Prima lettura: Genesi 12,1-4
In quei giorni, il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.
|
-
Una richiesta di ascolto che si fa coraggiosa accoglienza è formulata anche nella prima lettura che narra la vocazione di Abramo.
La costruzione del brano segue lo schema: comando, promessa, esecuzione. Dio è il soggetto del primo verbo e rimane idealmente il soggetto di tutta la storia della salvezza che segue. Il discorso di Dio incomincia con un imperativo che esige da Abramo una radicale rottura con tutti i legami naturali, quello del paese, della parentela più larga e quello della famiglia. Abramo deve abbandonare ogni cosa e affidarsi esclusivamente alla guida di Dio. Deve ascoltare lui solo.
La richiesta di Dio è esigente ma non invita ad un salto nel vuoto. Nelle frasi che seguono ritorna non meno di cinque volte la radice «benedire». Se Dio esige molto; è pure capace di assicurare un benessere che investe la persona di Abramo e tutta la sua discendenza. Abramo appare fin dall’inizio il modello esemplare di tutti coloro che accolgono la parola divina. Egli sarà il capostipite del popolo ebraico che lo chiama «nostro padre», ma sarà additato come modello di fede anche ai cristiani (cf. Paolo in Rm 4). Anche il Corano, il libro sacro dell’islam, tributerà un grande onore al patriarca.
La frase finale «Abramo partì (letteralmente: si mise in viaggio)» è più efficace di qualsiasi descrizione psicologica e nella sua grandiosa semplicità ci rivela meglio di ogni altra cosa la portata di questo avvenimento. Abramo fa suo il progetto divino e si sottomette a quella parola dura ma capace di assicurare vita e prosperità. L’ascolto si fa obbedienza e l’obbedienza è premessa di ricca benedizione.
Seconda lettura: 2Timoteo 1,8b-10
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.
|
-
L’ascolto va fatto a Dio (prima lettura e Vangelo) e a coloro che lo rappresentano. In questa lettera che costituisce quasi il suo testamento spirituale, Paolo non manca di dare preziose indicazioni al suo fedele collaboratore Timoteo.
Il minuscolo brano è composto da un’esortazione iniziale e da un mini trattato teologico che fonda e giustifica tale esortazione.
L’inizio raccomanda: «Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo». Senza mimetizzare il duro lavoro apostolico, Paolo parla apertamente della sofferenza procurata dall’annuncio del Vangelo. Le resistenze e le ostilità di vario genere non devono scoraggiare o bloccare Timoteo, corroborato sia dall’esempio di Paolo, sia, soprattutto, dalla forza che viene da Dio stesso.
Vale la pena di impegnarsi totalmente per il Vangelo perché esso è annuncio ed esperienza di salvezza. Lo dice tutto il resto del brano, presentando corpose linee teologiche. La salvezza viene da Dio, è suo dono e non nostro merito. Tale salvezza o grazia giunge a noi per mezzo di Cristo Gesù, chiamato «salvatore nostro». La sua opera consiste soprattutto nel mistero pasquale, richiamato nella frase finale.
Se Timoteo ascolta Paolo e lavora indefessamente per portare il Vangelo che è Cristo stesso, allora la salvezza si può impiantare nella vita degli uomini e determinare un nuovo corso della loro esistenza.
Vangelo:Matteo 17,1-9
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». |
Esegesi
Dopo il brillante superamento della tentazione di domenica scorsa siamo immersi nella gloriosa scena di oggi. La trasfigurazione è un tripudio di luce durante il cammino verso la croce. La quaresima ci chiama a rinnovare il nostro impegno cristiano, assicurandoci la possibilità della vittoria e, di più ancora, della gloria. Condizione: seguire Gesù, come ci raccomanda, anzi comanda, la voce divina: «Ascoltatelo».
Il nostro episodio è collocato tra il primo e il secondo annuncio della passione-risurrezione di Gesù. Poiché Marco e Luca, al pari di Matteo seguono la stessa sequenza, si deve dedurre l’importanza e la necessità di questo ordine. La trasfigurazione di Gesù sul monte non è quindi un episodio isolato, ma prende significato nel contesto del mistero pasquale.
La scansione dell’episodio segue un chiaro tracciato. Si parte da una premessa storico-geografica (v. 1) e si passa poi al tentativo di esprimere con immagini qualcosa dell’evento (v. 2). La sua straordinarietà è anche affidata alla presenza di due autorevoli testimoni quali Mosè ed Elia (v. 3), alla frase maldestra di Pietro che non riesce a percepire bene il senso di quanto sta vivendo (v. 4) e alla nube luminosa, segno di un grande intervento di Dio. La sua voce sta come cuore e vertice di tutto il brano, indicando in Gesù colui che i discepoli devono seguire incondizionatamente (v. 5). Raggiunto l’apice con la parola divina, ecco la reazione umana fatta di prostrazione a terra e di timore reverenziale (v. 6), cui segue la parola rassicurante di Gesù (v. 7) e quindi il ritorno alla normalità (v. 8). Il comando di non divulgare l’accaduto prima della risurrezione di Gesù (v. 9) sta a indicare che l’episodio prende intelligibilità solo alla luce del mistero pasquale: un’ulteriore conferma che i due annunci di passione-risurrezione, incorniciando il brano, ne sono già una prima chiave interpretativa.
Il gruppo degli apostoli, normalmente compatto, conosce eccezionalmente una drastica riduzione nell’episodio odierno che mette in scena solo tre testimoni: Pietro, Giacomo e Giovanni. La scelta si radica nell’imperscrutabile volontà di Gesù. Si possono fare solo dei timidi tentativi per intuire qualcosa di quella volontà. La presenza di Pietro è scontata, data la sua nuova responsabilità (cf. poco prima in 16,13-19). Meno comprensibile la presenza dei due fratelli Giovanni e Giacomo, scelti forse, perché il primo è il discepolo prediletto e l’altro colui che testimonierà per primo la fedeltà a Cristo con il martirio nell’anno 44 (cf. At 12,1-2). In ogni caso, i tre sono gli stessi che qualche tempo più tardi saranno chiamati a condividere un’altra esperienza con Gesù, quella della sua agonia nell’orto degli Olivi. La presenza degli stessi testimoni crea una correlazione tra i due episodi, l’uno di gloria e l’altro di sofferenza.
La trasfigurazione
La trasfigurazione avviene in un contesto di lontananza dalla vita ordinaria. Il testo parla di Gesù che conduce i tre in disparte e su un alto monte. È un momento di astrazione dalla vita quotidiana per far tacere le voci rumorose dell’affannoso vivere per calarsi nel silenzio che favorisce l’incontro con Dio. Già il profeta Osea suggeriva questo fruttuoso ritiro: «La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16).
In generale, il monte è luogo abituale di incontro con Dio. Anche Mosè era salito sul monte per ascoltare la volontà divina, codificata nelle Dieci Parole (cf. Es 19,20). È sulla montagna che si incontra Dio. In tutte le religioni, le divinità hanno la loro abitazione sulla montagna che è il luogo dove cielo e terra s’incontrano.
Il monte della trasfigurazione è stato identificato dal IV secolo – e forse già prima da Origene – con il Tabor, che in realtà non raggiunge i seicento metri sul livello del mare. La sua posizione nella grande pianura di Esdrelon lo rende, nella mappa geografica palestinese, «un alto monte». Inoltre «alto» ha più valore teologico che geografico: esprime allontanamento dal vivere abituale e lo sforzo di ascesa per raggiungere la vetta.
L’evento di cui essi furono privilegiati testimoni viene chiamato trasfigurazione. Con questo termine si vuole dire che Gesù si presenta diverso transfigurato, cioè al di là (trans) dell’aspetto abituale. È la presentazione del Gesù profondo, quello che normalmente non si conosce. Nell’impossibilità di esprimere a parole il fascio eterogeneo di fatti, sensazioni, emozioni e sentimenti di quanto accaduto, l’evangelista si rifugia nelle immagini: il volto di Gesù diventa splendente come il sole e le sue vesti candide come la luce. La luce, simbolo della presenza divina, investe sia il volto sia le vesti, cioè tutta la realtà di Gesù, dentro e fuori. Si vuol dire che ai tre è concesso di assistere a una manifestazione divina. Sul monte è già paradiso, sul monte è già eternità.
Mosè ed Elia
Tutto parla al superlativo, anche la presenza di due autorevoli personaggi quali Mosè ed Elia. La legge ebraica esigeva che un fatto fosse comprovato dall’attestazione di due testimoni (cf. Dt 19,15): ecco il primo significato della presenza dei due.
Di più, essi sono visti come il simbolo dell’Antico Testamento, i rappresentanti della legge e dei profeti, i due precursori o testimoni dell’alleanza. Si aggiunga pure che di essi si attendeva il ritorno. Mosè aveva promesso al suo popolo: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me: a lui darete ascolto» (Dt 18,15). Di Elia aveva profetizzato Malachia: «Ecco io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Mal 3,23). Il rabbino Jochanan ben Zaccai avrebbe detto: «Dio disse a Mosè: quando invierò il profeta Elia, voi due verrete insieme».
La loro presenza conferisce autorità all’uomo Gesù che, immerso nella luce divina, si qualifica agli occhi dei discepoli come una persona di eccezionale valore. I due testimoniano che la storia è giunta alla sua grande svolta, perché è arrivato il tempo promesso e da tanto atteso, il tempo del Messia.
L’intervento di Pietro
A questo punto Pietro è l’unico che riesce a verbalizzare i propri sentimenti ed esce con l’espressione: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Le sue parole portano il marchio della spontaneità, ma anche quello della istintività e della irriflessione.
È una reazione maldestra, inconsulta, tipica dell’uomo che sembra generoso nel pensare agli altri, ma che in realtà pensa egoisticamente a se stesso e al gruppetto. Pensa esclusivamente all’ora presente che intende trattenere in forma stabile ed esclusiva. Secondo il profeta Osea, l’abitazione sotto le tende è un segno della visita che Dio compie alla fine del tempo per abitare per sempre con il suo popolo (cf. Os 12,10). Pietro pensa che la fine del tempo sia lì, sul monte, e che conviene inaugurare il cielo sulla terra. Le sue sono le parole dell’uomo che vorrebbe eternare quell’attimo per goderlo per sempre.
Pietro esprime un sentimento umanamente condivisibile. Tutti vorrebbero dimenticare un passato gravato di difficoltà e ignorare un futuro carico di incognite, per assaporare unicamente un presente gratificante.
Anche se comprensibile e in parte giustificabile, il desiderio di Pietro rimane interiormente bacato, perché vorrebbe snaturare la finalità dell’esperienza. La sua rimane una risposta impropria perché non ha ancora ascoltato, volendo rispondere prima di capire il senso profondo dell’avvenimento. La trasfigurazione è un fatto divino e si comprende solo se Dio ne offre la chiave. Per questo occorre prima ascoltare Dio, e solo in seguito sarà possibile dare una risposta adeguata e corretta.
La testimonianza di Dio
La scena, già grandiosa, raggiunge il suo apice con la presenza e la parola di Dio. La nuvola luminosa è la forma sensibile con la quale Dio si rivela. Opaca e risplendente allo stesso tempo, essa manifesta Dio presente senza rivelarne il mistero. È la nube che guida il popolo nel deserto (cf Es 13,21), è dalla nube che Dio parla a Mosè (cf. Es 24,18), è ancora la nube che riempie il tempio al momento della sua consacrazione (cf. 1Re 8,10). Oltre a essere elemento della presenza di Dio, la nuvola coinvolge i tre discepoli che entrano quindi nel mistero di Dio, proprio come Maria, anch’essa partecipe del divino (cf. Lc 1,35).
Grazie a questo coinvolgimento, i tre discepoli sono in grado di ascoltare la voce divina: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Già al momento del battesimo (cf 317) la voce divina era intervenuta a proclamare Gesù il «Figlio Prediletto». Ora, la sorprendente novità sta nell’imperativo «ascoltatelo» che designa Gesù soprattutto come il profeta che tutti dovevano ascoltare (cf. Dt 18,15).
Inserito nel contesto dei due annunci di passione-risurrezione e poco prima di iniziare il cammino verso Gerusalemme, questo «ascoltatelo» del Padre ha la forza propulsiva di un impegno che non può essere disatteso. È come se dicesse: «Ascoltate lui e solo lui». L’ascolto si fa obbedienza (come suggerisce anche la parola italiana ‘obbedienza’ da ob+audio=ascoltare) e quindi sequela. I discepoli sono sollecitati a riporre in Gesù una fiducia incondizionata e a seguirlo. L’ascolto-sequela deve portare i discepoli dove Gesù va, senza tentennamenti e senza resistenze.
Dopo l’ascolto di Dio, dovrebbe venire la risposta. Solo ora è legittima e fruttuosa. II cadere a terra bocconi e il timore reverenziale dei discepoli costituiscono una prima e ancora istintiva risposta: l’uomo davanti Dio si mette in adorazione. A questo punto Pietro e i suoi amici non sono chiamati a dare una risposta verbale, bensì una risposta esistenziale: smettere di voler modificare il programma messianico impedendo a Gesù la sofferenza (cf. 16,22) e riprendere il cammino, anche se duro, per stare insieme a quel Gesù che ora hanno contemplato per un attimo nel fulgore della sua divinità e soprattutto nella sua intima relazione con il Padre.
Poi tutto ritorna nella normalità. Spariscono Mosè ed Elia, non si vede più la nube luminosa, né si intende la voce di Dio. Rimane solo Gesù. Solo lui ora conta. Ricchi dell’esperienza avuta ed edotti dall’insegnamento divino, gli apostoli devono capire che la loro vera risposta sarà di seguire Cristo, ovunque egli vada, qualunque strada egli vorrà prendere, perché solo in lui si realizza l’Antico Testamento rappresentato da Mosè e Elia, solo lui è la piena e vivente espressione dell’amore del Padre. Stare con lui significa realizzare la storia, compiere il progetto divino, raggiungere la piena vittoria.
La consegna del silenzio
Può sembrare inopportuno il divieto impartito da Gesù agli apostoli di non fare parola della loro esaltante esperienza. Come è possibile non partecipare ad altri un’esperienza che ha permesso di abbracciare cielo e terra? Per quanto difficile a mantenersi, l’impegno al silenzio era saggio. Raccontare l’avvenimento della trasfigurazione, esponeva la persona di Gesù a pericolosi fraintendimenti. C’era poi da dubitare che gli altri sarebbero arrivati a percepire il mistero che si nascondeva dietro le apparenze di un uomo come gli altri.
La comprensione del Cristo trasfigurato si pone nella linea delle apparizioni del Risorto. Solo quando i discepoli saranno inviati al mondo a testimoniare la sua risurrezione, potranno parlare della trasfigurazione, divenuta allora una forza controllabile e comprensibile. Per il momento se ne devono servire in esclusiva, come un prezioso viatico che li accompagna nel tempo duro che li aspetta. È un momento di sovrabbondanza spirituale che dovrà alimentarli nei momenti di carestia, quando la tentazione, lo scoraggiamento e l’incognita sopravverranno per demolire la fiducia in Gesù e scoraggiarne la sequela.
Ecco perché l’episodio si colloca tra i due annunci di passione-risurrezione e la sua comunicazione è autorizzata solo dopo la Pasqua. Fuori da questo suo alveo teologico, resterebbe un miracolo difficilmente inquadrabile nella logica del Vangelo.
Meditazione
La storia di salvezza, che inizia con la vocazione di Abramo (I lettura), trova in Gesù il suo punto culminante, come attestano Mosè ed Elia sul monte della trasfigurazione (vangelo), e prosegue nei tempi della chiesa con la vocazione santa dischiusa dall’evangelo di Gesù Cristo (II lettura). L’ obbedienza di Abramo apre la via al compiersi della promessa di Dio di fare di lui una benedizione per tutte le genti (I lettura); alla trasfigurazione la voce divina chiede obbedienza a Gesù, il Figlio: «Ascoltate lui!» (vangelo); l’evento pasquale è grazia che chiede obbedienza al credente e lo rende testimone (II lettura).
Al cuore dell’episodio della trasfigurazione vi è la voce dalla nube che comanda l’ascolto di Gesù (Mt 17,5). La reazione dei discepoli alle parole celesti lega ascolto e timore: «all’udire ciò, i discepoli […] furono presi da grande timore» (Mt 17,6). Vi è qui l’eco del passo di Dt 4,32-33 che dice: «Dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra vi fu mai cosa grande come questa, che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco e sia rimasto vivo?». Oggi, l’espressione che parla di «ascolto della parola di Dio» è in bocca a tutti e rischia la banalizzazione: ascoltare la parola di Dio è esperienza temibile che non coincide con la lettura e l’ascolto di pagine bibliche e non può essere confusa con segni dei tempi individuati per via sociologica più che mediante discernimento spirituale. Ascoltare la parola di Dio significa scoprire la presenza di Dio e accoglierla in noi, ma si tratta di una presenza irriducibile all’ordine della rappresentazione, della percezione e della conoscenza. È una presenza altra, è luce. È la presenza luminosa che abita Gesù. E che raggiunge i discepoli grazie alla voce di Dio che, attraverso le Scritture, proclama l’identità messianica di Gesù («Questi è il mio figlio»: Sal 2,7), servo («In lui mi sono compiaciuto»: Is 42,1) e profeta («Ascoltatelo!»: Dt 18,15). L’ascolto della parola di Dio è temibile anche perché conduce al cambiamento, alla conversione, a mutare vita facendo della parola ascoltata il centro rinnovato e innovatore della propria esistenza. L’ascolto della parola di Dio è temibile perché provoca una crisi, un esodo (come avviene per Abramo: Gen 12,1-4), un uscire dalla casa delle certezze e delle abitudini per iniziare un cammino non sorretto da umane sicurezze.
L’esperienza della trasfigurazione di Gesù coinvolge anche i sensi dei discepoli: essi ascoltano, vedono, sono toccati da Gesù (Mt 17,7: «toccandoli», notazione solo di Matteo). Il corpo è il soggetto dell’esperienza spirituale e i sensi corporei intervengono in essa. Consentendoci di aprirci all’alterità, di metterci in contatto con il mondo, essi svolgono una funzione incoativamente spirituale. E la trasfigurazione ci suggerisce di ritrovare l’unità della spiritualità cristiana uscendo dai dualismi che spesso l’hanno segnata: interiore-esteriore, sensi-spirito, corpo-anima, sensibilità-interiorità… La separazione tra corpo e spirito o la loro confusione conducono alla morte dell’uno e dell’altro e soprattutto fanno sparire l’autentica esperienza spirituale, che è esperienza di tutto l’uomo. Il credente ordina i suoi sensi con la fede, li innesta in Cristo, li allena alla preghiera, li lascia guidare dallo Spirito santo e così la sua esperienza di Dio sarà integrale. Come lo fu per Agostino nell’incontro che cambiò la sua esistenza: «Mi chiamasti e il tuo grido lacerò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza e io respirai e anelo verso di te; gustai e ho fame e sete; mi toccasti e arsi dal desiderio della tua pace» (Confessioni X,27,38). Non siamo di fronte a esperienze mistiche riservate a pochi eletti, ma all’esperienza di fede ordinaria del credente che ascoltando la parola di Dio attraverso la Scrittura vede nella fede il volto di Cristo, tocca la sua presenza che gli si offre, gusta la consolazione dello Spirito, piange di compunzione, respira il respiro di Dio, ovvero, giunge a vivere la sua quotidiana esistenza, che è esistenza nel corpo, sotto la luce trasfigurante della grazia.
Immagine della Domenica
|
CAMMINO
Tu non sei la nube
ma la luce che essa nasconde
Tu non sei la parola
ma il silenzio in cui essa nasce
Tu non sei il silenzio
ma oltre ogni silenzio
Tu non sei la montagna
ma la sua eco rida la Tua voce
Tu non sei da nessuna parte al mondo
ma il cuore del mondo è TE.
(J. Vuaillat, Cammino)
Preghiere e racconti
La Trasfigurazione
L’icona della Trasfigurazione ci rimanda al tema della divinizzazione dell’uomo, tanto caro alla tradizione dell’Oriente cristiano.
I colori usati emanano e rivelano la luce taborica. Questa immagine manifesta lo splendore divino e rispecchia il principio per cui un’icona non si guarda, ma si contempla. Anticamente, questa era la prima icona che un allievo iconografo scriveva per apprendere il segreto della sua missione: penetrare nel Mistero di Dio e dischiudere gli occhi alla sua luce, al fine di rendere gli altri partecipi di questa grazia.
Nell’episodio della Trasfigurazione Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta sopra il monte alto dove Dio si fa conoscere dall’uomo. Al centro dell’icona Gesù risplende, è avvolto in vesti candide ed è circondato da una nube luminosa. Egli benedice i discepoli e li introduce nell’esodo pasquale che compirà a Gerusalemme. In basso, quasi alle falde del monte, gli apostoli, costretti al suolo e incapaci di sostenere il bagliore della divinità, sono estasiati e turbati spettatori della Gloria di Dio.
Lo splendore e la magnificenza di Gesù ci rendono consapevoli della nostra meschinità e dell’infinita distanza che ci separa da Lui; possiamo, però, essere fiduciosi e sereni: la sua luce accompagna i nostri passi mentre scendiamo dal monte e riprendiamo il quotidiano cammino. L’evento della Trasfigurazione, custodito e meditato in cuore, ci aiuterà ad affrontare le difficoltà della strada: la Gloria che gli apostoli hanno visto è la meta bellissima che ci attende!
Lasciare che il mio cuore
si sciolga
alla dolce tua presenza,
contemplare il tuo volto
e perdermi…
La tua bellezza mi trasfiguri
la tua luce mi invada
il tuo amore mi trasformi
così potrò percorrere le strade
della terra
irradiando Te.
Così sarà meno duro vivere
nell’attesa di essere con te
per sempre.
«Gesù solo»
«[…] La Trasfigurazione ci ricorda che le gioie seminate da Dio nella vita non sono punti di arrivo, ma sono luci che Egli ci dona nel pellegrinaggio terreno, perché “Gesù solo” sia la nostra Legge e la sua Parola sia il criterio che guida la nostra esistenza […].
(Benedetto XVI, Introduzione all’Angelus, 28.02.2010).
Ancora e sempre sul monte di luce
Ancora e sempre sul monte di luce
Cristo ci guidi perché comprendiamo
il suo mistero di Dio e di uomo,
umanità che si apre al divino.
Ora sappiamo che è il figlio diletto
in cui Dio Padre si è compiaciuto;
ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,
perché egli solo ha parole di vita.
In lui soltanto l’umana natura
trasfigurata è in presenza divina,
in lui già ora son giunti a pienezza
giorni e millenni, e legge e profeti.
Andiamo dunque al monte di luce,
liberi andiamo da ogni possesso;
solo dal monte possiamo diffondere
luce e speranza per ogni fratello.
Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo
gloria cantiamo esultanti per sempre:
cantiamo lode perché questo è il tempo
in cui fiorisce la luce del mondo.
(D. M. Turoldo)
Il Tabor e il Getsemani
Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.
Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia,1980,140).
L’immagine tra luce e ombra
La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione. Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili. Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata. La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce. Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte. Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata. L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti. Tutto il resto deve essere svelato e illuminato. Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre. […] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa. La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile. I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.
I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori. Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato. Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini. Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore. L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati. È piuttosto essa a illuminare. La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori. L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie. Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.
L’immagine è tra la luce e l’ombra. E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra. In ogni caso la rivelazione non è il riflettore. La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo. I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce. È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.
La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.
(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E. AFFINATI et al., Saper sperare. Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).
Li condusse sulla montagna
«Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,1-2). Gesù li condusse sulla montagna per mostrare loro la gloria della sua divinità, far loro conoscere che egli era il Redentore di Israele, come aveva mostrato attraverso i suoi profeti, e infine per prevenire ogni scandalo alla vista delle sofferenze liberamente accettate che stava per subire per noi nella sua natura umana. Lo conoscevano, infatti, come uomo, ma ignoravano che fosse Dio; lo conoscevano come figlio di Maria, un uomo che viveva con loro nel mondo, ma sulla montagna fece loro conoscere che egli era il Figlio di Dio, Dio stesso. L’avevano visto mangiare e bere, faticare e riposarsi, assopirsi e dormire, provare paura fino sudare, cose tutte che non sembravano affatto in armonia con la sua natura divina e che parevano convenienti soltanto alla sua umanità. Ecco perché li condusse sulla montagna, affinché il Padre lo chiamasse suo Figlio e mostrasse loro che era veramente suo Figlio e che era Dio. Li condusse sulla montagna e mostrò loro la sua regalità prima di soffrire, la sua potenza prima di morire, la sua gloria prima di essere oltraggiato, il suo onore prima di subire l’ignominia. Così, quando sarebbe stato preso e crocifisso dai giudei, i suoi apostoli avrebbero compreso che non si era lasciato prendere per debolezza, ma di buon grado, per libera scelta al fine di salvare il mondo. Li condusse sul monte e mostrò loro, prima della sua risurrezione, la gloria della sua divinità. Così, quando sarebbe risorto dai morti nella gloria della sua divinità, i suoi discepoli avrebbero riconosciuto che non riceveva questa gloria a ricompensa della sua sofferenza, come se ne avesse bisogno, ma che essa era sua da prima dei secoli, con il Padre e presso il Padre, come lui stesso disse quando si avvicinò l’ora della sua passione volontaria: «Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5).
(EFREM IL SIRO, Omelia sulla trasfigurazione, Opera omnia quae exstant graece II, Roma 1743, pp. 41-43).
Preghiera
O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio,
nutri la nostra fede con la tua parola
e purifica gli occhi del nostro spirito
perché possiamo godere la visione della tua gloria.
Tu che riveli il tuo volto a chi Ti cerca con cuore sincero,
rinsalda la nostra fede nel mistero della croce
e donaci un cuore docile,
perché nell’adesione amorosa alla tua volontà
seguiamo come discepoli il Cristo tuo Figlio.
II Domenica di Quaresima
Trasfigurazione, S. Apollinare in Classe, mosaico catino absidale, Ravenna, sec.VI.
© Su concessione Ministero Beni e Attività Culturali.
Nella prima parte dell’itinerario quaresimale la Chiesa indica ai credenti l’esito ultimo del loro cammino di conversione a Dio: essere trasfigurati a immagine di Cristo Risorto, splendore del Padre, immagine perfetta del Dio invisibile (cf. Col 1,15). L’episodio evangelico della trasfigurazione di Gesù sul monte occupa l’intero catino absidale della Basilica di Sant’Apollinare in Classe costruita nella Ravenna imperiale del VI sec., ed è reso su un piano ricco di rimandi simbolici.
Innanzitutto nel mosaico sono ben visibili tre settori: la parte superiore, dimora di Dio, è avvolta di una luce dorata squarciata da alcune “lame” di azzurro. La mano di Dio spunta tra le nubi e indica il Figlio eletto, qui raffigurato attraverso il segno della croce gemmata inscritta in un cerchio stellato. La mano divina rimanda all’invito evangelico: “Ascoltatelo!” rivolto da Dio ai tre discepoli che avevano seguito Gesù sul monte. All’incrocio dei due bracci della croce è raffigurato il volto di Cristo mentre alle estremità dell’asse orizzontale sono riportate le lettere dell’alfabeto greco Alfa e Omega. La croce emerge dal centro di un magnifico cielo in cui è possibile distinguere novantanove stelle, simbolo della totalità dell’umanità e del cosmo. Ai lati del cerchio stellato sono raffigurati Mosè ed Elia, ovvero la Legge e i Profeti.
Un secondo settore del mosaico è immerso nel verde intenso di pascoli ricchi e vivaci che ospitano il vescovo di Ravenna Sant’Apollinare il quale sul modello del Buon Pastore è attorniato dal suo gregge e alza le mani al cielo in atteggiamento orante e di intercessione. Nella parte intermedia, infine, gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, sono presentati come tre agnelli rivolti verso la croce gloriosa. Il segno della croce gemmata richiama quanto leggiamo nel terzo vangelo in cui viene detto che Gesù discorreva con Mosè ed Elia della sua dipartita, ovvero del suo esodo da questo mondo al Padre che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme (cf. Lc 9,31).
Nella croce si realizza la congiunzione del cielo e della terra, il passaggio dal tempo all’eternità, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Cristo innalzato da terra attira tutti a sé (cf. Gv 12,32) e li consegna al Padre suo nell’attesa che la Chiesa tutta, ancora sofferente per le persecuzioni, possa essere resa pienamente partecipe della stessa gloria del suo Capo.
La scena rimanda a ciò che si svolge proprio sotto il mosaico nell’istante in cui la comunità dei credenti si raduna attorno al proprio pastore per la preghiera comune e per la celebrazione dei divini misteri, affinché tutti siano «trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18).
La comunità dei credenti ancora in cammino verso la Gerusalemme celeste si identifica pertanto con quel gregge e sperimenta sin da adesso, per la partecipazione ai sacri misteri, la comunione con coloro che già godono della piena beatitudine. Seppure soggetta ai gravami di un mondo ancora segnato dalla corruzione e dalla morte, intravede fin d’ora il suo destino e il destino di tutte le cose nella trasfigurazione di Cristo nel quale sono giunti i tempi ultimi ed è realmente anticipata la trasformazione del mondo in attesa della piena rivelazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,21).
Risuonano ancora adesso le parole pronunciate da Giovanni Paolo II per la festa della Trasfigurazione del 2002: «”Il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2). Il volto di Cristo è volto di luce che squarcia l’oscurità della morte: è annuncio e pegno della nostra gloria, poiché è il volto del Crocifisso Risorto. In esso, la Chiesa, sua Sposa, contempla il suo tesoro e la sua gloria».
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» (2014).
– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– J.M. Bergoglio – Papa Francesco, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.
—
– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
PER APPROFONDIRE:
II DOMENICA DI QUARESIMA (A)