Prima lettura: Sapienza 1,13-15;2,23-24
Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.
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Un Gesù sinceramente turbato dalla morte, specialmente dei piccoli e degli innocenti, ci suggerisce l’immagine vera di Dio Padre, anch’egli non contento della soggezione dell’uomo alla morte. Tale percezione, che ci fa accorgere che Dio è molto più solidale con noi di quanto si possa immaginare, viene ripresa con parole intense dall’autore del libro della Sapienza, il quale, alludendo in maniera più o meno esplicita ai primi tre capitoli della Genesi, si esprime così: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale» (1,13-15).
Occorre però chiarire che l’autore di Sapienza non intende la morte puramente in senso biologico, bensì soprattutto in senso «escatologico». La morte biologica non dipende infatti da una nostra scelta. Eppure essa può segnare la completa disfatta dell’esistenza qualora la si accompagni alla «rovina», o meglio, alla perdizione, che si rivela quale diretta conseguenza di errate scelte morali: «Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani» (1,12). Dio, dunque, ha creato tutto per il bene, come il racconto sacerdotale della creazione ci ricorda (Gen 1,31: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona»); suo obiettivo era l’affermazione della vita, dell’armonia, del benessere, perché tutto era orientato positivamente alla salvezza, come la frase «le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte» testimonia. Alla stessa umanità egli ha voluto dare piena fiducia e libertà, infatti era essa a governare, mentre il regno della morte non aveva alcun diritto di cittadinanza (2,23: «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura»).
Purtroppo, «la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (2,24): il diavolo, quindi, invidioso di un uomo reso da Dio immortale (ossia sempre in comunione con Dio), suo luogotenente sulla terra e felice, cerca il modo di introdurre un «cuneo» di separazione, agendo ovviamente sulla parte più debole, che è appunto l’uomo. A quest’ultimo è però possibile sottrarsi alla morte «seconda», come direbbe Francesco d’Assisi, testimoniando nella propria esistenza la vicinanza a Dio con l’operare la giustizia e il bene.
Seconda lettura: 2 Corinzi 8,7.9.13-15
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
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Il brano paolino è, invece, un forte invito alla solidarietà e alla generosità, sulla scorta dell’esempio del Maestro Gesù Cristo: «come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (8,7.9). Paolo, infatti, era impegnato a coinvolgere tutte le comunità ecclesiali da lui fondate in una colletta a favore della chiesa-madre di Gerusalemme, che versava in condizioni poco floride. Ai corinzi, probabilmente non molto propensi a collaborare nonostante la loro migliore situazione economica, viene ricordato con discrezione che persino chi è più povero di loro (ossia le comunità della Macedonia) ha insistito per partecipare. Colpisce, però, il profondo motivo della «ricchezza» di Cristo, che nella lettera ai Filippesi Paolo esprime così: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (2.5-7). In realtà. Gesù non si è mai risparmiato per coloro che Dio Padre gli ha affidato in quanto fratelli, poiché è stato generoso e disponibile durante la sua missione e, nel momento supremo della croce, ha rivelato la ricchezza della grazia, ossia l’incommensurabile abbondanza della salvezza ponendola a disposizione di chiunque creda, senza alcuna distinzione in base all’età, al censo, alla nazionalità.
Se quindi tale ricchezza costituisce una grazia per l’umanità, questa allora non si vede trattata in modo disuguale da Dio. Proprio per sottolineare l’«imparzialità» divina che non vuole creare sperequazioni, l’Apostolo richiama esplicitamente in 8,13-15 il caso della raccolta della manna nel deserto da parte degli ebrei: «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: “Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno”» (precisiamo che il testo prodotto da Paolo si trova in Es 16,18 secondo la versione greca dei Settanta).
