NATALE DEL SIGNORE

 

Prima lettura: Isaia 52,7-10

Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

 

Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno. Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza. È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli. Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui. Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.

    Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore. Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.

 

Seconda lettura: Ebrei 1,1-6

Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».

 

Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei. Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».

    Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui». C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.

          Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli». L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.

          All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata. In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa. Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.

 

Vangelo: Giovanni 1,1-18 

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

 

 

Esegesi

          Non è mai semplice commentare il prologo giovanneo. In esso, infatti condensa mirabilmente il progetto divino che viene incontro alle aspettative degli uomini, i quali hanno sempre cercato Dio, hanno sempre desiderato vederne il volto, ma ciò non è stato mai possibile, se non “metaforicamente” a Israele, che aveva il Tempio di Gerusalemme, il luogo in cui, ci dicono diversi Salmi, si andava a cercare il volto del Signore.

          A tale attesa offre una risposta il v. 18 del prologo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato». Questo Figlio unigenito, che si sobbarca un compito fondamentale in obbedienza al Padre, è quello stesso Verbo con la cui menzione si apre il Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo». L’inizio e la fine di questo suggestivissimo testo, quindi, si richiamano a vicenda per illuminare ciò che, con altra terminologia, viene definito “mistero”, ossia la volontà di Dio Padre di rivelare se stesso agli uomini attraverso il Figlio, il Verbo, nome che esprime la ricchezza della comunicazione di una realtà ineffabile. A voler essere precisi, il verbo greco che nel v. 18 si traduce di solito con “rivelare” significa letteralmente “essere condotto”: è il Figlio Gesù, il rivelatore, colui che gode della massima intimità con Dio Padre, a portarci verso quest’ultimo, affinché trovi pace la nostra ricerca del volto di Dio.

          L’evangelista, quindi, non ci nasconde che con Gesù è intervenuta una novità del tutto eccezionale. Bisogna ammettere che, con ispirata abilità, egli ci riferisce nel prologo le tre cose fondamentali, di cui continuerà a parlare nel suo Vangelo: a) il primo sguardo va dal “principio” fino al momento in cui il Battista rende testimonianza a Cristo (vv. 1-8); b) il secondo fa concentrare la nostra attenzione sulla bellezza, purtroppo non accolta dall’umanità, del mistero dell’Incarnazione (vv. 9-14); c) infine, troviamo il passaggio dalla guida di Giovanni Battista, che è provvisoria, a quella definitiva del Figlio (vv. 15-18).

          Il movimento del prologo sembra essere quello di una linea che scende verso il basso, perché dalle altezze divine e dall’eternità di quel mondo il Verbo giunge alla bassezza della nostra realtà e nella storia complessa e difficile dell’umanità. Questo movimento che porta ad affermare la rivelazione è come interrotto da quella che non può essere considerata un’intrusione, bensì una preparazione: ci riferiamo all’azione di quell’eccezionale araldo che è Giovanni il Battista, qualificato come “testimone”: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce» (Gv 1,6-8). Il Battista, dunque, rende noto che la “venuta” di Dio è ormai realizzata, al punto da fargli gridare: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me» (Gv 1,15). È Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che “era” anche prima di nascere tra gli uomini. Egli è colui che poi viene definito Verbo e, ancora, vita e luce; egli è colui che, pur essendo Dio come suo Padre, s’incarna e diventa essere umano per meglio servire l’umanità. La gioia di cui parla il Deuteroisaia nel brano della prima lettura è sostituita qui dallo splendore della luce e dall’abbondanza della vita. Eppure, realisticamente, si annuncia: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta […].Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,4-5.10-11).

          Il mistero del Natale ci invita a prendere coscienza di tutta questa grandezza che nemmeno i profeti avevano potuto immaginare. La presenza in mezzo a noi dell’erede di Dio Padre, Gesù Cristo, « Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente » (Eb 1,3), è un evento così sconvolgente quanto desiderato da rendere difficile il parlarne e da far sentire inadeguato chi vuole accoglierlo.  

