ASCENSIONE DEL SIGNORE

 Prima lettura:Atti 1,1-11

 

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».       

 

 

v Se il Vangelo di Marco è molto rapido ed essenziale nel parlarci dell’ascensione di Gesù al cielo, il libro degli Atti tenta di «descrivercela» quasi visivamente nella seconda parte del brano oggi propostoci (At 1,6-11).

     Stando al racconto di Luca, sembra che si tratti dell’ultima «cristofania», concessa da Gesù agli Apostoli, i quali peraltro si dimostrano ancora impreparati alla comprensione del mistero di Cristo: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v. 6). Pur dopo la risurrezione, essi pensano terrenisticamente! Gesù supera la loro incomprensione, rimandando alla discesa dello Spirito la piena illuminazione del suo mistero ed anche della loro missione in ordine a quel mistero: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (1,7-8).

     Come si vede, anche qui siamo davanti ad un mandato «missionario»,di tipo universalistico: si parte, com’era ovvio e doveroso, dalla patria stessa di Gesù, per arrivare «fino agli estremi confini della terra». Il libro degli Atti, conforme a questo comando di Gesù ci illustrerà successivamente le varie tappe di questa evangelizzazione, che Paolo porterà perfino a Roma, nel cuore cioè dell’immenso impero che dominava tutto il mondo allora conosciuto.

     Anche qui la «forza» per adempiere questo compito immane non viene garantita dalle deboli ed impari risorse umane dei discepoli, ma dalla irruzione e dalla continua assistenza dello Spirito. Nel capitolo 2 del libro degli Atti, infatti, Luca ci descriverà la impetuosa discesa dello Spirito e la sua potenza di «trasformazione» dell’anima e dei sentimenti degli Apostoli: da timidi ed impauriti com’erano, diventeranno intrepidi e inarrestabili annunciatori e testimoni del Risorto. È ancora Cristo che «opera insieme a loro»: non direttamente, ma mediante lo Spirito che egli invierà da parte del Padre (cf. At 2,32-33).

     Dopo aver dato loro il suo «mandato» missionario, Gesù «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9). Abbiamo già detto della tristezza degli Apostoli nel vedersi «sottrarre» il Risorto. Quello che conta, però, non è la sua presenza fisica, ma la convinzione di fede che egli sarà sempre con i suoi, con la potenza dello Spirito, sino al momento del suo «ritorno» glorioso, come proclamano i due misteriosi personaggi «in vesti candide»: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

     In questo intervallo di tempo, che è già durato più da 2000 anni e non sappiamo per niente quanto durerà ancora, tocca ai suoi discepoli, cioè alla sua Chiesa, allargare gli «spazi» della sua signoria, rendergli testimonianza, facendolo conoscere ed amare da tutti gli uomini.

     È così che il suo «regno» si stabilisce anche lungo la storia, fra gli uomini, per mezzo di altri uomini.

     È a livello di queste considerazioni che possiamo comprendere la «indispensabilità» della Chiesa nel mondo, in attesa del «ritorno» glorioso di Cristo: anzi, proprio per «preparare» e predisporre tutti e tutto, anche il convivere sociale, a quell’incontro con il Signore dell’universo, essa è destinata!

 

Seconda lettura: Efesini 4,1-13

 

 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

           

 

v A proposito della Chiesa, perché compia la sua missione di testimonianza nel mondo, anzi di rappresentanza «vicaria» di Cristo, e in tal modo anticipare addirittura la venuta del «regno», dice delle cose stupende il brano della lettera agli Efesini, oggi proposta alla nostra considerazione.

     Due mi sembrano le idee di fondo che guidano il testo, troppo ricco per entrare nei suoi dettagli esegetici.

     La prima è quella della «unità» di quel «corpo» meraviglioso che è la Chiesa: in essa, proprio per questa esigenza fondamentale, ci deve essere circolazione di «amore», che si manifesta nell’umiltà e nella capacità di «sopportazione» reciproca, allo scopo di «conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).

     Ci sono troppi motivi di «unione» che obbligano i cristiani a fare «comunione» fra di loro. Una Chiesa «divisa» non rende buona testimonianza né a Cristo, né allo Spirito, che è essenzialmente «Spirito di amore»! E perciò è destinata ad essere fatalmente inerte, se non controproducente. «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo...» (4,4-5).

     La seconda idea, che viene espressa in questo testo e non è per niente antitetica alla prima, è che nella Chiesa, pur nella più rigorosa «unità», c’è una «molteplicità» di «doni», di «carismi» o di «ministeri» che dir si voglia, che permettono, anzi esigono, che tutti diano il loro contributo per la crescita armonica di quell’unico «corpo», di cui tutti siamo «membra».