Vangelo: Marco 5,21-43
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
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Esegesi
A conclusione della giornata delle parabole (4,1-34), il vangelo di Marco ci presenta Gesù che prosegue la sua opera di formazione dei discepoli attraverso la realizzazione di miracoli. Il primo è quello della tempesta sedata, alla fine del quale i discepoli si chiedono chi sia realmente Gesù, che domina persino le forze della natura (cf. 4,41). Segue poi la liberazione dell’indemoniato di Gerasa (5,1-20) e, infine, il brano di questa domenica. Rientra nel piano di tale formazione anche la difficoltà e l’insuccesso: in 5,17, nonostante Gesù avesse guarito un pericoloso indemoniato, i Geraseni «si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio»; in 6,1-6 si riporta che Gesù, pur trovandosi a Nazaret, la propria patria, «non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità».
I due “casi” che la liturgia oggi ci propone, invece, costituiscono un esempio positivo della stima e dell’attenzione di cui godeva Gesù in terra di Galilea. Infatti, partito dalla sponda gadarena del lago di Tiberiade, egli si vide immediatamente circondato da molta folla appena giunse sulle rive galilaiche. Qui incontrò un uomo molto autorevole, uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo (che in ebraico significherebbe “l’illuminato”). Il vangelo ce lo presenta esplicitamente come un padre disperato: «E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (5,22-23).
Possiamo immaginare la partecipazione emotiva di Gesù a questo dramma, al quale si associa la folla accompagnando fisicamente il Maestro e il padre. Al v. 25 si incastra un’altra storia, quella di una donna che ormai ha tentato in ogni modo, ma senza successo, di guarire dalla malattia che l’affliggeva: «Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando» (5,25-26). Il ragionamento della donna è lineare: il solo toccare Gesù può procurarmi la guarigione. Ed è ciò che avviene. Ci possiamo meravigliare del fatto che Gesù abbia quasi “preteso” che chi aveva ricevuto la guarigione testimo-niasse pubblicamente: non doveva egli avere fretta di recarsi a casa di Giairo? Eppure egli ha da dire qualcosa alla donna che ha nutrito una fede tanto grande: «E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (5,33-34).
Queste parole di sollievo e liberazione in fondo servono anche a Giairo, che a sua volta riceverà un segno ancora più strepitoso. Benché infatti fosse stato annunciato che la bambina era morta, «Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!» (5,36), perché ciò che costituisce la sorte irreparabile e irrimediabile per l’uomo, per il Figlio di Dio non è un ostacolo al dispiegamento della propria potenza. La bambina viene quindi risuscitata e, con grande senso di delicatezza umana e far certificare meglio la realtà della risurrezione. Gesù «raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare» (5,43).
In questi due segni emerge con chiarezza un elemento che potremmo definire “discriminante”, ossia la fede. In primo luogo la donna, la quale aveva ormai sperimentato ampiamente la limitatezza dei mezzi della scienza umana, incapace di guarirla ma non di impoverirla. Perciò, piena di speranza, ella fa quello che tanti altri malati prima di lei hanno fatto, secondo la stessa testimonianza di Marco: «Infatti ne aveva curati molti, così che quanti avevano qualche male gli si gettavano addosso per toccarlo» (Mc 3.10). La sua non è fiducia in eventuali virtù magiche detenute da Gesù, bensì vera e propria fede che addirittura suscita quel tremore tipico di chi ha compiuto una forte esperienza dell’ingresso di Dio nella sua vita. A Giairo, poi, viene chiesto qualcosa di autenticamente eroico: aver fede che Gesù è in grado di «risvegliare» sua figlia, per la quale era già pronto il funerale.
Gesù parla in realtà come figlio di Dio, per il quale la morte è solamente sonno; il suo scopo è rivelare ai genitori della fanciulla e ai tre apostoli, in quanto testimoni qualificati, che la mano potente di Dio, unita all’efficacia della sua parola, è in grado di restituire la vita. Perciò Gesù prende la fanciulla per mano e le dice «Talità kum», frase che i genitori suoi forse tante volte avranno adoperato per destare la propria figlia dal sonno. Quanta gioia avrà investito il cuore di Giairo e della moglie! Ma è lo sconcerto a prendere il sopravvento. Non è difficile da comprendere che anch’essi, «toccato con mano» l’intervento rivelatore e salvatore di Dio nella propria vita, siano rimasti spiazzati. Come è suo solito nel vangelo di Marco, Gesù raccomanda vivamente di non far sapere niente ad alcuno, perché questo miracolo sarebbe frainteso al di fuori del contesto che gli è proprio: la rivelazione del Figlio di Dio sulla croce.