 

Immagine della Domenica 

 

NATALE A PORTA DI ROMA  – 2016/2017

 

Giocando a nascondino

«Mi viene in mente a questo proposito una storiella rabbinica riportata da Elie Wiesel. Essa racconta di un ragazzo, chiamato Jeschiel, che un giorno si precipita piangendo nella camera di suo nonno, il famoso rabbino Baruch. Le lacrime gli scorrono sulle guance ed egli si lamenta dicendo: “II mio amico mi ha piantato in asso. È stato proprio ingiusto e sgarbato con me”. “Senti, non puoi spiegarmi meglio come sono andate le cose?”, gli chiede il rabbino. “Sì”, risponde il ragazzo. “Stavamo giocando a nascondino, e mi ero nascosto così bene che il mio amico non riusciva a trovarmi. Allora ha smesso di cercarmi e se n’è andato. Che razza di modo di comportarsi!” Il più bello dei nascondigli ha perso tutto il suo fascino perché l’amico smette di giocare. Il rabbino accarezza il fanciullo sulle guance, anche a lui salgono le lacrime agli occhi mentre dice: “Sì, è davvero un modo di comportarsi che non va. E guarda: con Dio è la stessa cosa. Si è nascosto, e noi non andiamo a cercarlo. Pensa un po’: Dio si nasconde e noi uomini non lo cerchiamo neppure”.

(J. RATZINGER, Sul natale, Torino, Lindau, 2005, 22-25). 

 

Meditazione 

La parola di Dio che si fa evento storico di salvezza (I lettura), che sempre avviene in uno spazio e in un tempo precisi (II lettura), finalmente si è fatta carne (vangelo). Questo il vertice della volontà di amore e di incontro con l’uomo da parte di Dio. L’incarnazione è la comunicazione della vita di Dio all’uomo in Cristo e questa comunicazione è un atto di amore. Il prologo di Giovanni, narrando la comunicazione della rivelazione di Dio all’umanità, non esprime un astratto concetto teologico, ma un evento vitale nell’ordine dell’amore. La rivelazione è comunicata con un atto di amore e come un atto di amore. In effetti, il Lógos, il Verbo che era «rivolto verso Dio» (pròs tòn theòn: Gv 1,1), in posizione di ascolto e di colloquio intimo con il Padre, fatto uomo nel Figlio Gesù Cristo, ha narrato Dio agli uomini grazie al suo essere «rivolto verso il seno del Padre» (eis tòn kólpon toû patròs: Gv 1,18), cioè grazie alla sua obbedienza amorosa alla volontà del Padre. E questo ha consentito ai credenti di indirizzare la propria vita verso la comunione con il Padre: un senso possibile della forma verbale greca exeghésato (Gv 1,18: «ha narrato», «ha fatto l’esegesi»), è «ha aperto la via». Il credente che entra nel movimento di ascolto e obbedienza amorosa del Figlio, si immette nella via della comunione con il Padre. E così per il discepolo amato che durante l’ultima cena pone il capo sul seno di Gesù (en tô kólpo toû Iesoû: Gv 13,23) e riceve la rivelazione sul senso di ciò che sta avvenendo. Il vangelo che egli scrive è dunque frutto di questa comunicazione d’amore e permette al credente che si china su di esso di entrare nel mistero dell’amore di Dio. Commenta Goffredo di Admont: «Il seno di Gesù è la Scrittura. Coloro che amano Dio si sforzano di conoscere la Scrittura al solo fine di pervenire a maggiore conoscenza di Dio, a scoprire in essa il cuore di Dio, il sentire di Dio. Quel sentire che fu in Cristo Gesù e che fonda anche la vita comune e la comunione fraterna». L’intimità con la Scrittura conduce il credente a conoscere il cuore di Dio nella parola di Dio e a ricevere la rivelazione della sua gloria.

