XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:  Esodo 22,20-26

Così dice il Signore:  «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani. Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».

 

Il brano è preso da quello che gli esegeti (in base a Es 24,7) chiamano “Codice dell’Alleanza” (Es 20,22-23,19), inserito fra la teofania del Sinai, col dono del decalogo (Es 19,1-20,21), e il rito della stipulazione (Es 24). Offre un chiaro esempio di alcuni precetti sociali profondamente motivati dalla opzione fondamentale dell’amore di Dio e del prossimo. Introducono bene al Vangelo.

     Per forma e contenuto si possono dividere in due gruppi.

     Il primo gruppo (vv. 20-23) si occupa dei comportamenti verso le persone emarginate di allora; il forestiero, la vedova e l’orfano, un trinomio spesso ricorrente nei profeti. La forma è apodittica: esprime un comando, accompagnato da una motivazione.

     Prima proibisce le molestie e le oppressioni verso il forestiero (gher), cioè colui che ha lasciato il proprio ambiente di origine, per motivi economici o politici o di altro genere, e si è inserito nel popolo di Israele. Di solito era persona povera e indifesa, facilmente vittima di soprusi e sfruttamenti.

     Motivo della proibizione: anche Israele è stato forestiero in Egitto. Un modo concreto di dire: ama il tuo prossimo come te stesso! A monte c’è pure il motivo teologico, che domanda ancora più amore. A Israele, infatti, Dio dice anche: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lv 25,23). Col cristianesimo questo motivo diventa universale e perenne. I discepoli di Gesù sono «nel mondo» ma non «del mondo» e impegnati a redimerlo (cf. Gv 17,11-19). Per san Paolo «la nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20) e «finché abitiamo nel corpo siamo in esilio»: qui e là occorre essere graditi a Dio (cf. 2Cor 5,6-9; e pure 1Pt 2,11; Eb 13,14). La lettera A Diogneto infine delinea mirabilmente i cristiani nel contempo cittadini e stranieri e benefattori del mondo.

     Il brano liturgico proibisce poi i maltrattamenti alla vedova e all’orfano, le persone prive di sostegno per la morte del marito e del padre, quindi esposte a tanti abusi e sopraffazioni. Il motivo qui è subito teologico: Dio stesso si farà loro vindice e punirà i trasgressori con la pena del contrappasso; le loro mogli diventeranno vedove e i loro figli orfani.

     Il secondo gruppo (vv. 24-26) ha due precetti su cose necessarie al prossimo indigente. La forma è casuistica: pone un caso e detta la norma, aggiungendo però anche qui delle motivazioni.

     Il primo caso riguarda il prestito di denaro e proibisce l’usura, in modo assoluto, verso il povero. Il Deuteronomio riserva questa norma verso ogni fratello israelita e consente di riscuotere interessi dallo straniero (cf. Dt 23,20-21). In pratica i comportamenti devono essere stati piuttosto vari. Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso parla di depositi in banca e di interessi (cf. Mt 25,27 e Lc 19,23). Le norme bibliche comunque sono sempre a tutela dei poveri e deboli e opposte ai profittatori.

     Il secondo caso riguarda il pegno preso a garanzia della restituzione di un prestito. Se si tratta del mantello, al tramonto bisogna renderlo al proprietario, perché gli serve anche da coperta. Il motivo è altamente umanitario: il pegno non deve mai compromettere la vita o la salute del debitore. Per questo il Deuteronomio vieta assolutamente di prendere la macina, che serve a fare il pane (Dt 24,6), e stabilisce che non si entri in casa a prendersi il pegno, ma si aspetti che il proprietario lo porti fuori. Al motivo umanitario il Codice dell’alleanza aggiunge ancora quello teologico di Dio che ascolta il lamento dell’oppresso, perché è misericordioso, come ha già fatto con Israele in Egitto.

     Da notare come questa legislazione ancora primitiva è assai rispettosa nei dettagli pratici e molto ricca nelle motivazioni umane e teologiche.