     E la cosa che più sorprende è che proprio il Cristo, «asceso al di sopra di tutti i cieli» (4,10), ha voluto concedere questi «doni» alla sua Chiesa: essi, pertanto, non sono tanto delle acquisizioni nostre, che nascono da «predisposizioni» di natura e perciò da rivendicare a tutti i costi, quanto «doni» che vengono dall’alto, da esercitare perciò con grande senso di «responsabilità» per il bene di tutti. «A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» (4,7). Si noti l’espressione «a ciascuno di noi»: perciò ogni battezzato non può non avere uno spazio nella Chiesa!

     A modo di esemplificazione, vengono poi ricordati alcuni «ministeri» tra i più fondamentali nella Chiesa: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,11-13).

     Come si vede, i «ministeri» qui ricordati non sono dati per esercitare un «dominio» nella Chiesa, come talvolta, da qualcuno si è pensato o si potrebbe pensare, ma un «servizio» di crescita comune. Il traguardo per tutti, siano essi apostoli, o profeti, o pastori, o qualsiasi altra cosa, è quello di «crescere» e far «crescere» fino a raggiungere «la misura della pienezza di Cristo» (4,13). Il che è tremendamente impegnativo per tutti.

 

Vangelo: Marco 16,15-20

 

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

 

 

Esegesi

 

     Come è risaputo da tutti, questa parte «conclusiva» del Vangelo di Marco (16,9-20) è stata aggiunta successivamente da qualche autore che non conosciamo. Non è che Marco ignorasse questi eventi: è che egli ha voluto chiudere il suo Vangelo con lo «stupore» delle donne davanti al sepolcro vuoto e all’annuncio che Gesù è stato risuscitato da morte (Mc 16,6-8). Ed è proprio questo «stupore» che dovrà accompagnare sempre i credenti nel Signore risorto!

     Comunque, tutto questo non crea per noi alcun problema, perché siamo davanti ad un testo egualmente «ispirato» e come tale riconosciuto dalla Chiesa. Cerchiamo perciò di metterne in evidenza il ricco e molteplice contenuto.

     Si tratta dell’ultima «cristofania» del Risorto ai suoi Apostoli ai quali viene affidato un mandato «missionario» universale.

     Abbiamo detto sopra che l’ascensione al cielo non era l’abbondono di Gesù, ma solo un suo «momentaneo» allontanamento. Nel frattempo gli Apostoli avrebbero dovuto prolungarne l’opera di salvezza, annunciando il suo «Vangelo» ad ogni creatura. Perciò essi vengono rivestiti di un compito di rappresentanza «vicaria» del Cristo, da realizzare ed estendere per tutto l’arco della storia. È attraverso degli uomini che Cristo verrà ormai «annunciato» ad altri uomini! È questo il suo mandato «testamentario»: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (16,15-16).

     Due cose sono da sottolineare in questo «comando» del Signore. Prima di tutto la sua «universalità»: è «in tutto il mondo» che vengono inviati gli Apostoli; il Vangelo deve essere predicato «ad ogni creatura», senza escludere nessuna razza umana, in qualunque parte della terra essa abiti. In secondo luogo, si esige l’accoglienza, per «fede», del dono del «Vangelo», congiunto con il rito del «battesimo», che anche simbolicamente significa la rinascita a vita nuova, come un autentico «lavaggio» dalle sozzure della vita precedente. Dunque «fede» e «battesimo», intimamente congiunti e vissuti dai cristiani, sono le «vie» che portano alla salvezza.

     E se così sarà e i cristiani vivranno in tal modo, potranno compiere anche «gesti» straordinari, così come capiterà agli Apostoli che parlano «nuove lingue» il giorno di Pentecoste, proprio in ordine all’annuncio del Vangelo (At 2,4,11); oppure a Paolo che, morso da una vipera, la getta a terra senza riceverne alcun male (At 28,3-5), e altri fatti simili che si sono verificati, e continuano a verificarsi, lungo la storia. Ed effettivamente il Vangelo di Marco si chiude con l’affermazione che tutto questo è avvenuto: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (16,20).

     Ma si tratterà solo di «segni» che possono solo testimoniare che la «salvezza» procurata dal Vangelo è «totale», includente, oltre l’anima, anche il nostro corpo sofferente.

     Per l’autore però è importante affermare che tutto ciò avviene come frutto della «perdurante» azione di Cristo che, pur salendo al cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo, ma «opera insieme a loro» proprio in virtù del «potere» che gli deriva dall’essersi assiso «alla destra» del Padre: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (16,19).