Il Verbo che si è fatto carne si è anche fatto libro, vangelo scritto, e come la fede è chiamata a riconoscere il Figlio di Dio nell’uomo Gesù di Nazaret, così essa è chiamata a riconoscere la parola di Dio nelle parole umane della Scrittura. Come i vangeli sono la narrazione scritta della gloria di Dio, la vita di Gesù ne è la narrazione vivente. Con l’incarnazione la parola si è fatta racconto, narrazione esistenziale.

L’incarnazione esprime l’evento per cui colui che era Dio (Gv 1,1), si fece carne (Gv 1,14): il verbo al passato si riferisce a un’azione puntuale, a un fatto storico, a un accadimento nello spazio e nel tempo. Il Dio invisibile ha reso visibile la sua gloria nella carne di Gesù Cristo. La carne, che indica la debolezza e la limitatezza, la fragilità e la mortalità dell’uomo, non è elemento che va negato o superato per incontrare la gloria divina, anzi, è il luogo della gloria di Dio.

Giovanni esprime questo applicando a Gesù, nel corso del vangelo, le affermazioni riferite al Verbo eterno nel prologo. Se il Verbo è colui senza il quale nulla fu (Gv 1,3), Gesù è colui senza il quale i discepoli non possono fare nulla (Gv 15,5); se nel Verbo eterno «era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4), Gesù dice di sé: «Io sono la vita» (Gv 11,25; 14,3), e: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12). La carne glorificata di Gesù è la via che guida il credente alla comunione con il Padre. E solo l’accoglienza nella fede della propria carne (ovvero, della propria condizione umana limitata, contingente, caduca) come illuminata dalla luce della gloria di Dio e vivificata dalla resurrezione di Cristo, consente al credente di costruire rapporti di fraternità e comunione che narrino la luce e la vita di Dio agli uomini. Infatti, l’esperienza della gloria di Dio chiede di essere comunicata e la narrazione del Dio invisibile attuata dal Verbo fatto carne deve essere proseguita da parte dei figli di Dio.

 

Preghiere e racconti

 

Natale: tempo di riflessione

«La nascita di Cristo ci sfida a ripensare le nostre priorità, i nostri valori, il nostro stesso modo di vivere. E mentre il Natale è senza dubbio un tempo di gioia grande, è anche un’occasione di profonda riflessione, anzi un esame di coscienza. Alla fine di un anno che ha significato privazioni economiche per molti, che cosa possiamo apprendere dall’umiltà, dalla povertà, dalla semplicità della scena del presepe? Il Natale può essere il tempo nel quale impariamo a leggere il Vangelo, a conoscere Gesù non soltanto come il Bimbo della mangiatoia, ma come colui nel quale riconosciamo il Dio fatto Uomo. E’ nel Vangelo che i cristiani trovano ispirazione per la vita quotidiana e per il loro coinvolgimento negli affari del mondo  sia che ciò avvenga nel Parlamento o nella Borsa. I cristiani non dovrebbero sfuggire il mondo; al contrario, dovrebbero impegnarsi in esso. Ma il loro coinvolgimento nella politica e nell’economia dovrebbe trascendere ogni forma di ideologia. I cristiani combattono la povertà perché riconoscono la dignità suprema di ogni essere umano, creato a immagine di Dio e destinato alla vita eterna».

(Dall’articolo di BENEDETTO XVI, Tempo di impegno nel mondo per i cristiani, in «Financial Times», 20 dicembre 2012).

 