 

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi  1,5-10

 Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia. Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acàia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.  Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.

 

A causa della persecuzione, Paolo era dovuto fuggire da Tessalonica, poche settimane dopo la fondazione di quella chiesa, ed era rimasto in ansia per i riflessi negativi che il fatto poteva avere. Ma Timoteo, inviato a supplirlo (1Tess 3,2,6), gli ha portato ottime notizie. Allora scrive questa lettera, che storicamente è il primo documento del Nuovo Testamento. La liturgia ne propone l’esordio, del quale riporta i passaggi finali, dopo solo un cenno di quelli iniziali, sul soggiorno dell’apostolo fra i Tessalonicesi, tutto proteso al bene (v. 5).

     Esprime una serie di complimenti ai destinatari, perché nella vita pratica si sono fatti imitatori dell’apostolo e di Cristo, anche nella tribolazione (v. 6), perché sono diventati modelli a tutti i credenti della Grecia, nella quale contribuiscono con la testimonianza alla diffusione della parola del Signore (vv. 7-8), e perché la loro conversione dagli idoli morti al Dio vivente li ha posti nell’attesa fattiva del Cristo risorto, che libera il mondo dall’ira divina (vv. 9-10). Nei versetti sulla conversione, gli esegeti vedono un sunto della catechesi orale di Paolo: lo suggerisce la successione di frasi brevi e simmetriche che riecheggiano la sua predicazione ai pagani, in particolare quella agli Ateniesi di poco anteriore alla lettera (cf At 17,22-31).

     Presa in tutto il suo contesto, anche questa seconda lettura ha legami col tema dell’amore di Dio e del prossimo ispiratore di tutti i comportamenti pratici, che è proprio delle altre due. Perché Paolo scrive i suoi pensieri in ginocchio, per così dire, dato che li esprime nel ringraziamento a Dio e li attinge dalla preghiera continua per i Tessalonicesi, come dice all’inizio dell’esordio (1Tess 1,2-5). E si compiace per la loro fede impegnata, per la carità operosa e per la speranza perseverante nel Signore Gesù Cristo. Colloca quindi se stesso e i suoi cristiani in rapporto profondo con la fonte delle loro esperienze e comportamenti. Inoltre pensiero dominante è il ricordo della conversione (vv. 9-10), che ha implicato una opzione fondamentale, in risposta all’iniziativa di Dio che li ha eletti (v. 4): essa che va continuamente rinnovata e coltivata nella preghiera. Richiamato questo, a Paolo non è necessario impartire tanti precetti.

 

Vangelo: Matteo 22,34-40

 In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».  Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

Esegesi

     Siamo alla quarta delle cinque controversie affrontate da Gesù a Gerusalemme prima della passione, riferite dai Sinottici. Sommi sacerdoti, sadducei, farisei ed erodiani, ormai determinati a ucciderlo, si alternano nel contestargli le prese di posizione e gli insegnamenti. In questo episodio, Matteo abbrevia il corrispondente testo di Marco, dove la controversia si conclude con un complimento reciproco tra Gesù e un dottore della legge, che sembra staccarsi dal coro degli avversari.

     «Qual è il grande comandamento della legge?»

L’interlocutore si riferisce al libro della legge o Torâh, contenuta nel Pentateuco e sancita con l’Alleanza tra Dio e Israele, domanda quale sia l’impegno basilare di tale Alleanza, dal quale deriva ogni altro. La stipulazione di essa infatti, con opportuni adattamenti, ricalcava lo schema dei patti di vassallaggio tra i popoli dell’area mesopotamica e hittita. Prima avevano un prologo, con la presentazione dei contraenti e dei rapporti già intervenuti fra loro. Poi invitavano all’adesione reciproca totale e perenne che in termini attuali possiamo dire anche una opzione fondamentale: questo è il comandamento «grande» al quale derivano tutti gli altri. Esso è molto chiaro in Dt 6,4-5 nella preghiera «Ascolta, Israele», tuttora recitata quotidianamente, da dove è presa la risposta di Gesù, ed è racco-mandato particolarmente nelle omelie dei capitoli di Dt 5-11.

