III DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 2,14.22-33

[Nel giorno di Pentecoste,] Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così:

«Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nàzaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene –, consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso.

Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Dice infatti Davide a suo riguardo: “Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua, e anche la mia carne riposerà nella speranza, perché tu non abbandonerai la mia vita negli inferi né permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza”.

Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e il suo sepolcro è ancora oggi fra noi. Ma poiché era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: “questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione”. Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire».

 

 

  • Nella prima lettura di oggi leggiamo la parte centrale del lungo discorso di Pietro pronunciato a Gerusalemme la mattina di Pentecoste, che abbiamo iniziato domenica scorsa e termineremo nella prossima. Nella prima parte Pietro ha messo in relazione il dono delle lingue con l’effusione dello Spirito appena avvenuta, ed è ricorso alle Scritture pro-fetiche per accreditare il suo discorso e far capire che gli avvenimenti di cui egli e i suoi ascoltatori erano testimoni riguardavano i «tempi ultimi», vale a dire i tempi della presenza di Dio in maniera forte e definitiva. Ora cerca di chiarire lo stretto rapporto del dono dello Spirito con la vita, la morte e la risurrezione di Gesù.

     La vicenda dell’uomo Gesù si è svolta completamente nel segno di una particolare vicinanza di Dio. Egli infatti è «uomo accreditato da Dio» e ciò è dimostrato «per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi» (At 2,22; cf. Lc 24,19). «Come voi ben sapete»: gli ascoltatori di Pietro sono a conoscenza della vicenda terrena di Gesù.

     Pietro fa un rapido accenno alla morte di Gesù per sottolineare che Dio è presente anche in questo momento, come lo era stato nella sua vita, dato che Gesù è consegnato agli uomini per essere ucciso secondo «il prestabilito disegno e la prescienza di Dio» (At 2,23; cf. IPt 1,20). Siamo qui messi di fronte a un profondo e sconcertante mistero. Come possiamo pensare Dio che ingloba nel «suo prestabilito disegno» la morte e addirittura la morte di croce del giusto «accreditato presso di lui»?

     Pietro non indugia su questo, come pure accenna soltanto alla colpa degli uomini che l’hanno ucciso «per mano degli empi». Egli passa ad annunciare la gloria della risurrezione. Gli accenni alla vita e alla morte sono stati fatti per sottolineare che è lo stesso Gesù di Nazareth che è vissuto e morto in mezzo agli ascoltatori, colui che «Dio ha risuscitato» (At 2.24, cf 3 15; 13, 32.34; 17,31) Si tratta dell’annuncio centrale del discorso dell’ Apostolo, il Kerigma, sul quale si fonda il cristianesimo.

     Pietro a questo punto ricorre alla Scrittura per dare credito alle sue parole, come aveva fatto per illustrare la grandezza del dono dello Spirito.

     La lunga citazione del Salmo (At 2, 25-28; Sal 16.8-11) ci mostra la Risurrezione di Gesù come motivo di speranza e estrema fiducia in Dio. Il Salmista, infatti, proclama la sua speranza durante un pericolo mortale.

     Egli ha nella preghiera l’esperienza mistica della vicinanza di Dio per cui pur nella condizione precaria in cui ancora si trova può proclamare: «Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli» (At 2,25, Sal 16,8). La speranza si basa su una capacità interiore di percepire la presenza divina. Questo da gioia e rinnova la speranza, anzi da la certezza che Dio non abbandonerà alla morte il suo «santo» (chasid in ebraico, il fedele all’alleanza divina che mette in pratica la Torà).

     Pietro, dopo la citazione, si rivolge in modo familiare ai suoi ascoltatori, che chiama «fratelli» e spiega che le parole del Salmo non vanno attribuite alla persona di Davide, ma alla luce degli avvenimenti che hanno coinvolto Gesù di Nazareth possono essere riletti come riferiti al Cristo «questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione» (At 2.27, Sal 16,10). Per Gesù la presenza di Dio e la certezza della sua vicinanza dopo la morte è diventata realtà nella risurrezione, ma per i fedeli che contemplano le grandi opere di Dio rimane una speranza e il Salmo aiuta a guardare alla risurrezione come opera del Dio che è vicino anche a ciascuno di noi.

     In conclusione Pietro riassume l’annuncio che più gli preme di trasmettere: «Questo Gesù, Dio l’ha risuscitato e noi ne siamo testimoni, innalzato pertanto alla destra (alcuni manoscritti hanno «dalla destra») di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33).