Lettera a Gesù Bambino 

Caro Gesù bambino, mi permetto di disturbarti perché so che ormai non saranno in molti a farlo. Un esercito di tripponi vestiti di rosso e con barbe posticce ha invaso il tempo a te dedicato e  con il loro ilare frastuono di musichette e di renne volanti  ha offuscato la straordinaria umiltà della tua nascita. Questa folla vociante di buontemponi dagli occhi sbarrati in un’espressione di perenne felicità si cala dalle finestre dei condomini, staziona davanti ai negozi e nelle strade più commerciali delle città. Sono loro ormai a raccogliere i desideri dei nostri bambini. Come non provare simpatia per questi arzilli nonnetti? Non c’è malizia nei loro occhi né traccia di rughe sulle loro guance, dai loro sacchi non esce mai carbone. La loro presenza ci parla di un mondo privo di ombre, un mondo dove tutti si vogliono bene, si fanno regali uniti da una eccitata felicità. C’è del male a essere felici, a desiderare l’armonia? Naturalmente no, forse per questo la schiera di amabili ciccioni è diventata così popolare. Però, caro Gesù bambino, un mondo in cui non esiste l’ombra mi lascia vagamente inquieta. Ci sono tante cose che vorrei chiederti, ma forse la prima e la più importante  è proprio questa. Riporta la coscienza dell’ombra nei nostri cuori, restituisci a tutti noi questa dimensione così umana. Che cos’è infatti l’uomo, senza la consapevolezza del male? Dai tempi di Rousseau ci viene ripetuto che l’uomo nasce naturalmente buono e questa ossessiva ripetizione ha finito con il dare i suoi frutti. La colpa del male che ci circonda, ci viene detto, non è mai in noi, ma sempre al di fuori: è colpa della società, delle ingiustizie, della corruzione, dei nostri genitori, della parte politica avversa, ma il male non dipende mai da una nostra precisa responsabilità. Sono state edificate grandi dittature su quest’idea dittature che hanno causato decine e decine di milioni di morti innocenti  ciononostante continua a essere radicata. Cambiando le condizioni esterne, si continua a ripetere, l’uomo cambierà e sarà in grado di rendere la società più giusta, più tollerante. E se invece la priorità fosse quella di cambiare l’interno? Nelle ultime pagine di Va’ dove ti porta il cuore la nonna scriveva alla nipote: «Ricordati che la prima rivoluzione da fare è quella dentro se stessi, la prima e la più importante. Lottare per un’idea senza avere un’idea di sé è una delle cose più pericolose che si possano fare». Riporta, dunque, nei nostri cuori, caro Gesù bambino, il senso di quella cosa ormai così ridicola, sorpassata e oscurantista che si chiama senso del peccato.

Lo so, questo termine suscita nella maggior parte dei nostri contemporanei dei moti di fastidio o di ilarità: cosa c’entra il peccato con gli uomini moderni che dominano ogni cosa sotto la chiara luce della ragione? Sono convinti, penso, che il peccato sia un anacronistico sistema di controllo delle coscienze imposto dai vari fanatismi religiosi. Ma se invece il peccato fosse, come dice una delle sue etimologie ebraiche più frequenti, prima di tutto un «mancare il bersaglio», uno smarrire la strada, una deviazione di percorso? Deviazione dal nostro cammino di crescita. Che cos’altro è la vita dell’uomo se non un faticoso, affascinante, meraviglioso cammino verso il bersaglio, cioè la piena consapevolezza dell’esistere? Un cammino di continua lotta contro le tenebre che cercano di sopraffarci, dove le tenebre non sono un dispetto fatto al Papa, ma quella forza oscura che costantemente agisce dentro di noi portandoci verso la chiusura, l’egoismo, l’odio per sé e per gli altri mascherato da mille suadenti volti.

Il cammino dell’uomo non è altro che un processo di unificazione. Si nasce divisi, ci sono tante pulsioni in noi in lotta tra loro per predominare. Crescere vuol dire appunto di-scernere, imparare a distinguere ciò che è bene da ciò che non lo è. Il criterio per la distinzione è estremamente semplice: è bene tutto ciò che costruisce, tutto ciò che l’uomo fa per l’uomo nella dimensione dell’apertura e dell’amore; è male tutto ciò che, nel tempo, si dimostra portatore di divisione e di distruzione, anche se all’inizio è apparso benevolo.

Ogni mattina, quando mi sveglio e comincio la giornata, so che dentro di me sonnecchia un potenziale assassino, sento perfettamente viva la grande scimmia che c’è in me, una scimmia pronta a difendere il suo territorio a morsi e a colpi di randello, incapace di elaborare pensieri più complessi di quelli legati alla propria sopravvivenza. Sono però cosciente che invece quello che mi divide dalle grandi scimmie  quel due per cento di diversità genetica  è proprio la possibilità di scegliere e di costruire la mia vita sulla base di questa capacità. Ogni scelta naturalmente è una rinuncia: è rinunciando a delle cose che imparo a distinguere la parte di me che vuole crescere da quella che, invece, vuole mantenermi ferma. In una società bulimica come la nostra, il discorso della rinuncia suona sinistro, eppure senza questo percorso non si potrà mai raggiungere la saggezza e la sapienza, vero scopo della vita dell’uomo. Che senso ha invecchiare, inseguendo il simulacro dell’eterna giovinezza, gonfiandosi le labbra, le guance?

Una società che non accetta il cambiamento, che non riconosce il principio del male è inerme davanti ai mostri che lei stessa produce. È una società che, per anestetizzare la propria coscienza, ha bisogno di alzare sempre più alte le bandiere dell’umanitarismo, della tolleranza, del pacifismo. Sente i demoni salire dentro di sé, ma non sa come tenerli a bada, così usa i surrogati: per non parlare del bene, ci fa indossare gli osceni abiti del buonismo volendo farci credere che indossare la pelle della pecora sia la stessa cosa che di-ventare agnelli. Come dormiamo sereni con le nostre bandiere della pace alla finestra, con le petizioni che firmiamo, con le indignazioni che si susseguono giorno dopo giorno seguendo l’orchestrazione emotiva dei mass media. Com’è bello sentirsi buoni e giusti mentre il mondo intorno a noi è popolato di ottusi, di fanatici, di malvagi. Lottare per la giustizia sulla terra è una cosa importantissima, come tu sai, ma per farlo bisogna avere un cuore indiviso, capace di mettere sempre il mistero della persona in primo piano e non l’abito disonesto del pregiudizio e dell’ideologia.

Ci sono tante altre cose che vorrei chiederti, caro Gesù bambino. Vorrei chiederti, ad esempio, di far sparire il cinismo dalle nostre menti e dai nostri pensieri, di riportare in noi la capacità di accogliere con stupore l’arrivo di un nuovo giorno, sapendo che qualsiasi cosa ci accadrà sarà comunque importante perché ci servirà per imparare. Cancella tutti gli «ismi» dai nostri cuori e riempili di compassione. Compassione per le persone, per gli animali, per le piante, per tutto il mondo che vive assieme a noi e, con noi, condivide il mistero del male. Rendi di nuovo innocenti i nostri bambini che abbiamo trattato come cassonetti della spazzatura buttando loro addosso ogni sorta di porcheria pretendendo poi che diventino delle belle persone e dei bravi cittadini. Ridona ai genitori la capacità di educare e di guardare a ogni figlio come un essere delicato e prezioso da trattare con fermezza e con amore, proteggendolo dalle oscenità del mondo circostante. E infine porta un grande carico i vergogna a tutte le persone che occupano un posto di potere e non agiscono per il bene della comunità. Fai arrossire i corrotti, gli evasori, gli ipocriti, i demagoghi e tutti coloro che vivono proni davanti agli idoli del potere e del denaro. Caro Gesù bambino, fa’ che noi continuiamo a sentirci creature fragili, dal destino misterioso, dal compito affascinante e non automi docilmente succubi del fracasso dei Inedia. Fa’ che siamo capaci di ribellarci a questa oscurità che ci viene fatta passare per luce, alle luci finte, alle barbe finte, alla pance finte, ai pensieri e ai sentimenti finti, alle finte eterne giovinezze. Fa’ che in ognuno di noi torni a radicarsi l’idea che non c’è altro senso del cammino della vita che la costruzione e la ricerca dell’amore.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Torino, Lindau, 2011, 165-169)

 

Andiamo fino a Betlemme!