 

Meditazione

 

La festa dell’Ascensione di Gesù ci rende più presente, quasi più attuale, la visione del «cielo». Una volta un monaco di un monastero copto nel deserto egiziano chiese: gli uomini di oggi pensano a suffi­cienza alla loro dimora permanente? E continuò dicendo che per la maggior parte dei cristiani la vita nel cielo non è altro che un’appen­dice, un supplemento alla vita terrena che è invece ritenuta la vera vita stabile e permanente. La vita del cielo è considerata una specie di post-scriptum, l’appendice di un libro di cui la vita terrena è, appun­to, il vero testo. La verità — concludeva il monaco — è esattamente il contrario. La vita sulla terra è solo la prefazione di quel libro il cui testo è la vita del cielo.

Questa riflessione del monaco è molto saggia. Tuttavia potrebbe suo­nare un po’ semplicistico dire che si pensa troppo a questa vita terrena e poco a quella celeste. Il problema è forse un altro e riguarda il modo in cui pensiamo alla vita sulla terra. E c’è da dire che purtroppo è un modo depauperato, depotenziato e perciò sbagliato. Tutti pensiamo che la vita terrena è una cosa e quella del cielo totalmente un’altra. In realtà, la Scrittura ci suggerisce una continuità della vita, sebbene ci sarà una cesura alla fine dei tempi. Ed è in questa prospettiva che nel Credo si parla di «vita eterna» e non semplicemente di vita futura o dell’aldilà. È come dire che questa vita già da ora deve essere impastata di eternità; e lo è sia nel bene che nel male. Il paradiso e l’inferno iniziamo a viverli da questa terra e su questa nostra terra e in questo nostro tempo. In tal senso, la nostra vita terrena sarebbe trasformata di molto se avessimo lo sguardo rivolto verso il futuro, verso l’alto, verso il cielo. L’Ascensione viene a mostrarci qual è il futuro che Dio ha riservato ai suoi figli. E il futuro è quello raggiunto da Gesù. Ecco perché abbiamo bisogno di «vedere» già questo cielo, sebbene «in speculum et in enigmate» come dice l’apostolo Paolo, per poter vivere bene già su questa terra.

Il mistero dell’Ascensione, appena accennato dal Vangelo di Marco, è narrato con maggiore ampiezza dagli Atti degli Apostoli.

Gesù, scrive Luca, al termine dei suoi giorni, dopo aver parlato ai discepoli, «mentre lo guardavano fu elevato in alto e una nube lo sot­trasse ai loro occhi». Fu un’esperienza straordinaria per quel piccolo gruppo di discepoli. Possiamo immaginare il misto di stupore e di tristezza per la separazione; tanto che rimasero a guardare il cielo. Mentre erano fissi in questa posizione, «ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù… verrà allo stesso modo in cui l’ave­te visto andare in cielo”». Normalmente si interpreta questo testo come una sorta di dolce ma fermo rimprovero ai discepoli perché non si fermino a guardare le nubi del cielo, ma ritornino con il loro sguardo e soprattutto con il loro impegno nell’orizzonte della vita di tutti i giorni. Del resto è stato Gesù stesso ad esortare gli apostoli, proprio un momento prima di lasciarli, dicendo: «andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15-20). Tutt’altro quindi che restare a guardare il cielo.

Ma c’è anche una verità nel tenere gli occhi fissi al cielo. Non che i cristiani debbano formare un gruppo di esoterici fermi a contemplare dottrine astratte, magari per evadere la complessa e talora durissima vita quotidiana. Tenere gli occhi fissi verso il cielo vuol dire tenere ben ferma la meta ove dobbiamo condurre noi stessi e il mondo, le nostre comunità e l’intera storia umana. Scriveva il profeta Isaia: «Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui» (Is 64,3). L’ignoranza del cielo che Dio ci ha rivelato rende senza senso e quindi amara e triste, violenta e crudele, la vita sulla terra. L’apostolo Paolo sembra insistere perché i credenti guardino oltre il presente: «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fa 3,20). Del resto, chi non vede quanto sia necessario far salire più in alto, appunto verso quel cielo che Gesù ha riaperto, questo nostro mondo spesso sbattuto così tragicamente in basso? Siamo entrati nel nuovo secolo senza utopie, senza sogni, a testa bassa e con gli occhi ripiegati solo su noi stessi. E le guerre e le violenze continuano ad avere un predominio incontrastato. E per di più sembra affermarsi più facilmente la ragione della forza che quella del diritto, del dialogo e del confronto pacifico.