Meditazione
La vita! La vita risanata, risuscitata, esaltata. Dio ama e vuole la vita. Come recita la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Ha creato tutto per l’esistenza» (1,13-14). La vita: ecco il tema che prepotentemente emerge dalla liturgia della Parola odierna.
Nonostante le genealogie che Matteo (1,1-17) e Luca (3,23-38) riportano nei loro vangeli sembrino attribuire ai maschi la dimensione generativa, tutti sanno che è la donna a partorire. Il lungo brano evangelico, insolito per l’evangelista Marco che ci ha abituato a brevi schizzi vivaci, ci trasmette quest’oggi l’esperienza di due figure femminili: l’una fisicamente segnata dalla malattia proprio nella sua femminilità, l’altra ‘ritornata alla vita’ a dodici anni, età ‘ufficiale’ della maturità riproduttiva. Tre quadri: al centro, quasi pietra preziosa incastonata, la vicenda della donna emorroissa; ai bordi, in due tempi, la narrazione della risurrezione della figlia di Giairo.
Un primo elemento che stupisce nel nostro brano è la presenza della folla, avvolgente e pervasiva come un mantello: accompagna Gesù e i suoi discepoli nel tragitto verso la casa del capo della sinagoga, funge da inconsapevole schermo tra l’emorroissa e Gesù stesso, tenta di bloccare il cammino del maestro, ne irride le parole; non può che essere «cacciata fuori» (v. 40) ne deve essere messa a conoscenza (cfr. v. 43) di quanto successo all’interno della casa. Malgrado – o forse proprio grazie a questo tratto, per cui ognuno di noi può riconoscersi nei soggetti del racconto – delle due donne ‘protagoniste’ non venga riportato il nome, bisogna prendere posizione personalmente ed uscire allo scoperto (cfr. vv. 22-23.33), senza paura della propria storia e senza vergogna di Gesù. La relazione con il Signore non può mai essere anonima ed indistinta, non può accontentarsi di fare da spettatore esterno, dentro una folla: è chiamata ad una sequela consapevole, libera e matura.
Ma cosa può spingere una figura pubblica come Giairo ed una donna legalmente impura (cfr. Lv 15,25) a gettarsi a piedi di Gesù, dinanzi a tutti, se non un pericolo ‘mortale’, una situazione in cui la morte sta tentando di inghiottire la vita? Ne nasce allora una lotta tra la paura (cfr. vv. 33.36) e la fede, nella speranza che Gesù possa operare qualcosa e comprendere il dramma di chi lo supplica. Costoro chiedono una vicinanza ‘fisica’ ai loro cari o alla loro persona: «Vieni a imporle le mani» (v. 23), «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello» (v. 28). La guarigione, e la salvezza che ne segue, in quanto riapre ad una relazione nuova con la vita, passa attraverso un contatto. Se questa dimensione è stata assunta con serietà dalla comunità dei discepoli attraverso le forme sacramentali, non deve essere intesa magicamente, superstiziosamente: l’incontro con Gesù è anche sempre mediato dalla parola, dallo sguardo ed è tra persone, non è incontro con un oggetto o un talismano!
Gesù cerca l’incontro personale ma non ha paura di agire e di compromettersi dinanzi a tutti. Se lascia fuori dalla casa di Giairo folla e parenti in trambusto per evitare ogni possibile spettacolarizzazione del suo operato, non si lascia distogliere dall’obiezione dei discepoli (cfr. v. 31) per porre invece dinanzi alla folla la donna che ha sentito «nel suo corpo che era stata guarita da quel male» (v. 29): vuole che tutti ne attestino la guarigione, così da reintrodurla nella comunità dei ‘viventi’! Ma la lotta tra la vita e la morte non lascia attimo di requie: per una figlia risanata e riconsegnata alla vita, un’altra muore a dodici anni (cfr. vv. 34-35). Non si è ancora avuto modo di rendersi conto della meraviglia operata che – sembra di sentire l’opprimente ed incalzante serie di sciagure riportate all’inizio del libro di Giobbe (cfr. 1,16-18) – subito subentra la temuta notizia della dipartita della figlioletta di Giairo. Se Gesù è riuscito a ridare all’emorroissa la capacità di generare vita, potrà fare qualcosa anche in questa situazione limite, disperata, dove la vita sembra aver capitolato per sempre? Qualcuno suggerisce addirittura di non disturbare ulteriormente Gesù… «Soltanto abbi fede!» (v. 36). Un gesto semplice e discreto, accompagnato dalla parola più importante di tutto il vocabolario cristiano – «Alzati!» (v. 41): è il verbo della risurrezione – producono il contatto vivificante anche con questa fanciulla, riportandola letteralmente in vita.
