Prima lettura:Isaia 53,10-11
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
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v Il presente brano dell’A.T. è stato scelto come prima lettura in considerazione del Vangelo di oggi, nel quale i figli di Zebedeo vogliono mettersi al di sopra degli altri, a differenza del Figlio dell’uomo che si abbassa volontariamente. Is 53 costituisce il quarto carme del Servo sofferente di JHWH, e fa parte della seconda parte del Libro di Isaia (il cosiddetto Deuteroisaia, capitoli 40-55, databili attorno agli anni 550-530 a.C.). Dal carme sono stati scelti quei versi che esprimono la libera e volontaria umiliazione del Servo di JHWH.
Il v. 2, letto per intero, contiene questa parte, omessa nel brano liturgico: «Non ha né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto». In linea con questa descrizione, il Servo del Signore è paragonato ad una pianta che a motivo dell’aridità del suolo presenta l’aspetto non bello di un arbusto spuntato in mezzo al deserto.
—Ecco perché è «reietto», tenuto lontano e in poco conto da parte degli uomini (v. 3), e lui stesso è «uomo dei dolori», soffrendo in mezzo al disprezzo, all’aridità, alla solitudine.
— I vv. 10-11 formano una strofa del carme, nella quale vengono evidenziate due dimensioni: da una parte l’espiazione, nel senso che il Servo soffre per gli altri, per i loro peccati (v. 110); dall’altra l’esaltazione, nel senso che Dio gli darà gloria perché ha preso su di sé tale sofferenza per gli altri. I due versi costituiscono un prezioso commento o spiegazione della parola sul riscatto pagato dal Figlio dell’uomo, alla fine del Vangelo di oggi (Mc 10,15).
Seconda lettura: Ebrei 4,14-16
Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
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v In questo brano la Lettera agli Ebrei introduce il paragone di Gesù col sommo sacerdote dell’Antica Alleanza. Paragone molto importante per i destinatari e lettori della lettera, perché a quell’epoca c’era ancora il tempio, nel quale il sommo sacerdote celebrava i riti. Del resto il sommo sacerdote era chiamato anche «Christos», unto (Lev 1,3). Sua funzione liturgica è principalmente quella del perdono dei peccati di Israele nel giorno dell’espiazione (yom hakippourim). La Lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra Cristo ed il sommo sacerdote alla luce del giorno di espiazione e del perdono dei peccati, che in esso veniva accordato a tutto il popolo.
Gesù, attraverso la risurrezione e la glorificazione «è passato attraverso i cieli» (v. 14), vale a dire è entrato nel tempio celeste, come il sommo sacerdote entra in quello terreno nel giorno dell’espiazione. Questa è la nostra confessione (homologia), corrisponde cioè alla sostanza di quello che decidiamo di credere.
— «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze...» (v. 15). A questo punto la Lett. agli Ebrei tocca il mysterium compassionis: l’incarnazione è, fondamentalmente, la com-passione, il soffrire di Dio con noi. Il nostro sommo sacerdote ha voluto soffrire con noi ed essere messo alla prova insieme a noi.
— «Accostiamoci…al trono della grazia» (v. 16). Il Santo dei santi nasconde il «trono della grazia», chiamato in ebraico kapporet (cf. Rm 3,25: «hylasterion», propiziatorio), vale a dire il coperchio di oro che si trova sull’arca dell’Alleanza con i Cherubini, sui quali Dio è presente come re assiso sul trono. La presenza di Dio è soprattutto presenza di grazia. Per questo noi possiamo avvicinarci a tale trono pieni di gioia.
Vangelo: Marco 10,35-45
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora [Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».]
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Esegesi
Gesù ha annunziato per la terza volta la sua passione e morte ai Dodici in disparte (Mc 10,32-34), usando toni molto duri e realistici: lo condanneranno a morte, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo uccideranno. Nel vangelo odierno, ad immediato seguito di quelle dichiarazioni, i due figli di Zebedeo avanzano a Gesù un’ambiziosa domanda (vv. 35 ss): questa gli dà l’occasione di approfondire ed esplicitare il tema della passione, associando ad essa la sorte dei suoi discepoli.