 

Seconda lettura: 1 Pietro 1,17-21

Carissimi, se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri. Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio.

 

  • I versetti della lettera attribuita a Pietro sono stati scelti come commento al discorso dell’apostolo della prima lettura. L’uomo Gesù accreditato da Dio con segni e prodigi e risuscitato dai morti è il Cristo «predestinato già prima della fondazione del mondo» (1Pt 1.21; cf At 2,23). Si approfondisce quindi il mistero di Gesù nei suoi rapporti con Dio Padre. Attraverso Gesù conosciamo il Padre, lo preghiamo e sappiamo che Egli è giudice «che senza riguardi personali giudica ciascuno secondo le sue opere» (1Pt 1,17). Dio giudica con obiettività, è quindi giudice giusto come ci avverte il Deuteronomio (10,17): «Il Signore vostro Dio è il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli da pane e vestito».

     Il comportamento cristiano deve essere improntato al «timore» di Dio. Timore che biblicamente è la faccia speculare dell’amore, un amore filiale che comporta rispetto e obbedienza.

     Su questa terra siamo orientati verso Dio e dobbiamo vivere questa vita come un pellegrinaggio, che si concluderà solo nel mondo avvenire, quando saremo definitivamente con Dio. Qui sulla terra siamo sempre «come forestieri» (Lv 25,23; cf. Sal 39 (38), 13: 119 (118), 19. 54; Eb 11,13).

     I versetti 18-19 propongono due metafore per presentare la liberazione dal male degli esseri umani Quella del riscatto dello schiavo e quella sacrificale. Dio in Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato, analogamente a quanto ha compiuto per il suo popolo Israele, liberandolo dalla schiavitù dell’Egitto. In Gesù però «la mano potente di Dio» sembra si sia nascosta nell’impotenza di una morte vergognosa. Siamo di nuovo di fronte al mistero dell’operare di Dio e dobbiamo fare grande attenzione di non ridurre la redenzione operata da Cristo ad atto dovuto per placare la giustizia divina. Lo scritto apostolico vuole dirci che la redenzione è opera grande e assolutamente divina, il paragone con il riscatto è fatto proprio per sottolineare la grandezza del dono e al tempo stesso la povertà estrema degli esseri umani che non possono vantare nessun merito di fronte a Dio se non quello di essere stati tanto amati gratuitamente da lui.

 

Vangelo: Luca 24,13-35

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.

Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».

Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro.

Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».

Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

 

Esegesi

    L’episodio dell’apparizione di Gesù ai discepoli in cammino è appena accennato da Marco (16,12-13), Luca, invece lo narra con molti particolari: precisa anche il nome del villaggio, a cui sono diretti, Emmaus, e la distanza da Gerusalemme, circa sette miglia. Essi stanno parlando degli avvenimenti che riguardano Gesù. Senza preavviso. Gesù stesso si mette al loro fianco ed entra nei loro discorsi.

     Essi non lo riconoscono, come la Maddalena (cf. Gv 20,14). I loro occhi ne sono ancora incapaci (Lc 24,16). Il Risorto si può riconoscere come tale solo con gli occhi della fede, che è un dono dello Spirito.

     Il loro interrogarsi e discutere degli avvenimenti è un atteggiamento premiato da Gesù, che li guida ad adoperare le Scritture per cercare il senso teologico profondo degli avvenimenti stessi.

     Gesù compie un esercizio di interpretazione tipico dei maestri ebrei: le Scritture vanno continuamente rilette e scrutate per trovarne delle nuove interpretazioni, che non elidano le precedenti, ma le arricchiscano. Uno dei metodi adoperati dai maestri è proprio quello adottato da Gesù, vale a dire accostare tanti versetti presi dai diversi libri formando così

una «collana» (hariz) di testi: «Cominciando da Mosè» (Torà, Pentateuco) e da tutti i profeti (quelli che noi chiamiamo libri storici e profetici) spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27).

     La Parola così si apre (dianoigo, Lc 24,32) aprendo la mente e il cuore: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32).

     Il riconoscimento del Risorto da parte dei due discepoli non avviene, però, attraverso la spiegazione delle Scritture, ma nel gesto dello spezzare il pane. Le Scritture non forniscono delle dimostrazioni. Il riconoscere il Risorto è un dono di fede dello Spirito, non il frutto di una dimostrazione: anche la comprensione delle Scritture necessita dello stesso dono.

