Da più parti si comincia a pensare al “dopo”. È presto, ma è anche il modo di non rassegnarsi al presente, di guardare avanti, senza correre, “restando a casa” ma non semplicemente da prigionieri. Questo esercizio di immaginazione, per non essere una fuga, chiede di cominciare a pensare al dopo elaborando il presente, quello che ci sta succedendo.
Da parte mia, non sono certo in grado di prefigurare scenari per il mondo o per la Chiesa.[1] Provo a farlo dal punto di vista di una parrocchia, e delle sue pratiche pastorali che, in questa “sospensione”, sono state messe in discussione, chiedono e possono essere ripensate.
Dopo, che cosa succederà? Torneremo semplicemente a fare le cose di sempre, le liturgie di sempre, il catechismo ecc.? Già prima avevamo la percezione che si dovessero ripensare le pratiche pastorali in nome di un cambiamento d’epoca che stiamo vivendo e nella direzione di una Chiesa “in uscita” come piace dire a Francesco. Ma temo che l’inerzia sarà forte se non sorretta da un pensiero che non faccia passare inutilmente il tempo che stiamo vivendo.
Ho provato allora a fare un semplice esercizio: penso a che cosa è successo al mio ministero di prete in questo tempo sospeso, a come ho dovuto ripensare tutto e rinnovare il modo di accompagnare il cammino di fede della mia comunità. Lo faccio seguendo un ordine quasi cronologico, nel senso che sono le prime cose che mi sembrava mi chiamassero ad agire e a pensare.
L’evidenza della liturgia
La prima evidenza è stata la mancanza dell’eucaristia, in particolare delle celebrazioni domenicali. Come poteva resistere una parrocchia senza l’eucaristia? Che cosa potevo fare io come prete? E già questa è una indicazione preziosa: ci siamo accorti – lo sapevamo, ma forse non così fortemente – che «è l’eucarestia che fa la Chiesa» (secondo l’adagio di un mio saggio professore di teologia), che quel gesto di lasciarci radunare dal Signore è costitutivo, che la fede si vive e si trasmette celebrandola. Abbiamo percepito meglio l’evidenza che l’eucaristia non è una devozione individuale ma un atto comunitario.
Che cosa fare allora? Molti preti si sono buttati a pesce nella strada della trasmissione via streaming delle messe che continuavano a celebrare anche “in assenza di popolo”. Il mio istinto è stato diverso: se il popolo digiuna, digiuno anch’io. Imparo a vivere in attesa, perché senza l’assemblea presente con i corpi e i volti, la celebrazione è monca. Non che sia sbagliato celebrare senza popolo, e infatti, dopo un po’ di settimane, abbiamo deciso di celebrare una volta alla settimana per il popolo – intercedendo per tutti e a suffragio dei defunti – anche per non trasformare questa posizione in un assunto ideologico.
D’altra parte, ho fortemente evitato la trasmissione della messa in streaming. Cosa lecita, certo, e i preti che lo hanno fatto hanno le loro buone ragioni. Ma due cose mi hanno trattenuto: la prima è che mi sembrava sbagliato incrementare la pratica che alla messa si possa “assistere” (termine caro al rito tridentino) come ad uno spettacolo. Dove per altro il prete sembra cercare ancora un ruolo di protagonista che alimenta un certo clericalismo. Alla messa non si assiste, si celebra, si partecipa attivamente.
E poi: esiste solo la messa? Per questo – è la seconda ragione – ho pensato di investire le mie energie nell’aiutare i credenti a “celebrare” nelle case, preparando sussidi, fornendo anche qualche audio che facesse presente la voce della comunità in ogni casa, suggerendo magari di celebrare insieme con le piattaforme che oggi permettono di connettersi con più famiglie. È stato un vero e proprio lavoro, che ha chiesto a me una cura per la celebrazione – e non solo per l’omelia – che normalmente non mettevo in opera; e che ha chiesto ai credenti di attivarsi per celebrare: preparando il luogo, i segni, i tempi… Chi lo ha fatto credo sia cresciuto nel suo vissuto di fede.
