M. MARTINI, Prima sessione della Cattedra dei non credenti, 1987).

 

L’uomo vicino alla finestra

Due uomini, entrambi molto malati, occupavano la stessa stanza d’ospedale. A uno dei due uomini era permesso mettersi seduto sul letto per un’ora ogni pomeriggio per aiutare il drenaggio dei fluidi dal suo corpo. Il suo letto era vicino all’unica finestra della stanza. L’altro uomo doveva restare sempre sdraiato. Infine i due uomini fecero conoscenza e cominciarono a parlare per ore. Parlarono delle loro mogli e delle loro famiglie, delle loro case, del loro lavoro, del loro servizio militare e dei viaggi che avevano fatto. Ogni pomeriggio l’uomo che stava nel letto vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando al suo compagno di stanza tutte le cose che poteva vedere fuori dalla finestra. L’uomo nell’altro letto cominciò a vivere per quelle singole ore nelle quali il suo mondo era reso più bello e più vivo da tutte le cose e i colori del mondo esterno. La finestra dava su un parco con un delizioso laghetto. Le anatre e i cigni giocavano nell’acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo. Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c’era una bella vista della città in lontananza. Mentre l’uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l’uomo dall’altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immaginava la scena.

In un caldo pomeriggio l’uomo della finestra descrisse una parata che stava passando. Sebbene l’altro uomo non potesse vedere la banda, poteva sentirla. Con gli occhi della sua mente così come l’uomo dalla finestra gliela descriveva. Passarono i giorni e le settimane. Un mattino l’infermiera del turno di giorno portò loro l’acqua per il bagno e trovò il corpo senza vita dell’uomo vicino alla finestra, morto pacificamente nel sonno. L’infermiera diventò molto triste e chiamò gli inservienti per portare via il corpo. Non appena gli sembrò appropriato, l’altro uomo chiese se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra. L’infermiera fu felice di fare il cambio, e dopo essersi assicurata che stesse bene, lo lasciò solo. Lentamente, dolorosamente, l’uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno. Si sforzò e si voltò lentamente per guardare fuori dalla finestra vicina al letto. Essa si affacciava su un muro bianco. L’uomo chiese all’infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori da quella finestra. L’infermiera rispose che l’uomo era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro. ”Forse, voleva farle coraggio.” disse.

 

Di fronte a fenomeni come la guerra in Terra Santa, il male, la sofferenza, come si può spiegare l’Amore misericordioso del Creatore?

Intervista al Padre Aurelio:

«Da sempre la sofferenza è la grande e inquietante domanda che sfida la fede in un Dio buono. È significativo che proprio nella terra del Santo, dove il Signore ha scritto la sua storia di amore e alleanza con un popolo da Lui scelto in vista della salvezza di tutti, proprio in quella terra la pace sembra non aver mai trovato casa. Dai tempi dei patriarchi, all’Esodo e all’entrata in quella terra, come in tutta la storia successiva, il popolo di Israele sembra non avere mai avuto pace.

Ben si addice il pianto e lamento di Gesù sopra Gerusalemme: “Oh, se tu, proprio tu, avessi riconosciuto almeno in questo tuo giorno le cose necessarie alla tua pace! Ma ora esse sono nascoste agli occhi tuoi” (Lc 19,42).

Dio ha fatto buone tutte le cose, come afferma il ritornello alla fine di ogni giorno della creazione: “E Dio vide ciò che aveva fatto ed era cosa buona” (cfr. Gen 1). La Parola del Signore risponde al mistero del male che lacera l’umanità, non con una teoria, ma con la sottolineatura di quella libertà che gli uomini, cedendo al tentatore, hanno indirizzato al male anziché al bene, cadendo così nella maledizione (cfr. Gen 3).

Eppure è proprio di fronte a questa estrema miseria che si rivela l’infinita misericordia di Dio. S. Paolo la riassume in una frase: “Dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia”. Il Signore si è messo da subito alla ricerca della pecora smarrita (“Adamo, dove sei?”): con una pazienza e tenerezza immensa, parlando e intervenendo molte volte e in diversi modi, per mezzo dei suoi inviati e attraverso gli eventi della storia.

Un amore gratuito che si è rivelato in modo sommo e inimmaginabile nell’incarnazione del Figlio di Dio. Tutta la vita di Gesù, soprattutto la sua morte e risurrezione è la risposta definitiva di Dio al perché della sofferenza e del male del mondo. “Dio è amore”, ed è la lontananza da Lui che precipita l’uomo nella morte del male, dell’odio, della violenza cieca. “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!”, dirà Gesù morente sulla croce, croce che concentra tutto il male fisico, morale e spirituale che c’è nel mondo.

Lui ha voluto prendere su di sé questo male e sconfiggerlo con la Risurrezione, rivelando così che l’Amore e la Vita di Dio, sono più grandi del peccato, dell’odio, di ogni forma di male.

(Intervista fatta da Zenit al padre Aurelio Pérez, Superiore generale dei Figli dell’Amore misericordioso (FAM), 13 gennaio 2009).

 

Le preghiere della vita

Tu che vuoi che vinciamo il male con il bene e che preghiamo per chi ci perseguita abbi pietà dei miei nemici, Signore, e di me; e conducili con me nel tuo regno celeste.

Tu che gradisci le preghiere dei tuoi servi, gli uni per gli altri, ricorda la tua grande benevolenza: abbi pietà di coloro che si ricordano di me nelle loro preghiere e che io ricordo nelle mie.

Tu che guardi alla buona volontà e alle opere buone, ricordati, Signore, come se ti pregassero, di quelli che per giusta ragione, per piccola che sia, non dedicano un tempo alla preghiera.

Ricorda Signore, i bambini, gli adulti e i giovani, i maturi e i vegliardi, gli affamati, gli assetati e gli ignudi, i malati, i prigionieri e gli stranieri, i senza amici e i senza sepoltura, i vecchi e i malati, i posseduti dal demonio, i tentati di suicidio, i torturati dallo spirito immondo, i disperati e i dubbiosi nell’anima e nel corpo, i deboli, i sofferenti in prigionie e tormenti, i condannati a morte; gli orfani, le vedove, i viandanti, le partorienti e i lattanti, chi si trascina nella schiavitù, nelle miniere e nei ceppi, o nella solitudine.

(Lancelot Andrewes, in Le preghiere dell’umanità, Brescia, 1993).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA TEMPO ORD ANNO B