«Nella tua gloria» (v. 37). Giacomo e Giovanni, che furono tra i primi ad accettare la chiamata del Maestro, sono persuasi di avere un titolo in più per occupare i primi posti in quel regno messianico glorioso che, secondo la comune convinzione dei discepoli, Gesù va ad inaugurare a Gerusalemme. Nonostante i ripetuti annunci di Gesù, coltivano ancora questa aspettativa terrena di gloria e vogliono accaparrarsene i posti di onore (a destra e a sinistra del re). Non è da escludere che nell’atteggiamento dei figli di Zebedeo si riflettano anche tensioni della chiesa nascente.
— Il calice, il battesimo (v. 38). In molti testi dell’Antico Testamento e del giudaismo il «calice» era metafora delle «vertigini» e sofferenze che Dio faceva provare ai peccatori (cf. Ger 25,15; Sal 11,6: 65,9 ecc.): Nella sua preghiera al Getsemani Gesù userà la medesima immagine (14,36). Lo stesso senso evoca la parola «battesimo», ossia immersione nelle onde della sofferenza (cf. Lc 12,50). Gesù coinvolge i discepoli nella sua missione di sofferenza.
— «Per coloro per i quali è stato preparato» (v. 40). Alla risposta affermativa dei due discepoli (dovuta sempre alla loro intenzione di partecipare alla gloria, anche se attraverso le prove), il Maestro replica che essi sono sì chiamati a partecipare alla sua intronizzazione messianica, ma non in base a diritti di umana precedenza, bensì per libera e gratuita iniziativa del Padre: il verbo preparare al passivo rimanda, come spesso nei testi biblici, alla sovrana volontà di Dio.
— «Dare la propria vita in riscatto per molti» (v. 45). Gesù prende spunto dalla «indignazione» umana degli altri discepoli (v. 41), per dichiarare lo statuto fondamentale che deve regolare i rapporti della comunità ecclesiale. Egli contesta radicalmente il modello di autorità dispotico che vige tra le genti, nel mondo pagano; e propone paradossalmente come modello di autorità due figure che sono agli antipodi: il servitore e lo schiavo. Queste due immagini, però, non sono generiche. Rappresentano concretamente la scelta di Gesù: per lui «servire» vuol dire essere fino in fondo obbediente e fedele alla volontà del Padre, sulla stessa linea del «servo del Signore» di Isaia (vedi I Lett.), che si fa solidale col peccato degli uomini. Dicendo che è venuto «per dare la sua vita in riscatto» per molti, il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte: la parola «riscatto» (in greco lytron, «mezzo per sciogliere») indicava, tra le altre realtà, il prezzo pagato per liberare uno schiavo. Accettando la sua morte come atto di amore e liberazione degli uomini dalla schiavitù del peccato, Gesù consegna alla comunità dei discepoli un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella vita.
Meditazione
La tentazione del potere. Così potremmo riassumere il tema del brano evangelico di questa ventinovesima domenica. Marco riferisce un dialogo tra Gesù e i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. Siamo ancora sulla strada verso Gerusalemme e, per la terza volta, Gesù confida ai discepoli il destino di morte che lo aspetta al termine del cammino. I due discepoli, per nulla toccati dalle tragiche parole del maestro, e con una notevole durezza di cuore di fronte a Gesù si fanno avanti per chiedergli i primi posti accanto a lui quando instaurerà il regno. Dopo la confessione di Pietro a Cesarea e la discussione su chi tra loro fosse il primo, probabilmente è cresciuto un clima di rivalità tra i discepoli; e questo forse spiega l’ambizione dei due fratelli nel rivendicare i primi posti. Quanto è difficile per Gesù toccare i cuori di quei dodici che pure si era scelti e curati! I discepoli sono esperti nel sottrarsi alle esigenze dell’amore. E con un tratto di astuzia, che conosciamo bene anche noi quando si tratta di prendersi cura dei nostri affari, i due chiedono a Gesù: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». La verità è che sono davvero distanti dal pensiero e dalle preoccupazioni di Gesù, e non riescono a sintonizzarsi con lui. Non basta, infatti, stargli fisicamente vicino per comprenderlo (potremmo tradurre: non è sufficiente semplicemente frequentare la chiesa per comprendere Gesù e il suo Vangelo). È necessario ascoltarlo e obbedire giorno dopo giorno alla sua parola; e quindi seguirlo in un vero e proprio itinerario di crescita interiore. Quante volte, invece, dobbiamo constatare la nostra povertà spirituale, la nostra scarsa sapienza evangelica! E di fronte a tante nostre pretese, anche noi potremmo sentirci dire da Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete». Spesso la distanza da Gesù non ci fa comprendere le profondità del mistero del Signore e neppure le esigenze del suo amore.