Aggiungo un’osservazione circa la predicazione. Pensarla per chi celebra nelle case (con uno scritto e con un audio) mi ha aiutato a contestualizzare molto il commento alla Parola. Accorgendomi come questo tempo di prova è anche un tempo particolarmente intenso, e di come il vissuto della mia gente i loro racconti, le loro vicissitudini, fornissero quel materiale umano condiviso che permetteva di ascoltare in modo nuovo la Parola. Un solo esempio: difficile dire qualcosa su una pagina come la morte di Lazzaro, l’iniziale distanza di Gesù, senza pensare a tutti coloro che stavano vivendo la morte di persone care “a distanza”.
La vita, se la si ascolta e se ci si lascia ferire da essa, amplifica la Parola, dona carne viva alla sua presenza. Sono stato in questi giorni molto debitore alle parole che i racconti mi hanno affidato nelle prove della vita. Non dovrebbe essere sempre così? Non dovremmo preparare insieme la celebrazione di ogni domenica, celebrare insieme il mistero di Cristo dentro le nostre vite?
L’urgenza della carità
Subito si è contemporaneamente imposta una urgenza: che fare per i poveri? All’inizio, quando la sospensione sembrava temporanea, si è fermata la rete di aiuti per le famiglie in difficoltà. Ma non è stato possibile farlo a lungo. I poveri non aspettano, bussano, e sono spesso le persone che per prime pagano il prezzo di una crisi. Così, grazie all’iniziativa di un prete della parrocchia, la rete si è riattivata con nuove modalità: la disponibilità a fare la spesa per chi non poteva uscire di casa; un numero sempre attivo per il Centro di ascolto; l’arrivo di nuovi volontari; l’utilizzo dei social media per contattare e tenere in rete i bisogni; il legame con gli altri Centri di ascolto coordinandosi meglio…
Abbiamo scoperto nuovi modi di stare vicino alle persone in difficoltà e nuove risorse e disponibilità inaspettate di tante persone di buona volontà. La parrocchia si è nuovamente scoperta come un presidio sul territorio molto attento, anche più vicino delle istituzioni civili, al punto che queste, nel tempo di emergenza, fanno riferimento alla parrocchia per avere il polso della situazione reale. Un patrimonio che servirà tantissimo per il futuro. Tutto non sarà come prima.
La catechesi sospesa?
Un capitolo a parte riguarda la catechesi e tutti gli appuntamenti di formazione. Come giustamente qualcuno ha fatto osservare, l’impressione è che la catechesi sia stata semplicemente sospesa: «All’inizio la catechesi è stata quasi senza parole, la liturgia si è mossa prima (…) Per la catechesi, invece, la chiusura delle scuole ha significato la sua chiusura (…) Messaggi del tipo: “la catechesi è sospesa fino a quando la scuola è sospesa”».
È stato proprio così? Certo, le forme normale di catechesi sono state sospese, perché chiedevano il radunarsi di più persone in luoghi chiusi. Ma forse è nato inconsapevolmente un modo nuovo di formare un pensiero a partire dalla fede.
In questi giorni è nata l’esigenza di interpretare il tempo che stiamo vivendo. Una sete, un desiderio di riflessioni, pensieri, interpretazioni che, alla luce della fede, aiutassero a dare un senso, a trovare una saggezza, a tenere viva una speranza, a vivere da credenti il tempo perché diventasse un’occasione, un tempo di grazia.
Questo desiderio ha trovato nuove vie di comunicazione: sono circolate riflessioni, articoli, testimonianze, che poi le persone facevano circolare per mezzo dei social media. Ancora una volta la tecnologia insieme aiuta e rende tutto più difficile.