Stare lontani da Gesù apre la strada alla morte, toccarlo con la fede strappa da ogni vincolo di morte e sveglia la vita deposta in noi. Accogliamo la testimonianza di queste donne anonime che non si lasciano morire ma sperano in colui che è «venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
L’immagine della domenica
OGNI ISTANTE CHE DIO TI DONA
«Vivi meglio che puoi,
pensa meglio che puoi
e fai del tuo meglio oggi.
Perché l’oggi sarà presto il domani
e il domani sarà presto l’eterno».
(A.P. Gouthey)
Preghiere e racconti
Che significato ha una malattia?
Sono molti i fattori che fanno ammalare gli alberi, ancora di più quelli che debilitano gli uomini.
Quando, in un albero, la malattia va troppo in là è difficile salvarlo: marciscono le radici, si gonfia il tronco, il ricambio si interrompe e le foglie cadono private della linfa.
Quando si ammala un uomo si pensa subito a un virus o a un batterio, che probabilmente c’è, ma nessuno si chiede da dove viene, come mai si e insinuato là dentro, perché proprio oggi e non un mese fa, in quella persona e non in quell’altra che magari era molto più esposta al rischio di un contagio? Perché, a parità di cure, uno guarisce e un altro soccombe?
Basta che un fulmine sfiori la corteccia di una quercia secolare per innescarne la distruzione, in quel varco si insinuano batteri, funghi e coleotteri destinati in breve a propagarsi a discapito della sua vita.
Gli alberi da frutto diventano fragili quando perdono la verticalità: un pino può crescere anche se è piegato dal vento ma non un albicocco: è la perpendicolarità perfetta al suolo a permettergli di vivere e fruttificare.
Per distruggere un uomo, per farlo ammalare, invece, cosa ci vuole? E per guarirlo? Che significato ha una malattia nel corso di una vita? Dannazione? sfortuna? o forse un’occasione improvvisa, un dono prezioso che il cielo ci offre?
(Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130).
Gesù ci prende per mano e ci dice «alzati»
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!».
Gesù cammina verso una casa dove una bambina di 12 anni è morta, cammina accanto al dolore del padre. Ed ecco una donna che aveva molto sofferto, ma così tenace che non vuole saperne di arrendersi, si avvicina a Gesù e sceglie come strumento di guarigione un gesto commovente: un tocco della mano.
L’emoroissa, la donna impura, condannata a non essere toccata da nessuno – mai una carezza, mai un abbraccio – decide di toccare; scardina la regola con il gesto più tenero e umano: un tocco, una carezza, un dire: ci sono anch’io! L’esclusa scavalca la legge perché crede in una forza più grande della legge. Gesù approva il gesto trasgressivo della donna e le rivolge parole bellissime, parole per ognuno di noi, dolce terapia del vivere: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Le dona non solo guarigione fisica, ma anche salvezza e pace e la tenerezza di sentirsi figlia amata, lei, l’esclusa.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga e c’era gente che piangeva e gridava forte. Entrato, disse loro: “Perché piangete? Non è morta questa bambina, ma dorme”. Dorme. Verbo entrato nella fede e nel linguaggio comune: infatti la parola cimitero deriva dal verbo greco che designa il dormire. Cimitero è la casa dei dormienti, è la casa di Giairo, dove i figli e le figlie di Dio non sono morti, ma dormono, in attesa della mano che li rialzerà. Lo deridono, allora, con la stessa derisione con cui dicono anche a noi: tu credi nella vita dopo la morte? Sei un illuso: “finito io, finito tutto”. E Gesù a ripetere: “tu abbi fede”, lascia che la Parola della fede riprenda a mormorare in cuore, che salga alle labbra con un’ostinazione da innamorati: Dio è il Dio dei vivi e non dei morti.