Gesù, rivolto ai due, chiede: «Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». E cerca di spiegarglielo usando due simboli, il calice e il battesimo, ben noti a chi come loro frequentavano le Sante Scritture. Ambedue i simboli sono interpretati da Gesù in rapporto alla sua morte. Il calice è il segno dell’ira di Dio, come scrive Isaia: «Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice della sua ira» (Is 51,17); e Geremia dice: «Prendi dalla mia mano questa coppa di vino della mia ira e falla bere a tutte le nazioni alle quali ti invio» (Ger 25,15). Per Gesù è una metafora con la quale indica che egli prende su di sé il giudizio di Dio per il male compiuto nel mondo, anche a costo della morte. La stessa cosa vale per il simbolo del battesimo: «Tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati» (Sl 42,8). Le due immagini mostrano che il cammino di Gesù non è una folgorante e oleata carriera verso il potere. Semmai è il cammino dell’assunzione su di sé del male degli uomini, come disse il Battista: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). I due discepoli probabilmente neppure ascoltano le parole del maestro e tanto meno ne comprendono il senso. Del resto la Parola evangelica, per essere ascoltata e compresa, richiede un atteggiamento di ascolto e di preghiera. Ai due apostoli, come spesso anche a noi, non importa comprendere la Parola evangelica; quel che interessa è l’assicurazione del posto. E con sciocca semplificazione, i due rispondono: «Lo possiamo!». È la stessa superficiale faciloneria con cui risponderanno a Gesù al termine dell’ultima cena, mentre si avviano con lui verso l’orto degli Ulivi (Mt 26,35). Basta solo qualche ora, ed eccoli, assieme agli altri, abbandonare di corsa il Maestro per paura e lasciarlo nelle mani dei servi dei sommi sacerdoti.
La richiesta dei due figli di Zebedeo era ovvio che scatenasse l’invidia e la gelosia degli altri discepoli («cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni», nota l’evangelista). Gesù allora li chiamò ancora una volta tutti attorno a sé per una nuova lezione evangelica. Ogni volta che i discepoli non ascoltano le parole di Gesù e si lasciano guidare dai loro ragionamenti, si discostano dalla via evangelica e provocano liti e dissidi al loro stesso interno. È istintiva nei discepoli, come del resto in ogni persona, la tendenza a fare da maestri a se stessi, a divenire «adulti», ossia indipendenti e autosufficienti, sino al punto da fare a meno di tutti, persino di Gesù. È lo stile di questo mondo, che tutti conosciamo molto bene poiché lo pratichiamo con frequenza. Per il Vangelo è vero l’esatto contrario: il discepolo resta sempre alla scuola del maestro, rimane sempre uno che ascolta le parole evangeliche. Il discepolo di Gesù, anche se dovesse occupare posti di responsabilità, sia nella Chiesa che nella vita civile, resta sempre figlio del Signore, ossia discepolo che sta ai piedi di Gesù. Ecco perché Gesù raduna nuovamente i Dodici attorno a sé e li ammaestra: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così». L’istinto del potere — sembra dire Gesù — è ben radicato nel cuore degli uomini, anche in quello di chi spergiura di non esserne sfiorato. Nessuno, neppure all’interno della comunità cristiana, è immune da tale tentazione (si potrebbe dire che lo stesso Gesù subì la tentazione del potere, quando fu condotto dallo Spirito nel deserto). Non importa che si tratti del «grande» o del «piccolo» potere; tutti ne subiamo il fascino. È normale fare considerazioni severe su coloro che hanno il potere politico, economico, culturale; e talora è anche necessario farlo. Forse però è più facile fare l’esame di coscienza agli altri che a se stessi, in genere uomini e donne dal «piccolo potere». Non dovremmo tutti chiederci quanto spesso usiamo in modo egoistico e arrogante quella piccola fetta di potere che ci siamo ritagliati in famiglia, o a scuola, o in ufficio, o dietro uno sportello, o per la strada, o nelle istituzioni ecclesiali, o comunque altrove? La scarsa riflessione in questo campo è spesso fonte di amarezze, di lotte, di invidie, di opposizioni, di crudeltà. Ai suoi discepoli Gesù continua a dire: «Tra voi però non è così» (forse sarebbe più corretto dire: «Non sia così»). Non si tratta di una crociata contro il potere, per favorire un facile umilismo che può anche essere solo indifferenza. Gesù ha avuto potere («insegnava come uno che ha autorità», scrive Matteo 7,29), e lo ha concesso anche ai discepoli («Diede loro potere sugli spiriti impuri», si legge in Marco 6,7). Il problema è di quale potere si parla, e comunque di come lo si esercita. È il potere dell’amore. Gesù lo spiega non solo con le parole quando afferma: «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore», ma con la sua stessa vita. Dice di se stesso che «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Così deve essere per ogni suo discepolo.