     Una volta riconosciuto il Risorto, scatta l’impegno di annunciarlo. I discepoli da Emmaus ritornano di corsa a Gerusalemme per far partecipi gli altri della loro gioiosa scoperta.

 

Meditazione 

     L’annuncio pasquale risuona in modo diverso nei testi biblici odierni: nel resoconto scettico dei due di Emmaus («Egli è vivente»: Lc 24,23), nell’annuncio vigoroso della predicazione di Pietro («Questo Gesù Dio l’ha risuscitato»: At 2,32), nella comunicazione di fede che Pietro indirizza alle comunità destinatarie della sua prima lettera («Dio l’ha risuscitato dai morti»: 1Pt 1,21).

    Il Risorto manifesta la sua presenza negli apostoli che sono divenuti suoi testimoni e che annunciandolo lo rendono presente tra gli uomini (At 2,32); nella fede e nella speranza che abitano i credenti (1Pt 1,21); nella riunione comunitaria e liturgica degli Undici a Gerusalemme (Le 24,33-35); nella Parola spiegata e nel Pane condiviso (Lc 24,25-32).

     Il tema del cammino è presente nelle tre letture. La resurrezione di Cristo è profetizzata dal mutamento attuato da Dio del cammino di morte del fedele in cammino di vita (Salmo 16 citato in At 2,25-28); la fede nel Cristo risorto nasce nei due di Emmaus durante un cammino che non è solo geografico, ma spirituale e che attraversa la disillusione e il dubbio, il vuoto e lo scetticismo (vangelo); la fede nel Cristo risorto da origine a un tipo di presenza cristiana nel mondo descritta come paroikía, cammino nel timore e nella speranza, cammino come in terra straniera (II lettura).

    Per i due di Emmaus l’incontro con il Risorto segna il passaggio dalla de-missione alla missione e diviene la storia di una ricreazione. Le loro orecchie ascoltano la spiegazione della Scrittura, il loro cuore viene rianimato e scaldato, i loro occhi si aprono, la loro parola ritrova capacità di comunicazione e di comunione, le loro persone ridiventano capaci di relazione: insistono perché Gesù, che prima avevano trattato con sufficienza, si fermi con loro e sieda a tavola con loro. Essi ritrovano il coraggio della relazione e della speranza. E trovano la forza di ritornare alla comunità che avevano abbandonato. Sì, a volte è difficile rimanere nella chiesa e la tentazione dell’abbandono si può far sentire, per i più svariati motivi. Ma il motivo unico che rende vivibile la chiesa è la fede nel Risorto: grazie ad essa è possibile non solo perseverare, ma fare della perseveranza un’esperienza di resurrezione, una partecipazione spirituale alla vita del Risorto. La chiesa, pur con le sue povertà e i suoi peccati, è il corpo di Cristo, il reale luogo della fraternità che impedisce la riduzione della fede a docetismo o a gnosi.

    La presenza del Risorto è invisibile e silenziosa. Essa si rende visibile nel volto di uno straniero, di un pellegrino che diviene improvvisato compagno di strada, e parla attraverso le parole della Scrittura. La Bibbia e l’altro uomo, la Parola di Dio contenuta nelle Scritture e il volto dell’altro, soprattutto dello straniero e del povero, sono luoghi per eccellenza in cui la presenza del Risorto può incontrarci ricordandoci il comando evangelico: ama Dio e il tuo prossimo.

    Il forestiero sconosciuto diventa il portatore della rivelazione. Lo straniero incontrato da Cleopa e dall’altro discepolo anonimo non viene riconosciuto e deve scontrarsi con la loro diffidenza e sufficienza, salvo rivelarsi poi l’inviato di Dio. Il riconoscimento dello straniero passa attraverso un lavoro di memoria che restituisce i due discepoli alla loro storia. Più che sconosciuto, era non-riconosciuto. Riconosciutolo, non lo vedono più, ma sono rinviati a se stessi e possono riannodare i fili della loro storia e ricompattare la loro comunità. Lo straniero che ci visita, che incrocia i nostri cammini, incontra spesso, analogamente, la nostra diffidenza, il nostro senso di superiorità, la nostra paura, il nostro odio. Ma in verità, noi lo temiamo perché ci conduce al confronto con noi stessi. Lo straniero fa di noi degli stranieri: lui è straniero per me e io sono straniero per lui. Egli rivela, personalizzandola con la sua diversità evidente, una dimensione nascosta, e temibile, di me. Riconoscere lui (senza appropriarsi di lui) significa anche riconoscere noi stessi (senza disappropriarci di noi). Allora l’incontro può divenire apparizione.

 

Immagine della Domenica

 

Camminando si fa il cammino

Tu che cammini, sono le tue tracce

il cammino e null’altro;

tu che cammini, non c’è cammino,

il cammino si fa camminando.

Camminando si fa il cammino

e volgendo indietro lo sguardo

si vede il cammino sul quale mai più

si ritornerà a camminare.

Tu che cammini, non c’è cammino,

tranne delle scie nel mare.

(A. Machado)

 

Preghiere e racconti

 

A Emmaus per guardare negli occhi il Viandante

Abu Gosh – identificata al tempo dei Crociati come il villaggio di Emmaus – era l’ultima tappa del nostro pellegrinaggio in Terra Santa. Salimmo dapprima in alto sulla collina, dove dal giardino a terrazza delle Suore di Maria, Arca dell’Alleanza, avremmo potuto ammirare ancora una volta Gerusalemme, netta fra le colline all’orizzonte, solenne nelle sue sagome di pietra, immersa nella sua ineguagliabile luce dorata. In quel posto gli “ozevanim” – gli Ebrei costretti a lasciare la Città Santa – solevano piangere e strapparsi le vesti, per esprimere il senso di lacerazione e perfino di bestemmia provato nel separarsi da Sion. La nostalgia prendeva anche il nostro cuore. Dalla collina scendemmo alla Chiesa crociata, purissima nelle sue linee gotiche. Un’antica iscrizione marmorea all’esterno della Cripta riportava il nome della “X Legio Fretensis”, la legione romana di occupazione ai tempi del cristianesimo nascente. La Comunità monastica, col suo canto in latino, ebraico e francese, rendeva quel luogo una sorta di sigillo orante del dialogo necessario fra le fedi e le culture. Lo splendore del giardino, inondato dal sole dell’estate, che esaltava i colori e bruciava nell’aria i profumi, rendendoli quasi tocchi d’incenso, sembrò ancor più illuminarsi alla luce del racconto: era la narrazione del giorno della storia che avrei voluto vivere, “il primo giorno della settimana” dopo i dolorosi e misteriosi eventi di quella Pasqua singolare. In quel giorno, anonimo agli occhi delle cronache, due discepoli del Nazareno erano in cammino verso quel villaggio, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre discutevano, lo Straniero si avvicinò e prese a camminare accanto a loro. I loro occhi erano però impediti nel riconoscerlo. Fu lui a rompere il ghiaccio. «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?», chiese. Si fermarono, col volto che tradiva la profonda tristezza del cuore: essi lo avevano amato, avevano creduto in lui, giocando la loro vita nella decisione di seguirlo. Ed ora tutto era finito, nel modo più doloroso, certamente il più scandaloso per loro: morto appeso al palo della vergogna, il Rabbi che li aveva incantati, il loro Maestro, pareva essere stato smentito dai fatti. Quel suo grido sulla Croce aveva fatto risuonare assordante il silenzio del Padre, di cui pure tanto aveva parlato: «Elì, Elì, lemà sabactàni?» – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». L’amore non può perdonare la morte: perciò il loro cuore era triste, perché la morte pareva aver inghiottito il loro Signore, e con lui ogni loro speranza, per sempre.

Uno dei due – si chiamava Clèopa – rispose allo Straniero con una battuta, fra il lamentoso e l’ironico: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Lo Straniero sembrò far più caso al dolore, che all’ironia, e domandò col tono che scioglie le labbra e fa venir fuori la pena nascosta: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse colui che avrebbe liberato Israele; invece, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Solo alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Le parole erano uscite dalla bocca di Clèopa come un fiume in piena. Il suo compagno (chi era? io? tu?) era rimasto in silenzio, del tutto partecipe, come se l’altro avesse saputo esprimere perfettamente il tumulto del suo cuore. Lo Straniero ebbe una reazione singolare. Senza mezzi termini apostrofò i due: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Da pii figli d’Israele, i due erano abituati a far memoria della straordinaria storia d’amore fra il Dio unico e il popolo eletto, rivivendola ogni volta con partecipazione intensa, in ogni tappa. Mai però il loro cuore si era acceso così all’ascolto di qualcuno. Fra lo stupore e il timore cominciò a farsi strada in loro una domanda: perché le parole di quello Straniero prendevano così la loro anima? Non aveva qualcosa in comune quella voce con quella del Profeta di Galilea, in cui avevano creduto? Possibile che fosse lui? La sua morte era fuori discussione. Ma profezie enigmatiche non erano mancate nella sua predicazione: «Distruggete questo tempio – aveva ad esempio detto una volta – e in tre giorni lo farò risorgere». Chiunque fosse quell’uomo, era bello ascoltarlo e il cuore si struggeva alle sue parole. Era come una tenebra che andava rischiarandosi, come quella della notte prossima alla luce dell’aurora.

Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andar oltre. Perderlo proprio ora appariva loro inaccettabile. Che chiarisse l’enigma. O, almeno, che il balsamo della sua parola continuasse ancora per un po’ a scendere sulle ferite del loro cuore. Fu per questo che insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Per un curioso paradosso quelle parole, mentre descrivevano l’esteriore calare della notte nei tramonti infuocati sulle alture della Giudea, evocavano ai due le tenebre scese dentro di loro, l’assenza di futuro che era seguita al rantolo del Profeta abbandonato sulle braccia della Croce. Forse perciò egli cedette alla richiesta con remissività, quasi per un atto di tenerezza compassionevole ed entrò per rimanere con loro. La locanda era semplice, una delle tante disposte ad accogliere i viandanti per il ristoro del cibo e del riposo sulle strade polverose della terra d’Israele al termine del giorno. Una volta a tavola, lo Straniero prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Era il gesto del capofamiglia nella cena pasquale. Era il gesto che Lui aveva compiuto per loro la sera di quell’ultima cena. Ed ora a compierlo era quello che avevano pensato fosse solo uno Straniero. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero: «Non ci ardeva forse il cuore in petto mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Ma egli sparì dalla loro vista. Non aveva detto alla donna, andata al sepolcro il mattino del giorno dopo il sabato: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre»? Non aveva promesso ai discepoli di precederli in Galilea? E al profeta Elia sul monte il Signore non era passato accanto fugace, come una “voce del silenzio”?

Storditi com’erano dall’emozione, cominciarono a ridirsi l’uno all’altro ciò che avevano vissuto con lui lungo la strada: al racconto si sovrapponevano le domande. Come avevano potuto non capire? Quelle parole, quella voce, la luce sulle Scritture… Perché non l’avevano riconosciuto subito? La tristezza a volte fa brutti scherzi, e ancor più la paura e la diffidenza verso l’altro. Ma ora la luce era così grande che – pur essendo notte, e perciò sconsigliabile il viaggio – decisero di partire senza indugio per far ritorno a Gerusalemme. Il tempo volò, tanto che quando giunsero era mattino e trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, mentre dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narrarono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Da allora la loro vita fu cambiata per sempre. E con la loro lo fu la vita del mondo. Nulla sarebbe più stato lo stesso. Il fatto che Dio avesse fatto sua la morte e che così l’avesse vinta era la notizia più sconvolgente della storia, quella che avrebbe dato a tutti la speranza della vita. Perciò avrei voluto essere lì quel giorno, come il compagno di Cléopa: a quello Straniero fattosi compagno del cammino, come tanti altri nel tempo, più di me e meglio di me, ho dato la mia fede e la vita. Anche a me è accaduto che le sue parole facessero ardere il cuore. Perciò, anche per me tutto è cambiato allora. Nella locanda di Emmaus si sono aperti anche i miei occhi: e quel giorno qualunque è diventato per me, come per tanti, il giorno più importante della storia, il giorno dell’incontro che ti dà luce per vivere e per morire e la speranza di vincere la morte in te e in tutti, per sempre. È il giorno che ha illuminato la vita dei santi, da Paolo ad Agostino, da Francesco a Tommaso, da Domenico a Ignazio di Loyola, da Alfonso de’ Liguori a Madre Teresa di Calcutta, fino agli innumerevoli, nascosti profeti della carità, che nelle situazioni più difficili danno la vita per chi manca di tutto, o agli innamorati servitori del Vangelo, che lo ascoltano per vivere di esso ed annunciarlo fino agli estremi confini della terra… Un’incontro, quello di Emmaus, che le cronache non riportano, ma che la testimonianza di fede dell’evangelista Luca alla fine del suo Vangelo ha saputo trasmetterci con freschezza singolare, tanto che il cuore di chi crede vi si può riconoscere, fino a identificarsi con l’innominato compagno di Clèopa, fino a percepire quel tramonto, vissuto un giorno di duemila anni fa, in una locanda sulle alture della Giudea, come l’alba del nuovo inizio di tutto, per tutti…

(Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, in Il Sole 24 Ore (23 agosto 2009).

 

Non andare via, Signore

 Signore, se la porta del mio cuore dovesse restare chiusa un giorno,

abbattila ed entra, non andare via.

Se le corde del mio cuore, non dovessero cantare il tuo nome un giorno,

ti prego aspetta, non andare via.

Se non dovessi svegliarmi al tuo richiamo un giorno,

svegliami con la tua pena… non andare via.

Se un altro sul tuo trono io dovessi porre un giorno,

tu, mio Signore eterno, non andare via.

(Rabindranath Tagore).

 

Da chi andremo?

«Da chi altri andremo, Signore?

Solo Tu hai parole di vita»,

eppur sempre la strada porta a fuggire dal monte del sangue.

Il sepolcro ha pesante la pietra

e il tuo fianco è squarciato per sempre:

come dunque possiamo capire il mistero, se tu non lo sveli?

Mentre il sole già volge al declino,

sii ancora il viandante che spiegale Scritture

e ci dona il ristoro con il pane spezzato in silenzio.

Cuore e mente illumina ancora

perché vedano sempre il tuo volto

e comprendano come il tuo amore

ci raggiunge e ci spinge più al largo.

A te, Cristo, risorto e vivente, dolce amico che mai abbandoni

con il Padre e lo Spirito santo

noi cantiamo la gloria per sempre.

(Inno di D.M. Turoldo, Neanche Dio può stare solo, Piemme, Casale Monferrato 1991, pp. 107-108).

 

Resta con noi, Signore

Resta con noi, Signore Gesù, perché senza di te il nostro cammino rimarrebbe immerso nella notte. Resta con noi, Signore Gesù, per condurci sulle vie della speranza che non muore, per nutrirci con il pane dei forti che è la tua parola.

Resta con noi sino all’ultima sera, quando chiusi i nostri occhi, li riapriremo davanti al tuo volto trasfigurato dalla gloria e ci troveremo tra le braccia del Padre nel regno del divino splendore.

Su questa strada sempre pellegrini – peso di solitudine nel cuore – vienici incontro tu, il Vivente tra i morti, e spezzaci il pane dell’amore. Su questa lunga strada dove, al tramonto, si stendono le nostre ombre, accendi, o Viandante avvolto di mistero, il vivido bivacco della tua parola e sapremo dal suo bruciante ardore che più viva, più forte la nostra Speranza è risorta.

Sì, apri la nostra mente a comprendere la Parola che sola può dissipare i dubbi che ancora sorgono nel nostro cuore. Quante volte anche noi, incapaci di riconoscerti, ti abbiamo rinnegato! Ma tu, il Giusto, con mite patire ti sei fatto vittima di espiazione per i nostri peccati. Ora non lasciarci esitanti e turbati: la tua presenza infonda in noi la pace, il tuo spirito rischiari il nostro sguardo e ci renda gioiosi testimoni del tuo amore.

Accogliete Cristo per essere da lui accolti

Fratelli carissimi, avete sentito che il Signore apparve lungo il cammino a due discepoli che non ancora credevano, ma che tuttavia parlavano di lui, ma non mostrò loro un aspetto per il quale fosse possibile riconoscerlo. Il Signore agì dunque all’esterno mostrandosi agli occhi del corpo in accordo con quando accadeva loro nell’intimo, agli occhi dell’anima. Essi infatti nell’intimo amavano e dubitavano e, d’altro lato, il Signore all’esterno era presente, ma non mostrava la sua identità. Stette con loro che parlavano di lui, ma poiché dubitavano, nascose l’aspetto in base al quale avrebbero potuto riconoscerlo. Parlò con loro, rimproverò l’ostinazione della loro mente, svelò i misteri della Scrittura che si riferivano a lui e, tuttavia, poiché nei loro cuori era ancora un pellegrino rispetto alla loro fede, finse di andare più lontano. […] Dovevano essere messi alla prova per vedere se, sebbene non fossero ancora pronti ad amarlo come Dio, erano in grado di amarlo come pellegrino. Ma poiché questi due discepoli con i quali camminava la Verità non potevano sottrarsi alla carità, gli offrirono accoglienza come a un pellegrino. Perché diciamo «gli offrirono» dal momento che sta scritto: «Lo costrinsero» (Lc 24,29)? Da questo esempio si ricava che i pellegrini non devono essere soltanto invitati, ma attirati all’ospitalità. I due discepoli preparano la mensa, offrono i cibi e allo spezzare del pane riconoscono quel Dio che non avevano riconosciuto quando spiegava le Scritture. Veniamo illuminati non tanto ascoltando i precetti, ma mettendoli in pratica. Non sono stati illuminati dunque nell’ascoltare i precetti di Dio, ma lo sono stati nel metterli in pratica poiché sta scritto: «Non quelli che ascoltano la Legge sono giusti al cospetto di Dio, ma quelli che la mettono in pratica saranno giustificati» (Rm 2,13). Chi dunque vuole comprendere ciò che ha ascoltato si affretti a mettere in pratica quello che già è riuscito a capire. Vedi, il Signore non fu riconosciuto mentre parlava, accettò di essere riconosciuto mentre mangiava. Perciò, fratelli carissimi, amate l’ospitalità, amate le opere di carità. Per questo Paolo dice: «Si pratichi fra voi la carità fraterna e non vogliate dimenticare l’ospitalità. Grazie ad essa alcuni furono graditi avendo accolto come ospiti degli angeli» (Eb 13,1-2). E Pietro scrive: «Siate ospitali gli uni verso gli altri, senza mormorare» (1Pt 4,9). E la Verità stessa dice: «Sono stato forestiero e mi avete accolto» (Mt 25,35). […] Accogliete Cristo alla vostra mensa per poter essere da lui accolti nel banchetto eterno. Offrite ora ospitalità a Cristo pellegrino, affinché nel giorno del giudizio non siate stranieri e ignoti a Lui, ma vi accolga fra i suoi nel Regno, con l’aiuto di chi vive e regna, Dio nei secoli dei secoli.

Amen.

(GREGORIO MAGNO, Omelie sui vangeli 23,1-2, in Opere di Gregorio Magno, pp. 294-296).

 

Preghiera

Signore Gesù, grazie perché ti sei fatto riconoscere nello spezzare il pane. Mentre stiamo correndo verso Gerusalemme e il fiato quasi ci manca per l’ansia di arrivare presto, il cuore ci batte forte per un motivo ben più profondo.
Dovremmo essere tristi, perché non sei più con noi. Eppure ci sentiamo felici. La nostra gioia e il nostro ritorno frettoloso a Gerusalemme, lasciando il pasto a metà sulla tavola, esprimono la certezza che tu ormai sei con noi.
Ci hai incrociati poche ore fa su questa stessa strada, stanchi e delusi. Non ci hai abbandonati a noi stessi e alla nostra disperazione. Ci hai smosso l’animo con i tuoi rimproveri. Ma soprattutto sei entrato dentro di noi. Ci hai svelato il segreto di Dio su di te, nascosto nelle pagine della Scrittura. Hai camminato con noi, come un amico paziente. Hai suggellato l’amicizia spezzando con noi il pane, hai acceso il nostro cuore perché riconoscessimo in te il Messia, il Salvatore di tutti.
Quando, sul far della sera, tu accennasti a proseguire il tuo cammino oltre Emmaus, noi ti pregammo di restare.
Ti rivolgeremo questa preghiera, spontanea e appassionata, infinite altre volte nella sera del nostro smarrimento, del nostro dolore, del nostro immenso desiderio di te. Ma ora comprendiamo che essa non raggiunge la verità ultima del nostro rapporto con te. Per questo non sappiamo diventare la tua presenza accanto ai fratelli.
Per questo, o Signore Gesù, ora ti chiediamo di aiutarci a restare sempre con te, ad aderire alla tua persona con tutto l’ardore del nostro cuore, ad assumerci con gioia la missione che tu ci affidi: continuare la tua presenza, essere vangelo della tua risurrezione.
Signore, Gerusalemme è ormai vicina. Abbiamo capito che essa non è più la città delle speranze fallite, della tomba desolante. Essa è la città della Cena, della Croce, della Pasqua, della suprema fedeltà dell’amore di Dio per l’uomo, della nuova fraternità. Da essa muoveremo lungo le strade di tutto il mondo per essere autentici “Testimoni del Risorto”. Amen»

(Carlo Maria Martini, Partenza da Emmaus, Centro Ambrosiano di Documentazione e Studi Religiosi, Milano, 1983, pagg. 8-9).

 

Preghiera

Resta con noi, Signore Gesù, perché senza di te il nostro cammino rimarrebbe immerso nella notte. Resta con noi, Signore Gesù, per condurci sulle vie della speranza che non muore, per nutrirci con il pane dei forti che è la tua parola.

Resta con noi sino all’ultima sera, quando chiusi i nostri occhi, li riapriremo davanti al tuo volto trasfigurato dalla gloria e ci troveremo tra le braccia del Padre nel regno del divino splendore.

 

III Domenica di Pasqua   

 

Pontormo (Carucci, Jacopo detto 1494-1556), Cena in Emmaus,Firenze, Galleria degli Uffizi.

© 2014. Foto Scala Firenze – Su concessione Ministero Beni e Attività Culturali.

«”Rimani con noi, Signore, perché si fa sera” (cf. Lc 24,29). Fu questo l’invito accorato che i due discepoli, incamminati verso Emmaus la sera stessa del giorno della risurrezione, rivolsero al Viandante che si era ad essi unito lungo il cammino. Carichi di tristi pensieri, non immaginavano che quello sconosciuto fosse proprio il loro Maestro, ormai risorto. Sperimentavano tuttavia un intimo “ardore”, mentre Egli parlava con loro “spiegando” le Scritture. La luce della Parola scioglieva la durezza del loro cuore e “apriva loro gli occhi”. Tra le ombre del giorno in declino e l’oscurità che incombeva nell’animo, quel Viandante era un raggio di luce che risvegliava la speranza ed apriva i loro animi al desiderio della luce piena. “Rimani con noi”, supplicarono. Ed egli accettò. Di lì a poco, il volto di Gesù sarebbe scomparso, ma il Maestro sarebbe “rimasto” sotto i veli del “pane spezzato”, davanti al quale i loro occhi si erano aperti» (Giovanni Paolo II, Mane nobiscum Domine 1).
Jacopo Carucci, più noto come il Pontormo, con il suo stile artistico inconfondibile colloca l’episodio evangelico in un tempo che appare come sospeso. Il gesto benedicente di Gesù, posto frontalmente al centro del dipinto che presenta uno sfondo scuro e profondo, attira immediatamente l’attenzione dello sguardo. Al realismo degli oggetti e del pane posti sulla tavola fa da contrappunto l’atmosfera che caratterizza l’intero dipinto. I discepoli non hanno ancora riconosciuto nel viandante che aveva percorso con loro un tratto di strada Gesù Risorto.
L’artista raffigura invece proprio l’istante in cui Gesù sta per spezzare il pane e in cui si aprirono loro gli occhi e riconobbero il Signore. L’apparizione miracolosa di Gesù incontra perciò i gesti ordinari dei personaggi implicati nella scena. I due discepoli sono seduti su semplici sgabelli di legno ed hanno i piedi nudi. Uno di loro è intento a versare del vino in un calice di vetro, l’altro si accinge a tagliare il pezzo di pane che ha in mano. Sono presenti anche altri personaggi, alcuni monaci certosini, che assistono alla scena che avviene sotto lo sguardo divino, poiché nello spezzare il pane la luce soprannaturale della verità raggiunge i discepoli.
 
Il verismo voluto dall’artista incontra la solenne e raffinata gestualità del Cristo che fissa l’osservatore e lo coinvolge nella sua azione, rendendo contemporaneo a tutte le generazioni cristiane l’evento salvifico e chiamando a raccolta, attorno a quella mensa, anche i discepoli delle future generazioni.
Ancora oggi la Chiesa prega perché nella fractio panis possa riconoscere il Cristo crocifisso e risorto che apre il cuore dei suoi discepoli all’intelligenza delle Scritture e si rivela ai suoi nell’atto dello spezzare il pane (cf. Preghiera Colletta). Tra le prove, le tribolazioni e le persecuzioni della storia la Chiesa fa esperienza dell’incontro con il Risorto che riconosce lungo il cammino che condivide con l’umanità intera e, confortata dalla sua presenza, si rivolge al suo Signore nella preghiera: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (
Lc 24,29
).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA III DOMENICA DI PASQUA (A)