Miei cari fratelli,

Vorrei essere per voi uno di quei pastori veglianti sul gregge, che la notte del primo Natale, dopo l’apparizione degli angeli, alzò la voce e disse ai compagni: «Andiamo fino a Betlemme, e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori. Ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il vincastro, e scendere giù per le gole di Giudea, lungo i sentieri odorosi di stereo e profumati di menta. Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l’antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori. I quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d’Oriente. Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste… per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori. Ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni nelle circospezioni di infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.

Andiamo fino a Betlemme. E un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all’indietro», è l’unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall’ipoteca della morte.

Auguri, allora, miei cari fratelli.

Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quella della nostra anima sarà libero di smog privo di segni di morte e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

Buon Natale! Vostro

+ don Tonino, vescovo

(Antonio Bello, Oltre il futuro. Perché sia Natale, Molfetta, Luce e vita/La Meridiana, 1995, 25-27).

 

La notte del Mite

Questa è notte di riconciliazione,

non vi sia chi è adirato o rabbuiato.

In questa notte, che tutto acquieta,

non vi sia chi minaccia o strepita.

Questa è la notte del Mite,

nessuno sia amaro o duro.

In questa notte dell’Umile

non vi sia altezzoso o borioso.

In questo giorno di perdono

non vendichiamo le offese.

In questo giorno di gioie

non distribuiamo dolori.

In questo giorno mite

non siamo violenti.

In questo giorno quieto

non siamo irritabili.

In questo giorno della venuta

di Dio presso i peccatori,

non si esalti, nella propria mente,

il giusto sul peccatore.

In questo giorno della venuta

del Signore dell’universo presso i servi,

anche i signori si chinino

amorevolmente verso i propri servi.

In questo giorno, nel quale si è fatto povero

per noi il Ricco

anche il ricco renda partecipe

il povero della sua tavola.

Oggi si è impressa

la divinità nell’umanità,

affinché anche l’umanità

fosse intagliata nel sigillo della divinità.

(EFREM IL SIRO, Inni sulla Natività 1,88-95.99, in ID., Inni sulla Natività e sull’Epifania, Milano 2003, pp. 134-136).

 

«Sia questo per voi il segno; troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12)

Fissiamo l’attenzione su alcuni punti.

I pastori

Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori. Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.

Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione. Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.

Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?

 

L’angelo del Natale

Un secondo spunto viene offerto dal messaggio. Contiene una promessa, indicata da un verbo di movimento: «Troverete» (Lc 2,12). Il trovare presuppone una ricerca, un cammino, un esodo. Per i pastori si trattò solo di abbandonare i fuochi del bivacco e le capanne di fronde erette a difesa dalle intemperie. Per noi le partenze sono molto più laceranti: ci viene chiesto di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli delle nostre prudenze, il patrimonio culturale di cui siamo solerti conservatori. È un viaggio lungo e faticoso, quasi un salto nel buio. Si tratta infatti di ripercorrere, a ritroso, secoli e secoli di storia; di rileggere, con occhi diversi, le varie tappe della civiltà, per ritrovare le origini del cristianesimo nella grotta di Betlemme.

E non è detto che la meta della nostra ricerca sia un Dio glorioso. Ci vengono garantiti solo dei segni: un bambino, le fasce, la mangiatoia: i segni della debolezza, del nascimento e della povertà di Dio. Un bambino inerme. Simbolo di chi non può vantare alcuna prestazione. Di chi può solo mostrare, piangendo, la propria indigenza. A questo punto il discorso sulla debolezza di i Dio, più che assumere le cadenze del moralismo (tale, cioè, da spingerci ad amare i deboli, gli indifesi, i non garantiti), dovrebbe stimolare la riflessione teologica sul perché Dio ha deciso di spiazzare tutti manifestando la sua gloria nei segni del non-potere, della non-violenza.