Nella rete circola anche molta spazzatura, anche molta spazzatura religiosa, forme di “devozionalismo selvaggio”. Abbiamo allora creato dei gruppi whatsApp – alcuni nati spontaneamente tra parrocchiani – che avessero cura di selezionare testi e riflessioni di qualità. Da qui sono nati pensieri e articoli che poi abbiamo raccolto nel giornale parrocchiale in due edizioni speciali nel tempo del Coronavirus. Anche in questo caso – come nella liturgia – la formazione non è stata più a senso unico (il prete parla e gli altri ascoltano) ma si è ingenerato un circolo dove i parrocchiani erano soggetti attivi.
Io stesso ho imparato a misurare i miei interventi (non troppo per non intasare e occupare tutto lo spazio) e mi sono preoccupato di fare una cernita mettendo in circolo il meglio di quello che leggevo (una sorta di ascesi del pensiero). A partire da questi spunti nasce anche il desiderio di confrontarsi, di incontrarsi – per ora via internet – per scambiare le impressioni e le riflessioni, insieme o a piccoli gruppi. Non è forse questa una forma di catechesi? Non potrebbe ispirare nuove modalità di formare un pensiero alla luce della fede? Tutto non potrà essere come prima.
Le relazioni come rete
La terza dimensione è quella comunitaria. Come tenere insieme una parrocchia nel tempo della dispersione? In realtà questo tempo rivela una verità già presente prima: il carattere fragile dell’appartenenza comunitaria. Eravamo già una comunità dispersa, ora lo sentiamo e lo comprendiamo meglio. Quindi, la prima risposta è quella di reggere la mancanza.
«Non possiamo pensare di sconfiggere l’assenza ignorandola, deridendola, scherzandoci, trasgredendola, surrogandola virtualmente. Possiamo solo riconoscerla e darle un significato: tu mi manchi davvero, ma io ti aspetto. Non potrebbe essere questa la consolazione che ci è regalata in questi giorni? La cosa più brutta che ci potrebbe succedere è quando una persona si sente in solitudine e sa che nessuno l’aspetta. La carità di questo periodo potrebbe esprimersi nello scambiarsi piccoli riti che ci ricordano che siamo soli, ma attesi».
Da questa mancanza è nato anche il desiderio di farsi vicini pur nella distanza. Non sono mai stato così tanto al telefono, e con conversazioni così intense, lontane dalla banalità, piene di vita. Sono stati giorni nei quali cercarsi: tra preti, con amici lontani e vicini, con i parrocchiani, sia con i collaboratori più stretti che con le persone anziane più bisognose di una parola, che con le persone che vivevano circostanze difficili (il contagio, la perdita di persone care). E questo è diventato uno stile condiviso.
Perché tutto non sia come prima
Ho chiesto che tutti facessero di questo un compito: farsi vicini, creare una rete di fraternità, far sentire a più persone che ci mancano e che le attendiamo. Anche in questo caso la fraternità non è più una preoccupazione dei soli preti, ma diventa una responsabilità di molti nella comunità. Diventa evidente ciò che è sempre vero: il senso di appartenenza, il legame fraterno in una parrocchia passa non solo dai preti, ma dalla qualità delle relazioni che ogni credente impara a costruire come responsabilità verso tutta la comunità.
Non so come riprenderemo il cammino al termine di questa pandemia. So che il dopo comincia adesso, che quello che stiamo imparando segna una traccia che ci insegnerà quali percorsi reinventare, che cosa potremo cambiare, che cosa non sarà necessario rifare, e che cosa dovremo riscrivere in modo nuovo. Il domani comincia oggi.
[1] Ho trovato molto stimolanti le riflessioni di alcuni e-book (iniziativa lodevole) di due case editrici che hanno con prontezza offerto chiavi di lettura: José Tolentino Mendonça, Il potere della speranza. Mani che sostengono l’anima del mondo, Vita e Pensiero. Tomáš Halík, Il segno delle chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Vita e Pensiero; Centro Fede e Cultura “Alberto Hurtado”, Vedo la notte che accende le stelle. Sentieri in tempo di pandemia, EDB.