In tal senso, la festa della Ascensione è sommamente opportuna, è una grazia concessa agli uomini perché alzino gli occhi un po’ più in alto del loro orizzonte abituale. E vedranno, come attraverso uno spira­glio, il futuro della storia umana anzi dell’intera creazione; non un futuro generico, più o meno ideologico e astratto, ma concreto: fatto di «carne ed ossa come vedete che ho io», potremmo dire parafrasando una affermazione di Gesù. Egli per primo, infatti, inaugura il nuovo futuro di Dio entrandovi con tutto il suo corpo, con la sua carne e la sua vita, che sono carne e vita di questo nostro mondo. Da quel giorno, il cielo inizia a popolarsi della terra, o, con il linguaggio dell’Apocalisse, iniziano i nuovi cieli e la nuova terra. Il Signore li inaugura e li apre perché tutti possano prendervi parte. Già la sua madre, Maria, lo ha raggiunto, assunta anch’essa con il suo corpo. L’Ascensione è il mistero della Pasqua visto nel suo compimento, scorto dalla fine della storia. L’Ascensione non è solo l’ingresso di un giusto nel regno di Dio, ma la gloriosa intronizzazione del Figlio «seduto alla destra» del Padre. Questa raffigurazione, presa dal linguaggio biblico, esprime simbolica­mente il potere di governo e di giudizio sulla storia umana del Cristo risorto: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra», dice Gesù ai discepoli dopo la Pasqua (Mt 28,18).

Noi non siamo più immersi in una storia senza orientamento, vitti­me del caso o degli astri o di forze oscure e incontrollabili. E fanno tristezza coloro che scrutano i cieli (come quella folla di persone che ogni giorno scruta gli oroscopi…) in cerca di segni di protezione per fuggire la paura e l’insicurezza della vita. Il Signore asceso è lui stesso il nostro cielo e la nostra sicurezza. Egli ci attrae verso il futuro che Lui ha già raggiunto in pienezza. E ai discepoli di ogni tempo conferisce il potere di sviluppare la storia e il creato verso questa meta: essi possono scacciare i dèmoni e parlare la lingua nuova dell’amore; possono neu­tralizzare i serpenti tentatori e vincere le insidie velenose della vita; possono guarire i malati e confortare chiunque ha bisogno di consola­zione. Questa forza sostiene e guida i discepoli sino ai confini della terra e verso il futuro della storia. Il Vangelo di Marco conclude: «par­tirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro». Così sia per ciascuno di noi e per tutte le nostre comunità cristia­ne, ognuno secondo il dono e il ministero ricevuto, come dice Paolo nella Lettera agli Efesini, «finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a rag­giungere la misura della pienezza di Cristo».

 

L’immagine della domenica

 

IL CIELO

«Osservate più spesso le stelle.

Quando avrete un peso nell’animo,

guardate le stelle o l’azzurro del cielo.

Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, … intrattenetevi … col cielo.

Allora la vostra anima troverà la quiete»

(Pavel A. Florenskij)

 

Preghiere e racconti

Il cielo

Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.

(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

 

L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione

Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», rispondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista. Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua ascensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.

Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi posseduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali. La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo. Non possono innalzare a lui i cuori. Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo. […] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima. Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tumulto della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.

(John Henry Newman).

 

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

 

Abbiamo creduto in lui e ne aspettiamo il ritorno

      Fratelli, noi crediamo in quel Gesù che non hanno creduto i nostri occhi. A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che lo hanno veduto, l’hanno stretto con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca. Essi, affinché tutti gli uomini accettassero le sue parole, furono inviati da lui; non osarono andare di loro iniziativa. Dove furono mandati? L’avete sentito dalla lettura del Vangelo: «Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura che è sotto il cielo» (Mc 16,15). I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero che essi riferivano cose da loro stessi viste. Noi abbiamo creduto in colui che non abbiamo visto con i nostri occhi e ne aspettiamo il ritorno. Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando ritornerà. […] Restiamo dunque fedeli alla sua parola, perché non proviamo confusione quando ritornerà. Egli infatti nel vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: «Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli» (Gv8,31). E quasi gli chiedessero: Con quale vantaggio? «Voi conoscete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non è stata realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso e tuttavia ne speriamo la futura realizza-zione. Colui che ha fatto questa promessa è fedele; egli non ti inganna: tocca a te unicamente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse. La verità non conosce inganni. Non voler esser tu il bugiardo, altra cosa professando e altra facendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa. Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento all’epistola di san Giovanni 4,2, NBA XXIV, pp. 1708-1709).

Sii un vero amico

Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno. L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale. Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio. L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte. In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte. Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami. È questo il centro del messaggio di Gesù.

Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata. Al contrario, è cresciuta.

È questo il significato dell’invio dello Spirito. Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’amicizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte. È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro. Sai dall’esperienza quanto questo sia reale. Coloro che hai amato profondamente e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze reali.

Osa amare ed essere un vero amico. L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condurrà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).

 

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11).

[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

 

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

 

     

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

ASCENSIONE DEL SIGNORE