 

La veste del bambino

Le fasce sono simbolo del nascondimento di Dio, velano la sua presenza perché la sua luce non ciechi i nostri occhi. Saranno ritrovate nel sepolcro, per terra, quando lui, il Signore, avrà sconfitto la morte e dichiarato abolite tutte le croci. Ma da quando Maria le ha utilizzate per la prima volta quella notte, suo Figlio non ha mai smesso di riutilizzarle. Ancora oggi continua a giacere avvolto in fasce. Qui, se per poco ci mettiamo a «sbendare», le coperte s’infittiscono paurosamente: migliaia di volti spauriti a cui nessuno ha mai sorriso; membra sofferenti che nessuno ha accarezzato; lacrime mai asciugate; solitudini mai riempite; porte a cui mai nessuno ha bussato. E si potrebbe continuare all’infinito, in un interminabile rosario di sofferenze. È qui che Dio continua a vivere da clandestino. A noi il compito di cercarlo; di cominciare a bazzicare certi ambienti non troppo piacevoli; di lasciarci ferire dall’oppressione dei poveri, prima di cantare le nenie natalizie davanti al presepio. Guardare oltre le fasce, riconoscere un volto, trovare trasparenze perdute, coltivare sogni innocenti: non è un andare incontro alla felicità?

 

La culla del neonato

La mangiatoia è il simbolo della povertà di tutti i tempi; vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio che non trova posto quaggiù. È inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere dove si decidono le sorti dell’umanità: non è lì.

È vicino di tenda dei senza-casa, dei senza-patria, di tutti coloro che la nostra durezza di cuore classifica come intrusi, estranei, abusivi. La mangiatoia è però anche il simbolo del nostro rifiuto «È venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11). È l’epigrafe della nostra non accoglienza.

La greppia di Betlemme interpella, in ultima analisi, la nostra libertà. Gesù non compie mai violazioni di domicilio: bussa e chiede ospitalità in punta di piedi.

Possiamo chiudergli la porta in faccia. Possiamo, cioè, condannarlo alla mangiatoia: che è un atteggiamento gravissimo nei confronti di Dio. Sì, è molto meno grave condannare alla croce, che condannare alla mangiatoia.

Se però gli apriremo con cordialità la nostra casa e non rifiuteremo la sua inquietante presenza ha da offrirci qualcosa di straordinario: il senso della vita, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, lo stupore della vera libertà, la voglia dell’impegno. Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dalle amarezze e dalle delusioni, rigogli di nuova speranza.

(Don Tonino Bello, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 79-84).

 

Esulta dunque!

Ecco quale è la festa che celebriamo oggi: la venuta di Dio presso gli uomini affinché andiamo a Dio o ritorniamo a lui – è più esatto parlare di ritorno -, affinché deponiamo l’uomo vecchio e ci rivestiamo del nuovo (cfr. Ef 4,22-24) e, come siamo morti in Adamo, così viviamo in Cristo (cfr. 1Cor 15,22), nascendo con lui, con lui essendo crocifissi, con lui sepolti, con lui resuscitando (cfr. Rm 6,4; Col 2,12; Ef 2,6). […] Per questo non celebriamo la festa come fosse una solennità profana, ma in maniera divina, non in maniera mondana, ma sovramondana, non come una nostra festa, ma come quella di colui che è nostro, o piuttosto del Signore, non come festa della malattia, ma della guarigione, non come quella della creazione, ma della ri-creazione. […] Dio sempre fu e sempre è e sarà, o piuttosto, egli è sempre. Poiché le espressioni «era» e «sarà» corrispondono a divisioni umane del tempo e della natura sottoposte a mutamento; «colui che è» è invece il nome che si da Dio stesso quando si rivela a Mosè sulla montagna (cfr. Es 3,14). Riunendo tutto in se stesso, possiede l’essere senza principio, senza termine, è come un oceano di esistenza senza limiti né confini, che va al di là di ogni idea di tempo e di natura. […] Ma ora sappi che Cristo è concepito. Esulta, dunque, se non come Giovanni nel seno di sua madre (cfr. Lc 1,41), almeno come Davide al vedere che l’arca trova riposo (cfr. 2Sam 6,14) ; onora il censimento, grazie al quale sei stato inscritto nei cieli; celebra la Natività grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia, tu che, insensato, sei stato nutrito dal Verbo.