Sia la prima che la seconda lettura ci spiegano come il potere di Gesù sia quello di un uomo che ha preso «parte alle nostre debolezze», lui che «è stato prostrato con dolori» e ci ha salvato con il dono della sua vita. È lui il Sommo Sacerdote, che ci permette di entrare in comunione con Dio e di imparare da lui la via del servizio: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno».
L’immagine della domenica
Spirito Santo,
aiutami a rendere
l’ambiente del servizio
più umano e cristiano
perché aiuti tutti a ritrovarci fratelli.
(Card. Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).
Preghiere e racconti
Comunità alternativa
«La Chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modelli e relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa. Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementante dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco».
(Card. C.M. Martini)
Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date
Ti offro, Signore, il mio servizio
lo affronto serenamente con il Tuo aiuto,
per la Tua gloria, come collaborazione
all’opera creatrice del Padre
per il benessere di tutti.
Cristo, insegnami a pensare al mio servizio,
non soltanto come una fatica,
ma come occasione
per servire amando il mio prossimo
e così incontrare Te,
che mi hai redento e vegli su di me.
Spirito Santo,
aiutami a rendere l’ambiente del servizio
più umano e cristiano perché aiuti
tutti a ritrovarci fratelli.
(Card. Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).
Preghiera per il servizio
Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli
che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi;
dà loro il pane quotidiano
insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace,
affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio,
lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia,
l’armonia dove c’è la discordia,
la verità dove c’è l’errore,
la fede dove c’è il dubbio,
la speranza dove c’è la disperazione,
la luce dove ci sono ombre,
e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata,
di capire, e non di essere capita,
e di amare e non di essere amata,
perché dimenticando se stessi ci si ritrova,
perdonando si viene perdonati
e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta)
Rinascere dalle ceneri del tuo dolore
Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi. La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale. Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato. Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione. Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore. Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza. Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino. Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa. Guardati allo specchio. Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune. Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri. Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti. Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua. Sei parte della forza della vita stessa. Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano. Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.
(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).
Non sapevano che cosa chiedevano
Marco afferma che soltanto Giacomo e Giovanni si avvicinarono al Signore e lo pregarono, perché vede che erano soprattutto loro che volevano porre quella domanda al Signore e sa che essi avevano spinto la madre a chiedere. Bisogna credere che l’affetto femminile della madre e l’animo ancora carnale dei discepoli siano stati spinti a domandare, soprattutto perché essi ricordavano le parole del Signore: «Quando il Figlio dell’uomo sederà nel luogo della sua maestà, anche voi sederete sui dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28) e sapevano di essere amati in modo speciale dal Signore a confronto con gli altri discepoli, e più volte, insieme con Pietro, erano stati fatti partecipi di misteri che agli altri rimanevano nascosti, come ricorda il vangelo. Per questo, infatti, anche a loro, come a Pietro, era stato imposto un nome nuovo; come Pietro, che prima si chiamava Simone, per la fortezza e la stabilità della fede inespugnabile meritò il nome di Pietro, così essi furono chiamati Boanerghés, cioè figli del tuono (cfr. Mc 3,16-17), perché avevano udito insieme con Pietro la voce gloriosa del Padre che scendeva sul Signore (cfr. Mt 17,5), conoscevano i segreti dei misteri più che gli altri discepoli e, cosa più essenziale, sentivano di aderire con cuore integro al Signore e di amarlo col più grande affetto. Perciò credevano che sarebbe stato possibile per loro sedergli più da vicino nel Regno, soprattutto perché vedevano che Giovanni per la singolare purezza di cuore e di corpo era tanto amato da lui da posare il capo sul suo petto durante la cena (cfr. Gv 13,23).
[…] Non sapevano che cosa chiedevano perché pensavano che ciascuno potesse scegliere a proprio arbitrio quale posto e quale ricompensa avrebbe ottenuto in dono nella vita futura e non pregavano invece il Signore di condurre a buon fine, ben meritandolo, la fiducia e la speranza che avevano, consapevoli che qualsiasi cosa di buono avessero fatto, egli li avrebbe ricompensati in misura infinitamente più grande. Certo è lodevole la loro semplicità, per cui con devota fiducia chiedevano di sedere nel Regno vicino al Signore, ma molto sarà lodata la sapiente umiltà di chi, consapevole della propria fragilità, diceva: «Ho scelto di essere disprezzato nella casa di Dio piuttosto che abitare sotto le tende dei peccatori» (Sal 83 [84],11). Non sapevano quel che chiedevano essi che domandavano al Signore i pre-mi sublimi piuttosto che la perfezione delle opere. Ma il maestro celeste, indicando che cosa anzitutto dovevano chiedere, li richiama alla via della fatica con la quale avrebbero conseguito il premio della ricompensa. Dice: «Potete voi bere il calice che io sto per bere?» (Mc 10,38). […] Che tutti i fedeli debbano seguire quest’ordine nella vita lo insegna l’Apostolo quando dice: «Se siamo diventati come una medesima pianta con lui in conformità alla sua morte, così lo saremo anche per conformità alla sua resurrezione» (Rm 6,5).
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sui vangeli 2,21, CCL 122, pp. 336-338).
Come Gesù chi vuol essere grande sia servitore
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo (…). «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete (…). Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti (…)».
Giovanni, non un apostolo qualunque ma il preferito, il più vicino, il più intuitivo, chiede per sé e per suo fratello i primi posti. E l’intero gruppo dei dieci immediatamente si ribella, unanime nella gelosia. È come se finora Gesù avesse parlato a vuoto: «Non sapete quello che chiedete!». Non sapete quali argini abbattete con questa fame di primeggiare, non capite la forza oscura che nasce da queste ubriacature di potere, che povero cuore ne esce. Ed ecco le parole con cui Gesù spalanca la differenza cristiana: «tra voi non sia così». I grandi della terra dominano sugli altri… Tra voi non è così! Credono di governare con la forza… non così tra voi! Chi vuole diventare grande tra voi. Una volontà di grandezza è innata nell’uomo: il non accontentarsi, il “morso del più”, il cuore inquieto.
Gesù non condanna tutto questo, non vuole nel suo regno uomini e donne incompiuti e sbiaditi, ma pienamente fioriti, regali, nobili, fieri, liberi. La santità non è una passione spenta, ma una passione convertita: chi vuole essere grande sia servitore. Si converta da “primo” a “servo”. Cosa per niente facile, perché temiamo che il servizio sia nemico della felicità, che esiga un capitale di coraggio di cui siamo privi, che sia il nome difficile, troppo difficile, dell’amore. Eppure il termine servo è la più sorprendente di tutte le autodefinizioni di Gesù: «Non sono venuto per farmi servire, ma per essere servo». Parole che ci consegnano una vertigine: servo allora è un nome di Dio; Dio è mio servitore! Vanno a pezzi le vecchie idee su Dio e sull’uomo: Dio non è il Padrone dell’universo, il Signore dei signori, il Re dei re: è il Servo di tutti! Non tiene il mondo ai suoi piedi, è inginocchiato lui ai piedi delle sue creature; non ha troni, ma cinge un asciugamano.
Come sarebbe l’umanità se ognuno avesse verso l’altro la premura umile e fattiva di Dio? Se ognuno si inchinasse non davanti al potente ma all’ultimo? Noi non abbiamo ancora pensato abbastanza a cosa significhi avere un Dio nostro servitore. Il padrone fa paura, il servo no. Cristo ci libera dalla paura delle paure: quella di Dio. Il padrone giudica e punisce, il servo non lo farà mai; non spezza la canna incrinata ma la fascia come fosse un cuore ferito. Non finisce di spegnere lo stoppino dalla fiamma smorta, ma lo lavora finché ne sgorghi di nuovo il fuoco.
Dio non pretende che siamo già luminosi, opera in noi e con noi perché lo diventiamo. Se Dio è nostro servitore, chi sarà nostro padrone? Il cristiano non ha nessun padrone, eppure è il servitore di ogni frammento di vita. E questo non come riserva di viltà, ma come prodigio di coraggio, quello di Dio in noi, di Dio tutto in tutti.
(Ermes Ronchi)
Il Servo del Signore
L’accostamento del testo di Isaia a quello di Marco ha come esito la rivelazione che Gesù è il Servo del Signore. Ovvero, l’obbediente alla volontà del Signore che ha donato se stesso per gli uomini vivendo la sua esistenza facendosi loro servo. La domanda di Giacomo e Giovanni (“Noi vogliamo che tu ci faccia ciò che ti chiederemo”) esprime la distorsione più frequente della preghiera cristiana: se la preghiera, come appare dal Padre nostro, porta il discepolo a fare la volontà del Signore (“sia fatta la tua volontà”: Mt 6,10), la domanda dei due discepoli va nel senso contrario. Si chiede che Dio faccia ciò che noi vogliamo. La preghiera allora non è più dialogo tra due libertà, ma imposizione umana a un Dio che non è più il Signore, ma un idolo.
Occorre che il cristiano impari a domandare, perché la domanda esaudita è quella che chiede “nel nome del Signore”: “Tutto ciò che dobbiamo chiedere a Dio e dobbiamo attendere da lui si trova in Gesù Cristo. Occorre cercare di introdurci nella vita, nelle parole, negli atti, nelle sofferenze, nella morte di Gesù, per riconoscere ciò che Dio ha promesso e realizza sempre per noi. Dio infatti non realizza tutti i nostri desideri, ma realizza le sue promesse” (Dietrich Bonhoeffer).
Con la loro incosciente richiesta, i due figli di Zebedeo dimostrano, da un lato, la loro incomprensione delle parole che Gesù ha appena pronunciato sul suo futuro di sofferenza e morte (cf. Mc 10,32-34) e, dall’altro, rivelano di vivere la comunità come finalizzata alla loro personale riuscita: essi devono ancora operare il passaggio da “la comunità per me” (“per noi”: Mc 10,35) a “io per la comunità”, e devono ancora imparare che non la comunità in quanto tale può essere il fine cui tendono, ma il Regno che va oltre la comunità stessa. La scorretta o parziale comprensione di Cristo diviene distorsione ecclesiologica. Il richiamo di Gesù alla coppa da bere e all’immersione da ricevere, cioè alla morte cruenta che lo attende, corregge la comprensione che essi hanno di lui, ma ricorda anche che la chiesa vive del suo innesto nella morte vivificante di Cristo grazie al battesimo e all’eucaristia. Innesto che le conferisce una forma altra rispetto alle istituzioni mondane: non il potere, ma il servizio è la sua logica interna.
Da Gesù Servo nasce una chiesa serva. L’iniziativa dei due fratelli suscita un conflitto all’interno della comunità: “gli altri dieci si sdegnarono con loro” (Mc 10,41). Concorrenzialità e clericalismo ante litteram sono già presenti nel gruppo dei Dodici, tanto che Gesù li convoca e li istruisce sulla logica che deve abitare le comunità cristiane, opposta a quella che vige nei poteri di questo mondo.
“Tra voi non è così”: questa parola di Gesù pone un criterio discriminante tra chiesa e non-chiesa. La prima testimonianza politica della chiesa consiste nella sua strutturazione interna, nell’organizzazione delle sue strutture di autorità e nel modo di vivere l’autorità, che dev’essere conforme a quanto vissuto da Cristo e da lui richiesto ai discepoli.
La parola di Gesù stigmatizza le logiche dei poteri mondani, ma soprattutto si rivolge alla chiesa: alla tentazione della mimesi dei meccanismi mondani, Gesù oppone la differenza cristiana fondata sul farsi servi gli uni degli altri. Se la chiesa è la testimone di Cristo Servo nella storia tra la croce e la parusia, allora la sua forma la mostra quale comunità non omologata, né asservita. Insomma, con una battuta, la chiesa non è uno Stato: “Tra voi, non è così”. Essa invece è, secondo le belle parole del Card. Carlo Maria Martini, “comunità alternativa”: “La chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modellini relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa. Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco”.
(Luciano Manicardi)
Preghiera
Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiediamo». Non siamo infatti migliori dei due discepoli. Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.
Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte eterna noi, peccatori. Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio.
Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita.
Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa. Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti!
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi
PER L’APPROFONDIMENTO: