Come è attuale don Gaffuri, il “prete del cinema”

Negli anni Cinquanta seppe emancipare il cinema dallo sguardo un po’ sospettoso che la Chiesa gli aveva fino ad allora riservato. Attraverso il metodo critico e il cineforum. Così è riassumibile l’opera di don Giuseppe Gaffuri, scomparso 60 anni fa trentottenne. È stato ricordato lo scorso mese  in un convegno all’Università Cattolica organizzato dalla Diocesi di Milano, l’Acec (Associazione cattolica esercenti cinema) e le Sale della Comunità.

L’arcivescovo Mario Delpini ha ricordato come anche il suo paese natale, Jerago con Orago (VA), si fosse «dotato di una delle sale più grandi della provincia di Varese». In diverse parrocchie, questi saloni del cinema sono di recente stati chiusi per i costi e le restrizioni introdotte dalle normative sulla sicurezza, mentre altre sono state trasformate in sale della comunità. Oggi come allora, «il cinema, il campo da calcio, o il bar dell’oratorio – continua l’arcivescovo – possono essere vissuti come cittadelle separate dalla pastorale. Al contrario, don Gaffuri ha coniugato la passione per la cultura con quella per il Vangelo». E per questo è passato alla storia come il “prete del cinema”, l’inventore del Cineforum e della “pedagogia dello spettacolo”.

Spiega Pier Cesare Rivoltella, direttore del Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia (Cremit – www.cremit.it) della Cattolica: «Aveva intuito che leggere le immagini cinematografiche significa imparare a leggere la semiosfera in cui siamo immersi. E Gaffuri lo ha fatto in prospettiva sociale, proponendo il cineforum come spazio di educazione al pensiero critico, ma anche come scuola di partecipazione civile». Insomma, educare attraverso il cinema significava trasferire le idee del cristianesimo non in modo dogmatico, ma con la capacità di penetrare nel mondo reale della comunicazione di massa.

Il sacerdote, che insegnava religione al Liceo scientifico Vittorio Veneto, arrivò a Milano nel 1947, nella parrocchia di San Paolo. Iniziò a proporre ai parrocchiani la visione di alcuni film, finché nel 1951 il cineforum – un termine coniato dal domenicano padre Felix Morlion, all’Università Pro Deo di Roma, oggi Luiss – si trasferiva nella sala dell’istituto Gonzaga, nei pressi della Stazione Centrale. Dal 1953 divenne il Centro Studi Cinematografici, con oltre 10mila spettatori l’anno e una programmazione che si differenziava in base all’età e al pubblico.

Intanto Gaffuri, direttore del Centro, organizzava corsi di formazione per coloro che conducevano i cineforum, girava l’intera diocesi per supportare le sale parrocchiali. Proprio tornando da una di queste serate, sulla strada tra Como e Milano, morì improvvisamente in un incidente stradale, nel 1958. E commuove la testimonianza del suo autista, sceso pochi minuti prima dalla macchina del sacerdote, nel documentario “Don Gaffuri, il prete del cinema” di Simone Pizzi, proiettato nel convegno alla Cattolica. Racconta il sacerdote attraverso otto voci che costituiscono un’interessante finestra sul mondo cattolico degli anni Cinquanta: dal regista teatrale Paolo Pivetti (padre di Veronica e Irene) alla parrocchiana Maria Pia Massone e collaboratori come l’ex ministro Piero Giarda. «Il primo giorno entrò in classe – racconta un suo allievo al liceo – facendo finta di essere un handicappato, incespicava, non ci vedeva bene. Voleva vedere i comportamenti dei vari alunni».

Paolo Alfieri, esperto di storia degli oratori, ha rievocato quel periodo nella Diocesi guidata dal cardinal Schuster: «Era in corso la riflessione pedagogica sulla necessità di creare “gli oratori per i grandi”, superando una visione paternalistica sui giovani». La cronaca giornalistica, con immagini simili a quelle che anche oggi capita di sentire, restituiva l’immagine – un discorso degli adulti sui giovani – di una generazione perduta, bruciata e svogliata, ben rappresentata ne “I vitelloni” di Fellini (1953) e ne “I vinti” di Antonioni (1952). «In generale – continua Alfieri – i pedagogisti e la Chiesa guardavano con preoccupazione all’affermarsi delle sale cinematografiche a Milano». Lo stesso Schuster sosteneva che per le parrocchie il cinema, «moralmente dubbio», era come «maneggiare una rivoltella», consigliandone un «uso molto cauto».

La risposta di don Gaffuri fu abituare il giovane a sviluppare un giudizio proprio di fronte allo schermo, anche se il soggetto è convolto emotivamente. Da qui il suo metodo, scandito da tre momenti: la presentazione preliminare di un esperto, la visione del film (rigorosamente selezionato) e la proposta di alcune domande a partire dai contenuti. Diverso, ad esempio, dal metodo più direttivo usato dai salesiani, che interrompevano in più punti la visione del film per mantenere vigile lo sguardo dello spettatore.

Intanto l’educazione attraverso il cinema di Gaffuri guadagnava consensi: lo appoggia il quotidiano cattolico L’Italia, Montini che dal ’54 guida la Diocesi, la Federazione degli oratori (Fom), nel 1956 si svolge all’Università Cattolica il primo congresso dell’Acec.

Il “prete del cinema” seppe inoltre non curarsi dei giudizi moralistici di un certo tipo di critica verso film molto discussi, come “La strada” di Fellini, che, messo al bando dal circuito ufficiale, ottenne invece successi nei cineforum cattolici. Da qui lo sguardo al presente: «Ripensare – continua Pier Cesare Rivoltella, docente di Didattica e Tecnologie dell’istruzione – il valore educativo del cinema nell’attuale congiuntura culturale è di grande importanza. Come la letteratura, il cinema ha una forte iscrizione autoriale, consente di sviluppare il senso estetico, risponde alle stesse logiche narrative di cui sono oggi testimonianza i social media». 

Per il direttore del Cremit, al tempo del Web 2.0, della società visuale e della post-verità (la tendenza a far prevalere le emozioni e le convinzioni personali rispetto alla veridicità dei fatti), serve un surplus di lettura critica: «Mediare i media è un compito chiave dell’educazione in una società che ha rimosso qualsiasi mediazione inseguendo la pubblicazione immediata. Apparentemente non c’è più bisogno degli apparati per comunicare, ciascuno può pubblicare video e notizie. In realtà, lavorare nello spazio dei media, attraverso i tutor di comunità e il costrutto delle tecnologie di comunità, vuol dire tornare a ragionare di comunità, costruendo cittadinanza».

16/01/2019