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi  38,4.7.17, SC 358, pp. 108-110; 114-116).

 

Il Verbo si è fatto carne

A imitazione di Gesù Cristo, immagine di Dio, non allontaniamoci neppure noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio (cfr. Gen 1,26-27), di certo non uguale perché creata dal Padre attraverso il Figlio e non nata dal Padre come [il Figlio, che è] la sapienza di Dio. Noi siamo immagine perché illuminati dalla luce; il Figlio, invece, perché è luce che illumina e perciò, pur non avendo un modello per sé, è modello per noi. Egli non è modellato su qualcuno che lo precede presso il Padre; dal Padre, infatti, non può mai essere separato perché egli è quello stesso da cui ha origine. Noi, invece, cerchiamo di imitare un modello che non muta, seguiamo uno che non si muove e camminando in lui, che è per noi una dimora eterna, tendiamo a lui perché è divenuto per noi nella sua umiliazione una via attraverso il tempo. Agli spiriti immateriali senza peccato che non sono caduti a motivo della superbia il Figlio offre un esempio nella forma di Dio, in quanto uguale a Dio e Dio, ma per offrirsi come esempio di ritorno all’uomo caduto, che a causa dei suoi peccati e della condanna alla mortalità era incapace di vedere Dio, «si è svuotato» (Fil 2,7), non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo (cfr. Fil 2,7) verso di noi, lui che era in questo mondo, perché «il mondo è stato fatto per mezzo di lui»  (Gv 1,10), per essere un esempio a quelli che nelle altezze contemplano Dio, per essere un esempio a quelli che sulla terra ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per quanti si preparano a morire, esempio di resurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose (cfr. Col 1,18). Per conseguire la felicità l’uomo non doveva seguire nessun altro se non Dio, ma egli non era in grado di vedere Dio; seguendo il Dio fatto uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che poteva vedere e uno che doveva seguire. Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che «è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).

(AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità 7,12-13, Opere di sant’Agostino, parte I/IV, pp. 302-304).

 

Il Natale del Signore

Il Natale è tra le feste più importanti della tradizione cristiana. In questa icona della Natività, la Vergine è rappresentata nella grotta mentre prende in braccio il Figlio con un gesto di indicibile affetto. Le genti, i re Magi, i pastori, convocati dagli angeli, manifestano la partecipazione di tutto il mondo alla salvezza. I re Magi, salendo, evocano lo sforzo umano di penetrare i misteri di Dio. Gli angeli, invece, annunciano ai pastori, popolo eletto, che il Mistero è presente: abbiamo solo bisogno della purezza del cuore per riconoscerlo. San Giuseppe è seduto in atteggiamento pensoso; è tentato dal dubbio che questa nascita sia veramente opera divina.

Sopra la grotta, con un raggio azzurro, è raffigurata la stella che ha guidato i Magi fino a Betlemme. La gioia del momento è turbata da presentimenti inquietanti: la grotta richiama una tomba, la culla un sarcofago e il Bimbo è avvolto in fasce come quelle che avvolgono un morto. La nascita di Cristo rimanda alla sua Pasqua di morte e di risurrezione: questo Bambino è il Salvatore del mondo! Nell’icona, però, il dolore non prevale, in tutto risplende la ritrovata pace paradisiaca che è il fine dell’Incarnazione.

 

Oggi

viene svelato il mistero

rimasto nascosto per secoli.

Oggi il Figlio di Dio

diventa figlio dell’uomo…

Maria,

confusa e dolce,

tu guardi il Figlio,

colui che ha le fattezze del tuo volto,

volto umano di Dio,

che ridarà bellezza ad ogni volto d’uomo.

Adori il mistero e ti abbandoni

alla sua grandezza.

Ricolmaci, o Madre,

della tua pace,

ridonaci la bellezza della grazia,

e aiutaci a farci grembo a Dio,

perché cresca in noi…

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.

Adviento y Navidad, in «Sal Terrae» 101 (2013) 1.184, número monográfico.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

NATALE DEL SIGNORE