     I patti di vassallaggio elencavano poi le clausole particolari derivate. Quindi era previsto il rito sacro per la stipulazione dell’Alleanza. Infine erano enumerate le maledizioni o penalità per le infrazioni e le benedizioni o vantaggi della fedeltà reciproca.

     In questa prospettiva, il dottore della legge non ha proposto a Gesù una sottigliezza rabbinica, ma lo ha sfidato sull’impianto fondamentale della sua fede. Ed ha avuto una risposta adeguata, con l’aggiunta anzi che il secondo comandamento, dell’amore al prossimo, è «simile» al primo, del quale è come l’altra faccia: insieme costituiscono la opzione fondamentale della fede biblica. Per questo Gesù può dire che da ambedue dipendono tutte le sacre scritture, legge e profeti.

     Con questa impostazione diventa chiaro pure per noi che i comandamenti dell’amore non sono propriamente comandati (che amore sarebbe?), ma conseguenti all’impegno dell’alleanza con Dio, nella fede.

     Similmente gli altri comandamenti, sviluppati sulla base di essi, non sono soltanto legge naturale resa positiva con la promulgazione del decalogo, ma impegni presi tuttora in una adesione a Dio nella fede e nell’amore.

     Una eloquente conferma, per contrasto in negativo, viene da certi comportamenti oggi diffusi: dove sono carenti le opzioni fondamentali di amore a Dio e al prossimo, sono trascurati e calpestati anche tutti fili altri valori morali.  

 

Meditazione

     La prima lettura presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torâh (il codice dell’alleanza); nel vangelo Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torâh, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi,  come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18; Mt 22,39). La Torâh, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è vangelo.

     Le leggi e i precetti presenti nell’Antico Testamento, spesso ignorati o conosciuti male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come «perenne» è il valore dell’Antico Testamento per i cristiani: Dei Verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero «al tramonto del sole» il mantello preso in pegno è motivata con una affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?» (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo mette dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui.

     La legge che proibisce di opprimere l’immigrato e di sfruttarlo è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: «perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subite dai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese.

     La pagina evangelica pone in stretto rapporto la Scrittura e l’amore. La Scrittura che chiede di amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi si compie nell’amore fattivo e concreto: la prassi dell’amore è compimento della Scrittura, è esegesi esistenziale. Si narra che abba Serapione, incontrato un giorno un povero intirizzito dal freddo, si sia denudato per coprirlo con il proprio abito e che, incontrato un uomo che veniva condotto in prigione per debiti, abbia venduto il suo vangelo per pagare il suo debito e sottrarlo alla prigione. Tornato nella sua cella nudo e senza vangelo, a chi gli chiese: «Dov’è il tuo vangelo?», rispose: «Ho venduto colui che mi diceva: “Vendi quello che possiedi o dallo ai poveri”». Il comando diviene grazia, la pagina diviene vita, lo «sta-scritto» diviene relazione umana.

     Il comando di amare il prossimo come se stessi significa anche che, amando il prossimo, io amo veramente me stesso. L’amore per l’altro concreto, con un nome, un volto, un corpo, una storia, mi converte alla realtà e mi conduce a uscire da me, a essere veramente me stesso proprio nell’uscire da me per incontrare l’altro. La nostra verità è personale e relazionale.

     Amore degli altri e amore di sé sono spesso contrapporti come ciò che è virtuoso a ciò che è peccaminoso. In realtà, amare gli altri come se stessi implica la capacità di sviluppare e nutrire un sano amore di sé. «Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente» (Erich Fromm). Vi è il rischio di un altruismo nevrotico che porta a voler amare gli altri disprezzando se stessi e ritenendo indegno del cristiano l’amore di sé: ma agli occhi di Dio anch’io sono «un altro», sono un essere umano amato personalmente da Dio, e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama.