Gesù cacciati fuori tutti, prende con sé il padre e la madre, ricompone il cerchio vitale degli affetti, il cerchio dell’amore che dà la vita. Poi prende per mano la piccola bambina, perché bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. Chi è Gesù? una mano che ti prende per mano. Bellissima immagine: la sua mano nella mia mano, concretamente, dolcemente, si intreccia con la mia vita, il suo respiro nel mio, le sue forze con le mie forze. E le disse: “Talità kum. Bambina alzati”. Lui può aiutarla, sostenerla, ma è lei, è solo lei che può risollevarsi: alzati. E lei si alza e si mette a camminare.
Su ciascuno di noi qualunque sia la porzione di dolore che portiamo dentro, qualunque sia la nostra porzione di morte, su ciascuno il Signore fa scendere la benedizione di quelle antiche parole: Talità kum. Giovane vita alzati, risorgi, riprendi la fede, la lotta, la scoperta, la vita, torna a ricevere e a restituire amore.
(Ermes Ronchi)
«Va’ in pace e sii guarita dal tuo male»
1. Ancora miracoli per dire che non il loro numero e neppure la loro straordinarietà devono attirare l’attenzione, ma il «chi» essi vogliono rivelare e il «che cosa» essi vogliono indicare. Essi manifestano la fragilità della condizione umana soggetta alle onde del mare, ai disturbi psichici, alle malattie fisiche e alla inesorabilità della morte e, al contempo, narrano la potenza di Dio posta in Gesù a servizio della liberazione-guarigione dell’uomo carente. Scopo dei miracoli è pertanto svelare «chi» c’è dietro ad essi, l’uomo debole e Gesù salvezza di Dio, traduzione delle viscere di misericordia di un Padre nell’atto di inchinarsi con benevolenza sugli affaticati e oppressi della terra. E ancora «che cosa» c’è dietro ad essi, un gesto creazionale teso a restituire l’uomo e la natura alla loro integrità manomessa; un dono di novità che sboccia là ove la fede gli tende la mano; un adesso in cammino verso il giorno in cui non ci sarà più ne pianto ne morte (Ap 21,4-5). Miracoli dunque come eventi indici di nuova creazione, un qui e ora particolarmente evidente ove avviene il grande miracolo da ricercare e mai negato, il passaggio dal cuore di pietra, la malattia della disumanizzazione, al cuore di carne, la guarigione dell’umanizzazione che si lascia raccontare anche in corpi deboli e in anime sofferenti. E’ in questa ottica che vanno lette le guarigioni della donna affetta da emorragie e della fanciulla morta.
