Film: La quattordicesima domenica del tempo ordinario

Valutazione

Consigliabile, poetico, Problematico, Adatto per dibattiti
Tematica
Alcolismo, Amicizia, Amore-Sentimenti, Anziani, Dialogo, Dolore, Donna, Famiglia, Famiglia – genitori figli, Malattia, Matrimonio – coppia, Metafore del nostro tempo, Musica, Politica-Società, Povertà, Tematiche religiose
Genere
Drammatico, Sentimentale
Regia
Pupi Avati
Durata
98′
Anno di uscita
2023
Nazionalità
Italia
Titolo Originale
La quattordicesima domenica del tempo ordinario
Distribuzione
Vision Distribution
Soggetto e Sceneggiatura
Pupi Avati
Fotografia
Cesare Bastelli
Musiche
Sergio Cammariere, Lucio Gregoretti
Montaggio
Ivan Zuccon
Produzione
Antonio Avati, Santo Versace, Gianluca Curti. Casa di produzione: Duea Film, Minerva Pictures, Vision Distribution

Interpreti e ruoli

Gabriele Lavia (Marzio), Edwige Fenech (Sandra), Lodo Guenzi (Marzio da giovane), Camilla Ciraolo (Sandra da giovane), Massimo Lopez (Samuele), Nick Russo (Samuele da giovane), Cesare Bocci (Padre di Marzio)

Soggetto

Bologna anni ’70, Marzio, Samuele e Sandra sono tre ventenni pieni di ambizioni: i due ragazzi sognano un futuro nella musica e fondano il gruppo “I Leggenda”, mentre Sandra ha come obiettivo la moda. I loro percorsi si intrecciano, tra pagine di amicizia e amore. Con il passare del tempo, però, sogni e legami mutano di tonalità e forma. Anni dopo, Marzio, Samuele e Sandra si ritrovano, chiamati a fare i conti con guadagni e irrisolti…

Valutazione Pastorale

Ha diretto oltre 50 film tra grande e piccolo schermo, misurandosi con un’ampia varietà di generi. È Pupi Avati, uno dei maestri del cinema italiano contemporaneo, che ha raffinato la sua marca stilistica soprattutto nel racconto della memoria del passato, dell’Italia del XX secolo, tra tradizioni contadine e spinte socio-culturali legate al boom economico. Avati è diventato il cantore dello spirito di un Paese proteso verso il domani, ma con un occhio rivolto sempre al ricordo dolce e malinconico del passato. Ora il regista bolognese è nei cinema con “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, produzione Duea Film, Minerva Pictures in collaborazione con Sky, nei cinema italiani con Vision Distribution. La storia. Bologna anni ’70, Marzio (Lodo Guenzi), Samuele (Nick Russo) e Sandra (Camilla Ciraolo) sono tre ventenni pieni di ambizioni: i due ragazzi sognano un futuro nella musica e fondano il gruppo “I Leggenda”, mentre Sandra ha come obiettivo la moda. I loro percorsi si intrecciano, tra pagine di amicizia e amore. Con il passare del tempo, però, sogni e legami mutano di tonalità e forma. Anni dopo, Marzio (Gabriele Lavia), Samuele (Massimo Lopez) e Sandra (Edwige Fenech) si ritrovano, chiamati a fare i conti con guadagni e irrisolti… “Il tempo ordinario – ha sottolineato Pupi Avati – indica quel momento del calendario liturgico in cui generalmente ci si sposa. E quel giorno di giugno del 1964 rappresenta per me una grande felicità: dopo quattro anni di corteggiamento la ragazza più bella di Bologna finalmente diventava mia moglie”. “Avevo la sensazione – ha aggiunto – che nella mia filmografia mancasse un’opera simile, di confidenze. Pertanto, ho realizzato questo film dove c’è molto di me”. Avati compone dunque un’opera dove i fili della memoria si annodano con quelli del racconto di finzione, una storia che esplora la stagione del sogno giovanile acceso da desiderio di gloria e mosso da energie pulite, approdando poi in età adulta, dove le sfumature diventano dolenti e cupe. Il regista mette a tema il senso di fallimento, la disillusione che abita la stagione avanzata della vita; e lo fa con coraggio e delicatezza, abile nel cogliere stati d’animo e nel dare forma ai rimpianti. Anche se la storia non sembra sempre bene a fuoco, del tutto solida e compatta nei vari passaggi temporali, il film si rivela onesto e generoso, denso di sfumature di sentimento, di pagine esistenziali. È lo sguardo di una grande autore, che rilegge se stesso in una rielaborazione poetica e divulgativa. Consigliabile, problematico-poetico, per battiti.

Utilizzazione

Indicato per la programmazione ordinaria e per successive occasioni di dibattito.

 

In dialogo con Pupi Avati: “Il discorso della montagna è la mia Costituzione”

Giovedì 11 Maggio 2023

Un articolo di: Sergio Perugini

Dal 4 maggio è nei cinema “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, il nuovo film di Pupi Avati, con Gabriele Lavia, Edwige Fenech e Lodo Guenzi, che si è già posizionato tra i primi del box office. Avati è uno dei maestri del cinema italiano, che si è sempre distinto per la capacità di raccontare memoria e tradizioni del Paese muovendosi tra realismo e poesia, alternando pagine di diffusa dolcezza a sguardi malinconici. Autore di oltre 50 titoli tra grande e piccolo schermo nel corso di cinque decenni – “Il cuore altrove”, “Gli amici del bar Margherita”, “Un matrimonio”, “Lei mi parla ancora” e “Dante” -, ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui 3 David di Donatello e 7 Nastri d’argento. Lo abbiamo incontrato per una riflessione sul cinema, tra vis poetica e dimensione del Sacro. Agenzia SIR-Cnvf.

Lei ha dichiarato che “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” è molto personale. Ci vuole spiegare perché?
Vado ad affrontare un arco narrativo molto lungo, che parte dalla mia primissima adolescenza, quando – come tutti – avevo l’ardire di poter attendere dalla vita cose straordinarie. Pensavo che la musica mi desse quella possibilità di raccontarmi, persino di essere famoso. Da lì la parabola si spinge all’oggi, dove con lucidità e serenità comprendo che la maggior parte della mia vita è ormai trascorsa. Così, come un drone, ho sorvolato i miei ricordi, cercando di capire cosa abbia parametrato i momenti più felici.

L’unità di misura della felicità?
Il giorno del mio matrimonio, quando mi trovai a poter sposare quella ragazza che avevo corteggiato per 4 anni. Mi sembrava che quella giornata fosse di una felicità senza pari. Posso affermare che lo è ancora. La temperatura della mia gioia di quel giorno penso di non averla mai più raggiunta. Ho ritenuto giusto rendicontarlo attraverso il cinema, sottolineando anche la distanza che spesso sperimentano le persone tra le loro aspettative e ciò che poi accade nella realtà.

Fa riferimento al personaggio di Marzio?
Sì. Nello specifico, però, c’è un aspetto fondamentale della storia che riguarda il ritrovarsi con una donna, Sandra – interpretata da adulta da Edwige Fenech –, che manifesta una capacità di rimuovere ciò che va rimosso, di saper ricominciare. Una donna che dipinge le pareti di casa di blu, una metafora che indica ancora fiducia nella vita, nel domani.

Anche in quest’opera ricorrono immagini e temi religiosi. Che rapporto ha con il Sacro? E quali le sfide nel proporlo sullo schermo?
Una volta eravamo in due, perché c’era Ermanno Olmi. Adesso mi sembra di essere rimasto solo… Giorni fa facevo una considerazione in pubblico, raccontando un passaggio del film quando alla protagonista Sandra viene diagnosticato un carcinoma ovarico e Marzio, dinanzi a questa situazione così complessa dove la scienza dimostra dei limiti, reagisce entrando in una chiesa per pregare. Si rivolge al trascendente in cerca di consolazione, di un aiuto, di ascolto e conforto. Ho chiesto alla platea se ricordasse un film recente con una scena simile, ma nessuno ha saputo rispondere. Allora mi viene da pensare di essere una sorta di eccezione. Nel film racconto anche la ricomposizione di un matrimonio dopo 37 anni: sono tutti elementi che vengono dal mio retroterra, dalla cultura cattolica, valori per me fondamentali. E continuo ostinatamente a riproporli, esponendomi a volte al dileggio. Credo comunque di manifestare una certa coerenza, non cedendo alle mode di un “proselitismo laico”, che priva della possibilità di intuire che ci sia dell’altro. Al mistero della vita e della morte la scienza ancora non riesce a dare risposte. E anche io mi domando sempre se sono riuscito a dare un senso alla mia vita.

Ci spieghi meglio.
Ultimamente ho registrato un’inversione di polarità nei riguardi della gioia: è molto più bello donarla, che riceverla. Prenda come paradigma il nostro modo di fare cinema, come ci rivolgiamo agli attori: io abitualmente vado a cercare non gli attori di tendenza, ma chi è stato emarginato, dimenticato o non ha ricevuto determinate opportunità. È il “Discorso della montagna”, “Le beatitudini”, il momento più alto del Vangelo, che rileggo tutte le sere: è la mia Costituzione. È la cosa più bella che ci sia, pronunciato da un ragazzo di duemila anni fa indicando come l’essere umano dovrebbe comportarsi nei riguardi del mondo, del prossimo.

Lei è uno dei cantori della memoria del Paese, abile nel rileggere pagine sociali e tradizioni. Che valore hanno per lei?
Sono fondamentali. Stiamo rimettendo in discussione tutto. Pensi alla famiglia, prenda per esempio la figura paterna, che di fatto si è defilata, dimessa, deresponsabilizzata. Pensi al fatto che è stata rimossa la locuzione avverbiale “per sempre”: non sentirà nessuno dire “per sempre” nei rapporti, nel matrimonio. Viviamo nella precarietà dei legami, non diciamo più “mio marito” o “mia moglie”, bensì il “mio compagno” o “la mia compagna”. È il tratto di una precarizzazione dei rapporti. Sarò probabilmente un vecchio “conservatore”, ma rivendico la qualità della vita attraverso una correttezza dei rapporti e nel rispetto degli altri.

Nel 2022 ha firmato il ritratto del sommo poeta, “Dante”. Che significato ha avuto tale progetto?
Non ho fatto altro che fare mia la lezione di Roberto Rossellini. Era un autore che aveva questo atteggiamento, sapeva ampliare la conoscenza delle cose, anche in tarda età. Così è accaduto a me: sono arrivato tardi alla bellezza del sapere, a trent’anni, perché nella prima parte della mia vita c’era la musica. Ho scoperto il piacere dello studio e ho deciso di condividerlo grazie al cinema. E che gioia ritrovare Dante, un Dante diverso da quello dei banchi di scuola. L’ho voluto far scendere dal piedistallo, renderlo prossimo, con un atto di riconoscenza risarcitoria. Sono orgoglioso che tanti ragazzi nelle scuole abbiano visto il film. Mi sconforta solo che in questi giorni l’Accademia del cinema italiano (Premi David di Donatello) non lo abbia considerato: è candidato solo per il trucco, per il naso di Dante. Io di certo continuo ad andare avanti, ma confesso che è un po’ faticoso. A tratti ci si sente soli, anche nei riguardi del mondo cattolico, di una certa comunicazione cattolica.

Ha ancora storie da realizzare?
Fortunatamente non ho sogni nel cassetto. Sin dai primi film, molto sessantottini, che oggi rimpiango come risultato dell’insipienza, perché non conoscevo bene il mezzo – Ingmar Bergman diceva che solo dopo 7 film aveva realizzato un’opera che gli assomigliasse –, sono riuscito a essere coincidente con il mio cinema. Non è presunzione, ma semplicemente consapevolezza di quello che faccio. Non ho particolari storie da raccontare, perché ho sempre proposto tutti gli anni la storia che desideravo. Non ho mai aderito ai salotti, all’“amichetteria” per dirla alla Fulvio Abbate, perché sono stato sempre molto “alternativo”. Non ho la frustrazione di film non realizzati. Per fare “Dante” ho impiegato 20 anni, ma alla fine ci sono riuscito.

 

 

Commissione Nazionale valutazione film CEI