     La somiglianza (Mt 22,39) dei comandi di amare Dio e di amare il prossimo è anche la somiglianza dell’amore per Dio e per il prossimo. Noi abbiamo un solo modo di amare. E l’amore del prossimo è criterio di autentificazione del nostro amore di Dio: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

 

Immagine della domenica


 

AMA E FA’ QUEL CHE VUOI

Se taci, taci per amore.

Se parli, parla per amore.

Se correggi, correggi per amore.

Se perdoni, perdona per amore.

Metti in fondo al cuore la radice dell’amore.

Da questa radice non può che maturare il bene.

(Sant’Agostino)

 

Preghiere e racconti

 

Il cantus firmus

Ogni grande amore comporta il rischio di farci perdere di vista quella che amerei definire la polifonia della vita. Mi spiego. Dio e la sua eternità vogliono essere amati da noi pienamente. Ma quest’amore non deve ne nuocere a un amore terreno ne indebolirlo; deve essere in qualche modo il cantus fìrmus attorno al quale cantano le altre voci della vita. L’amore terreno è uno di quei temi in contrappunto che, pur avendo la loro piena indipendenza, si ricollegano comunque al cantus fìrmus. Là dove il cantus fìrmus è chiaro e distinto, il contrappunto può esprimersi con la maggior potenza possibile. I due sono inseparabili e tuttavia distinti, per usare il linguaggio del concilio di Calcedonia, come la natura umana e la natura divina del Cristo. La polifonia musicale è così vicina a noi e così importante per noi forse proprio per il fatto di essere l’immagine musicale di questo dato cristologico, e quindi anche della nostra vita cristiana?

(D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere)

 

Chi non ha l’amore

Chi non ha l’amore guarda gli alberi

e non vede mai bruciare le loro foglie.

Non vede l’uccello, non vede l’ape

né il giorno che ritorna dalle Cicladi.

Chi non ha l’amore non sente gli alberi

la musica dei muschi sui loro tronchi.

L’autunno si fa uggioso, gli uomini

Dicono – È finita la bella stagione! –

Essi non sanno – mai sapranno –

che basta un uccello a farci svernare.

L’ape, l’uccello, gli alberi, l’azzurro…

Chi non ha l’amore non ne è cosi certo!

(Ch. le Quintrec)

 

Amare con tutto noi stessi è necessario per vivere

Qual è, nella Legge, il grande comandamento? Lo sapevano tutti qual era: il terzo, quello del Sabato, perché anche Dio lo osserva. La risposta di Gesù, come al solito, sorprende e va oltre: non cita nessuno dei Dieci Comandamenti, mette invece al cuore del suo annuncio la stessa cosa che sta al cuore della vita di tutti: tu amerai, desiderio, sogno, profezia di felicità per ognuno.

E allora sono certo che il Vangelo resterà fino a che resterà la vita, non si spegnerà fino a che non si spegnerà la vita stessa. Amerai, dice Gesù: un verbo al futuro, non all’imperativo, perché si tratta di una azione mai conclusa. Non un obbligo, ma una necessità per vivere, come respirare. Cosa devo fare domani per essere vivo? Tu amerai. Cosa farò l’anno che verrà, e poi dopo? Tu amerai. E l’umanità, il suo destino, la sua storia? Solo questo: l’uomo amerà. Un verbo al futuro, perché racconta la nostra storia infinita.

Qui gettiamo uno sguardo sulla fede ultima di Gesù: lui crede nell’amore come nella cosa più grande. Come lui, i cristiani sono quelli che credono non a una serie di nozioni, verità, dottrine, comandamenti, ma quelli che credono all’amore (cfr 1 Gv 4,16) come forza determinante della storia. Amerai Dio con tutto, con tutto, con tutto. Per tre volte Gesù ripete che l’unica misura dell’amore è amare senza misura.

Ama Dio con tutto il cuore. Non significa ama Dio solamente, riservando a lui tutto il cuore, ma amalo senza mezze misure. E vedrai che resta del cuore, anzi cresce, per amare il marito, il figlio, la moglie, l’amico, il povero. Dio non è geloso, non ruba il cuore: lo moltiplica. Ama con tutta la mente. L’amore è intelligente: se ami, capisci prima, vai più a fondo e più lontano. Ama con tutte le forze. L’amore arma e disarma, ti fa debole davanti al tuo amato, ma poi capace di spostare le montagne.

Gli avevano domandato il comandamento grande e lui invece di uno ne elenca due, e il secondo è una sorpresa ancora più grande. La novità di Gesù sta nel fatto che le due parole fanno insieme una sola parola, l’unico comandamento. E dice: il secondo è simile al primo. Amerai l’uomo è simile ad amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio, è la rivoluzione di Gesù: il prossimo ha volto e voce e cuore simili a Dio, è terra sacra davanti alla quale togliersi i calzari, come Mosè al Roveto ardente.

Per Gesù non ci può essere un amore verso Dio che non si traduca in amore concreto verso il prossimo. Ma perché amare, e con tutto me stesso? Perché una scheggia di Dio, infuocata, è l’amore. Perché Dio-Amore è l’energia fondamentale del cosmo, amor che muove il sole e l’altre stelle, e amando entri nel motore caldo della vita, a fare le cose che Dio fa.

(Ermes Ronchi)

 

Qual è il grande comandamento?

Continuano le controversie tra Gesù e i suoi oppositori, che a turno tentano di coglierlo in contraddizione con la fede di Israele, con l’insegnamento della tradizione, deposito da essi custodito gelosamente. I sadducei, cioè i sacerdoti (cf. Mt 22,23); i farisei (cf. Mt 22,15), un movimento laicale estremamente legato alla Torah, alla Legge; gli erodiani, partigiani di Erode (cf. ibid.); gli interpreti delle Scritture: tutti vanno da Gesù, mentre egli si trova nel tempio, per porgli domande, per “fargli l’esame” e coglierlo in fallo nelle sue parole. Vogliono che la sua voce taccia, che le sue parole non siano ascoltate, che i suoi gesti siano puniti, e per questo saranno disposti a condannarlo e a procurargli la morte.

Sono gli ultimi giorni di Gesù nella città santa di Gerusalemme, prima dell’arresto e della passione, ed egli sa che il cerchio intorno a sé si stringe sempre più. Ed ecco che nella nostra pagina del vangelo entrano di nuovo in scena i farisei, e tra loro un dottore della Legge, un teologo diremmo noi, un esperto delle sante Scritture, “lo interroga per metterlo alla prova: ‘Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?’”.

La domanda è pertinente, perché nel giudaismo rabbinico la Legge aveva assunto un posto centrale all’interno della rivelazione scritta: e così i primi cinque libri biblici erano i più studiati e meditati, con un primato su tutti gli altri, quelli dei profeti e dei sapienti. In questo studio della Torah i rabbini avevano individuato, oltre alle dieci parole date da Dio a Mosè (cf. Es 20,2-17; Dt 5,6-22), 613 precetti, come spiega un testo della tradizione ebraica:

Rabbi Simlaj disse: “Sul monte Sinai a Mosè sono stati enunciati 613 comandamenti: 365 negativi, corrispondenti al numero dei giorni dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti al numero degli organi del corpo umano … Poi venne David, che ridusse questi comandamenti a 11, come sta scritto [nel Sal 15] … Poi venne Isaia che li ridusse a 6, come sta scritto [in Is 33,15-16] … Poi venne Michea che li ridusse a 3, come sta scritto: ‘Che cosa ti chiede il Signore, se di non praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio?’ (Mi 6,8) … Poi venne ancora Isaia e li ridusse a 2, come sta scritto: ‘Così dice il Signore: Osservate il diritto e praticate la giustizia’ (Is 56,1) … Infine venne Abacuc e ridusse i comandamenti a uno solo, come sta scritto: ‘Il giusto vivrà per la sua fede’ (Ab 2,4; cf. Rm 1,17; Gal 3,11)” (Talmud babilonese, Makkot 24a).

Questa la risposta rabbinica alla questione su come semplificare i precetti della Legge, su quale comandamento meritasse il primato. Gesù non si pone all’interno di questa casistica, ma va al fondamento della vita del credente. Innanzitutto cita lo Shema‘ Jisra’el, il comandamento che il credente ebreo ripeteva e ripete tre volte al giorno: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua vita e con tutta la tua mente” (Dt 6,4-5). Poi chiosa: “Questo è il grande e primo comandamento”.

Ma subito va oltre, accostando al comandamento dell’amore per Dio quello dell’amore per il prossimo, dato senza paralleli nella letteratura giudaica antica: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). Risalendo alla volontà del Legislatore, Gesù discerne che amore di Dio e del prossimo sono in una relazione inscindibile tra loro: la Legge e i Profeti sono riassunti e dipendono dall’amore di Dio e del prossimo, non l’uno senza l’altro. Non a caso nel nostro testo il secondo comandamento è definito pari al primo, con la stessa importanza, lo stesso peso, mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo … e il prossimo tuo” (Lc 10,27).

Sì, Gesù compie un’audace e decisiva innovazione, e lo fa con l’autorità di chi sa che non si può amare Dio senza amare il fratello, la sorella. Lo esprimerà un suo discepolo, Giovanni, riprendendo l’insegnamento di Gesù: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4,20-21).

Ecco come si può rispondere all’amore di Dio per noi, al “Dio” che “è amore” (1Gv 4,8.16) e che “ci ha amati per primo” (1Gv 4,19): credendo a questo amore (cf. 1Gv 4,16), e di conseguenza amando Dio e gli altri. Noi parliamo troppo facilmente di amore per Dio, perché ci infiammiamo nel pensarci quali amanti: allora accresciamo il nostro desiderio di Dio, aneliamo a lui, cantiamo la nostra sete di lui (si veda, in proposito, l’inizio degli splendidi salmi 42 e 63), godiamo di stare nella sua intimità, pratichiamo anche un’assiduità con Dio nella preghiera, negli affetti, nei sentimenti, nelle emozioni.

Ma occorre sempre discernere se in tale amore Dio è ascoltato o no, se la sua volontà è realizzata o no: in sintesi, se in questa relazione ci accontentiamo di un amore di desiderio, senza che vi sia in noi anche l’amore di ascolto e di obbedienza. Va detto con chiarezza: il rapporto con Dio è esposto al rischio dell’idolatria, perché se Dio è ridotto a un oggetto del nostro amore, se amiamo un’immagine di Dio che noi abbiamo plasmato, allora Dio è un idolo, non il Dio vivente che si è rivelato a noi! Certo, in quanto esseri umani abbiamo bisogno di esprimere l’amore per Dio anche con il linguaggio del desiderio che ci abita e che ci spinge fuori di noi stessi.

Dobbiamo però sempre ricordare l’essenziale: noi aneliamo all’abbraccio con il Signore, con il Dio vivente, ma egli entra in una relazione intima, penetrante, conoscitiva con noi, nella misura in cui lo ascoltiamo, e dunque facciamo il suo desiderio, la sua volontà. Insomma, Dio va amato amando gli altri come lui li ama. L’amore per gli altri è ciò che rende vero il nostro amore per Dio, è l’unico luogo rivelativo, l’unico segno oggettivo che noi siamo discepoli di Gesù, e dunque amiamo Gesù e amiamo Dio.

Gesù stesso lo ha affermato in modo netto: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35); l’amore che mette in pratica “il comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo, lasciatoci da Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12). La verità dell’amore di desiderio per Dio sta dunque nell’amore di chi realizza concretamente la sua volontà: “Dio nessuno l’ha mai contemplato: se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza” (1Gv 4,12).

(Enzo Bianchi)

 

Aprire il cuore all’amore di Dio

E così, più impari ad amare Dio, più impari a conoscere e a voler bene a te stesso. La conoscenza e l’amore di noi stessi sono frutti della conoscenza che abbiamo di Dio e dell’amore che nutriamo per lui. Ora puoi comprendere meglio il significato del grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,37-38). Se apriremo totalmente il cuore all’amore di Dio, avremo per noi stessi un amore che ci darà la forza di amare il prossimo con tutto il cuore. E nel segreto del nostro cuore che impareremo a conoscere la presenza nascosta di Dio; e con questa conoscenza spirituale potremo vivere una vita d’amore. Ma tutto questo esige disciplina. La vita spirituale richiede una disciplina del cuore. La disciplina è il distintivo del discepolo di Gesù. Il che però non mira a crearti difficoltà, ma a mettere a tua disposizione uno spazio interiore dove Dio possa toccarti con un amore che ti trasforma completamente.

(Cf. H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 2008).

 

A causa dell’amore per lui, dimostreremo amore per gli altri

Cerchiamo, vi prego, di amare Cristo. Egli da te non desidera nient’altro se non che tu lo ami con tutto il cuore e compia i suoi comandamenti. Chi lo ama come si deve, evidentemente si sforza anche di adempiere i suoi comandamenti. Quando infatti si comporta con sincerità nei confronti del prossimo, cerca di fare di tutto per attirare a sé l’amato. Anche noi, dunque, se amiamo con sincerità il Signore, possiamo adempiere i suoi comandamenti e non far nulla di ciò che può irritare l’amato.

Questo è il regno dei cieli, questo il godimento dei beni, questo ottiene i mille beni: l’amare sinceramente e nel modo dovuto. Lo ameremo sinceramente se, a causa dell’amore per lui, dimostreremo grande amore per gli altri, servi al pari di noi. Sta scritto: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i profeti» (Mt 22,40), cioè dall’amare il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come e stesso (cfr. Mc 12,30-31). Questo è il culmine di tutte le virtù, questo è il fondamento. All’amore verso Dio si aggiunge anche l’amore verso il prossimo. Colui che ama Dio, infatti, non deve disprezzare suo fratello, e non deve stimare il denaro più di un membro del suo corpo, e deve mostrare una grande benevolenza nei suoi confronti, ricordando ciò che Cristo ha detto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). E considerando che il Signore dell’universo ritiene come reso a se stesso il servizio prestato a un compagno, farà tutto con grande sollecitudine e nell’elemosina mostrerà una grande generosità; non rifiuterà la miseria apparente del povero, ma guarderà alla grandezza di Colui che ha promesso di accogliere come compiuta per sé stesso qualunque cosa operata a favore di un povero. Non tralasciamo, dunque, il profitto delle nostre anime, la medicina delle nostre ferite. E questo, infatti, è questo che ci offre una medicina tanto efficace da far scomparire le ferite delle nostre anime in modo da non lasciare nessuna traccia, nessuna cicatrice, cosa che non è possibile per le ferite del corpo.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla Genesi, Om. 55,3, PG 54,482-483).

 

L’amore incomincia in casa propria

«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre”. La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).

 

Amare l’altro con umiltà, discrezione e rispetto

«La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. “Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. “Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui».

(Thomas Merton, un monaco trappista).

 

Voglio Te solo, Signore

Ti ho cercato, o Signore della vita,

e tu mi hai fatto il dono di trovarti:

te io voglio amare, mio Dio.

Perde la vita, chi non ama te:

chi non vive per Te, Signore,

è niente e vive per il nulla.

Accresci in me, ti prego,

il desiderio di conoscerti

e di amarti, Dio mio:

dammi, Signore, ciò che ti domando;

anche se tu mi dessi il mondo intero,

ma non mi donassi te stesso,

non saprei cosa farmene, Signore.

Dammi te stesso, Dio mio!

Ecco, ti amo, Signore:

aiutami ad amarti di più.

 (Sant’Anselmo di Aosta)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)