2. La donna affetta da emorragie (Mc 5,25-34) è l’immagine della creatura che ha perso tutto, salute, figli, denari, speranza nei medici, relazioni sociali e accesso alla sinagoga proprio a causa di una malattia che la poneva in uno stato di impurità legale (Lv 15,25). Vera icona dei senza nome, dei privati di se stessi, anonimi perduti in una folla anonima senza vie d’uscita, senza risposta al loro desiderio di guarigione. Marco ama sottolineare il fatto che sotto il sole si danno situazioni estreme di disagio, e altresì ama sottolineare che anche in questi casi continua il permanere di una estrema speranza, l’uscirne fuori, una speranza, conclude l’evangelista, non delusa quando i senza nome vengono a conoscenza del nome di Gesù nel quale Dio salva. E’ la speranza che muove questa donna dal corpo malato a toccare almeno il mantello di quel corpo da cui emana una forza di guarigione. Siamo al cospetto di una singolare via di salvezza, quella del contatto dei corpi, ove il toccare il corpo o il mantello di Gesù equivale a ricevere da Gesù l’energia che sana il proprio corpo malato, energia espressione dell’amore di Dio sprigionato da quel corpo. Magia? No, puntualizza Marco. Vi è un toccare e un toccare, quello della folla attorno a Gesù e quello di questa donna: «Diceva infatti: Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata» (Mc5,28). Il suo gesto è ispirato dalla fiducia in Gesù, nasce da un personale atto di fede che libera all’istante la forza taumaturgica di Gesù (Mc 5,29), fede percepita da Gesù (Mc 5,30-33) e portata a pena luce da Gesù: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5,34). Quella donna che nascostamente, è dei poveri rimanere nell’ombra, ha toccato con mano la salvezza ora è portata a piena luce restituita a un diverso rapporto con Gesù, dal guardarlo di spalle al faccia a faccia nel non tremore e nel dialogo: «La donna gli disse tutta la verità…egli le disse» (Mc 5,33-34). E ancora restituita a un diverso rapporto con se stessa, da anonima a figlia, e alla vita sociale e religiosa. Ed eccoci all’altro miracolo, quello della figlioletta di un capo della sinagoga di nome Giairo (Mc 5,21-24.35-43), salvezza totale non vi è se non si dà guarigione dalla morte. Attorno ad essa vi è sempre il desiderio di sfuggirla (Mc 5,23), agitazione e lamento (Mc 5,37) e derisione di chi la ritiene non ultima parola (Mc 5,40).
L’evangelista vuole risvegliare l’attenzione su come Dio in Gesù una dodicenne morta (Mc 5,42): va (Mc 5,24), giunge a quella casa (Mc 5,38), vi entra (Mc 5,39.40), converte la morte in sonno: «La bambina non è morta, ma dorme» (Mc 5,39), prende per mano la fanciulla, il suo corpo è potenza di resurrezione, e pronuncia la grande attesa parola: «Fanciulla, io ti dico: alzati» (Mc 5,41), verbo di resurrezione. Io sono colui che ha potere sulla morte, la loro mano senza vita è nella mia mano che dà vita, la loro sorte è nella mia parola. L’unica cosa richiesta è: «Non temere, solo abbi fede» (Mc 5,36) nello stupore (Mc 5,42).3. Sì, non resta che il silenzio proprio agli iniziati alla sublime conoscenza del corpo di Gesù come luogo che manifesta e trasmette l’eros di Dio che va là ove sono corpi malati e corpi morti per stringerli a sé e per farsi stringere in un abbraccio di guarigione, e lo è già l’essere riconosciuti, e di resurrezione. Un Gesù che attraverso i suoi vuole continuare ad essere contatto che salva.
(Giancarlo Bruni)
La vita umana, “prezioso scrigno da custodire e curare”
“[…] Oggi ci è data l’opportunità di riflettere sull’esperienza della malattia, del dolore, e più in generale sul senso della vita da realizzare pienamente anche quando è sofferente. Nel messaggio per l’odierna ricorrenza ho voluto porre in primo piano i bambini ammalati, che sono le creature più deboli e indifese. E’ vero! Se già si resta senza parole davanti a un adulto che soffre, che dire quando il male colpisce un piccolo innocente? Come percepire anche in situazioni così difficili l’amore misericordioso di Dio, che mai abbandona i suoi figli nella prova? Sono frequenti e talora inquietanti tali interrogativi, che in verità sul piano semplicemente umano non trovano adeguate risposte, poiché il dolore, la malattia e la morte restano, nel loro significato, insondabili per la nostra mente. Ci viene però in aiuto la luce della fede. La Parola di Dio ci svela che anche questi mali sono misteriosamente “abbracciati” dal disegno divino di salvezza; la fede ci aiuta a ritenere la vita umana bella e degna di essere vissuta in pienezza pur quando è fiaccata dal male. Dio ha creato l’uomo per la felicità e per la vita, mentre la malattia e la morte sono entrate nel mondo come conseguenza del peccato. Ma il Signore non ci ha abbandonati a noi stessi; Lui, il Padre della vita, è il medico per eccellenza dell’uomo e non cessa di chinarsi amorevolmente sull’umanità sofferente. Il Vangelo mostra Gesù che “scaccia gli spiriti con la sua parola e guarisce coloro che sono ammalati” (Mt 8, 16), indicando la strada della conversione e della fede come condizioni per ottenere la guarigione del corpo e dello spirito, è la guarigione voluta dal Signore sempre. È la guarigione, d’amore integrale, di corpo e anima, perciò scaccia gli spiriti con la parola. La sua parola è parola d’amore, parola purificatrice: scaccia gli spiriti del timore, della solitudine, dell’opposizione a Dio, perché così purifica la nostra anima e dà pace interiore. Così ci dà lo spirito dell’amore e la guarigione che comincia dall’interno. Ma Gesù non ha solo parlato: è Parola incarnata. Ha sofferto con noi, è morto. Con la sua passione e morte Egli ha assunto e trasformato fino in fondo la nostra debolezza. Ecco perché – secondo quanto ha scritto il Servo di Dio Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Salvifici doloris – “soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all’umanità in Cristo” (n. 23).
Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto sempre più che la vita dell’uomo non è un bene disponibile, ma un prezioso scrigno da custodire e curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento. La vita è mistero che di per se stesso chiede responsabilità, amore, pazienza, carità, da parte di tutti e di ciascuno. Ancor più è necessario circondare di premure e rispetto chi è ammalato e sofferente. Questo non è sempre facile; sappiamo però dove poter attingere il coraggio e la pazienza per affrontare le vicissitudini dell’esistenza terrena, in particolare le malattie e ogni genere di sofferenza. Per noi cristiani è in Cristo che si trova la risposta all’enigma del dolore e della morte. La partecipazione alla Santa Messa, come voi avete appena fatto, ci immerge nel mistero della sua morte e della sua risurrezione. Ogni Celebrazione eucaristica è il memoriale perenne di Cristo crocifisso e risorto, che ha sconfitto il potere del male con l’onnipotenza del suo amore. E’ dunque alla “scuola” del Cristo eucaristico che ci è dato di imparare ad amare la vita sempre e ad accettare la nostra apparente impotenza davanti alla malattia e alla morte […]”.
(Benedetto XVI, Intervento in occasione della Giornata Mondiale del Malato, 11.02.2009).
Per Dio la morte è un sonno
Ogni testo del vangelo ci è molto utile sia per la vita presente che per la futura, ma il testo di oggi ancora di più perché contiene la totalità della nostra speranza e bandisce ogni motivo di disperazione. […] Ma parliamo del capo della sinagoga che, mentre conduce Cristo presso sua figlia, offre a una donna l’occasione di venire a Gesù. Così comincia la lettura di questo giorno: «Ecco che un capo si avvicinò, si prosternò davanti a Gesù dicendo: “Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà”» (Mt 9,18). Cristo conosceva l’avvenire e non ignorava che questa donna le sarebbe venuta incontro. È lei che farà capire al capo dei giudei che Dio non ha bisogno di spostarsi, che non è necessario mostrargli il cammino né sollecitare la sua presenza fisica. Bisogna credere, invece, che Dio è presente ovunque, con tutto il suo essere, sempre; e ancora che lui può fare tutto senza fatica, donando un ordine, che invia la sua potenza senza trasportarla, che mette in fuga la morte con un ordine senza muovere la mano, che rende la vita per sua decisione, senza far ricorso alla medicina.
«Mia figlia è morta proprio ora, ma vieni». Questo significa: «Il suo corpo conserva ancora il calore della vita, vi sono ancora dei segni della sua anima, il suo spirito non l’ha ancora lasciata. La famiglia ha ancora la figlia, il regno dei morti non la riconosce ancora come sua. Vieni presto a trattenere la sua anima pronta a partire».
Insensato! Non credeva che Cristo poteva resuscitare una morta, ma soltanto trattenerla. Così, come Cristo giunse nella casa e vide che la gente piangeva la fanciulla come una morta, volle condurre alla fede i loro cuori increduli e disse che la figlia del capo dormiva, non era morta poiché essi pensavano che risorgere dai morti non fosse più facile che levarsi dal sonno. «La fanciulla non è morta, ma dorme» (Mt 9,23). E, in verità, per Dio la morte è un sonno. […] Ascolta ciò che dice l’Apostolo: «All’istante, in un batter d’occhio i morti resusciteranno» (2Cor 15,52).
(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 34,1.5, CCL 24, pp. 193.197-199).
Cerca qualcuno che ti faccia sorridere
Quando la porta della felicità si chiude,
un’altra si apre, ma tante volte guardiamo
così a lungo a quella chiusa,
che non vediamo quella che è stata aperta per noi.
Cerca qualcuno che ti faccia sorridere
perché ci vuole solo un sorriso
per far sembrare brillante una giornataccia.
Trova quello che fa sorridere il tuo cuore.
L’amore comincia con un sorriso.
Quando sei nato, piangevi
e tutti intorno a te sorridevano.
Vivi la vita in modo che quando morirai,
tu sia l’unico che sorride
e tutti intorno a te piangano.
(Paulo Coelho).
«Sei un pellegrino in viaggio, ma prova a goderti il viaggio»
Una mia ex-studentessa, una ragazza tranquilla e riservata, venne a trovarmi. Chiacchierammo per un po’, quindi le domandai se stava utilizzando il suo diploma di infermiera. «No», rispose. «Vede, sto morendo. Ho la leucemia e sono in fase terminale». Naturalmente, rimasi senza fiato. Quando mi ripresi dall’emozione, chiesi a Betty che cosa provasse: «Che cosa si prova a ventiquattro anni, quando pensi che hai davanti tutta la vita e all’improvviso ti metti a contare i giorni che ti restano?». Col suo solito atteggiamento riservato e sereno, mi rispose: «Forse non riuscirò a spiegarmi, ma questi sono i giorni più felici della mia vita. Quando pensi di avere tanti anni davanti è facile rimandare le cose. Uno dice a se stesso: «Mi fermerò e annuserò il profumo dei fiori la prossima primavera». Ma quando sai che i giorni della tua vita sono limitati, ti fermi ad annusare il profumo dei fiori e a sentire il calore dei raggi solari proprio oggi. A causa della malattia di cui soffro, ho subìto numerosi prelievi del midollo spinale. E’ un procedimento doloroso, ma il mio ragazzo mi stava vicino e mi teneva la mano. Credo che fossi più consapevole del conforto della sua mano nella mia che dell’ago inserito nel mio midollo spinale».
Parlammo a lungo della morte e delle prospettive che essa apre. Avevo sempre sentito dire che non si potrebbe vivere in pienezza se non si sapesse che la vita un giorno o l’altro finirà. Betty mi aiutò a capire questa verità. Adesso è morta, la leucemia se l’ è presa. Grazie a lei ho capito che è indispensabile godere di tutte le cose buone di questa vita. Era come se Dio mi stesse dicendo attraverso di lei: «Sei un pellegrino in viaggio, ma prova a goderti il viaggio».
(John Powell, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 41997, 134-135).
La vita eterna che cos’è?
«Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo.
Continuare a vivere in eterno senza fine appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.
È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: “È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio […] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non illumina la grazia”. Già prima Ambrogio aveva detto: “Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…”».
(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, 24-25).
Signore, fa di me uno strumento della tua pace,
Signore, fa di me uno strumento della tua pace,
dove c’ è l’odio che io porti l’amore,
dove c’è l’offesa che io porti il perdono,
dove c’ è la discordia che io porti l’unione,
dove c’ è l’errore che io porti la verità,
dove c’ è il dubbio che io porti la fede,
dove c’ è la disperazione che io porti la speranza,
dove c’ è il buio che io porti la luce,
dove c’ è la tristezza che io porti la gioia.
Fa’, o Signore, che io non cerchi tanto
di essere consolato quanto di consolare,
di essere compreso quanto di comprendere,
di essere amato quanto di amare.
Perché è dimenticando se stesso che ci si trova,
è morendo che si risuscita
alla vita eterna”.
(Preghiera Semplice, attribuita a S. Francesco).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
PER L’APPROFONDIMENTO:
XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO B