II DOMENICA DI AVVENTO

 II DOMENICA DI AVVENTO

 

Lectio – Anno A

Prima lettura: Isaia 11,1-10

 

In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e d’intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore.

Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze
e non prenderà decisioni per sentito dire;
ma giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli umili della terra.
Percuoterà il violento con la verga della sua bocca,
con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.
La giustizia sarà fascia dei suoi lombi
e la fedeltà cintura dei suoi fianchi.

Il lupo dimorerà insieme con l’agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà.
La mucca e l’orsa pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;
il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso.
Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno
in tutto il mio santo monte,
perché la conoscenza del Signore riempirà la terra
come le acque ricoprono il mare.

In quel giorno avverrà
che la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli.
Le nazioni la cercheranno con ansia.
La sua dimora sarà gloriosa.

 

Il testo di Is 11,1-10 completa i due precedenti: 7,14, la profezia dell’Emmanuele e 9,6 la promessa del bambino prodigioso dato agli uomini. Tutti e tre confermano le attese escatologiche, si potrebbe tradurre messianiche, d’Israele.

     Isaia ci presenta l’immagine – ancor più suggestiva se collocata nel contesto precedente – di un nuovo germoglio che spunta su un tronco. Il profeta ha tracciato l’itinerario di un’invasione da nord da parte del nemico, al cui violento passaggio tutto viene distrutto; persino delle foreste lussureggianti resta soltanto qualche tronco tagliato (cfr. Is 10,33-34). In tale panorama di devastazione, ecco un virgulto su un ceppo, segno della vita che riprende e del rivelarsi della fedeltà di Dio alle sue promesse. Per essa continuerà a regnare la dinastia di Davide, segnata da molte prove e infedeltà.

     Il profeta sogna quindi un re giusto che si ponga interamente al servizio di Dio, faccia progetti saggi e abbia la forza per attuarli (vv. 3-4). Il fatto che si tratti di un «germoglio» deve ricordare che il personaggio annunziato da Isaia non ha la potenza politica e militare di Davide: sul giovane scelto da Dio e unto da Samuele mentre pascolava il gregge, ultimo tra i suoi fratelli, è invece scesa l’elezione divina. Dio vuol ripartire da capo. Il Nuovo Testamento ci insegna che egli ricomincia dal bambino di Betlemme e dal carpentiere di Nazaret: chi poteva pensare che Dio sarebbe ripartito così?

     Nel corso della lettura si descrive l’equipaggiamento del ‘germoglio di Iesse’: fondamentalmente si afferma che egli sarà dotato stabilmente dello Spirito del Signore con i suoi doni – sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza, timor di Dio -. Il dono dello Spirito non sarà più provvisorio, come avveniva per i ‘giudici’, gli antichi capi carismatici di Israele, bensì la sua presenza sarà permanente su Colui che Dio ha scelto. Ripieno dello Spirito, egli opererà per la giustizia e per i poveri, aprendo così il mondo alla speranza di un rinnovato paradiso terrestre, senza violenza e sopraffazioni (vv. 5-8).

     Il vertice della profezia è la promessa di un’effusione del dono della sapienza sul mondo intero: il paradiso può realizzarsi davvero ed è già anticipato su questa terra se e quando «la conoscenza del Signore riempie il paese» (v. 9) poiché nel momento in cui l’umanità conosce Dio intimamente, la terra cambia volto.

 

Seconda lettura: Romani 15,4-9

Fratelli, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome».

 

 

Le parole di Paolo sono improntate al tema dell’accettazione reciproca (v. 7) e sono rivolte ai cristiani di origine pagana per insegnare loro la vicendevole accoglienza con quelli di origine giudaica. Egli sta parlando a una comunità in cui convivono ‘forti’ e ‘deboli’ nella fede e ammonisce che tutto quanto il cristiano fa deve essere improntato all’accoglienza e all’edificazione reciproca.

     Egli vuole che ci si impegni ad incrementarla per tre motivi, il primo dei quali è la parola delle antiche Scritture, la quale è nutrimento che sostiene la vita ordinaria del credente, le dona solidità e rende possibile la perseveranza nella speranza. Paolo sembra suggerire che chi è saldo nella speranza sa anche accettare i limiti propri e degli altri, con pazienza.

     In secondo luogo bisogna sempre tenere presente l’esempio di Cristo: il principio ispiratore della sua vita non è il suo personale piacere; fedele invece alla missione di rivelare l’amore del Padre, non si è sottratto ad essa quando si è trattato di sopportare le reazioni violente degli uomini che lo hanno crocifisso. Come ultima ragione non si deve dimenticare che i pagani sono stati accolti da Cristo stesso. Ebreo, figlio del suo popolo, egli è stato il segno vivente della fedeltà di Dio alle promesse, ma insieme ha manifestato la misericordia di Dio anche ai non ebrei perché tutti potessero unirsi nella sua lode.

 

Vangelo: Matteo 3,1-12

 In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette  e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!” Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare  figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò  ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.  Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». 

 

Esegesi 

     Al tempo di Gesù si riteneva che Elia non fosse morto, ma fosse stato rapito per ricomparire un giorno. Infatti il profeta Malachia aveva predetto: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me… Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,1.23).

Quando, dopo la Pasqua, i primi cristiani si resero conto che «il giorno del Signore» era quello in cui Gesù aveva portato la salvezza, compresero anche chi era l’Elia di cui aveva parlato il profeta: era il Battista, incaricato da Dio di preparare il popolo alla venuta del Messia. Si ricordarono anche di ciò che di lui aveva detto il Maestro: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agiata dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te» (Lc 7,25-27). «La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire» (Mt 11,13-14; 17,13).

Chi era Giovanni? Un personaggio piuttosto enigmatico. Giuseppe Flavio – il famoso storico del tempo – lo presenta così: «Era un uomo buono che esortava gli ebrei a vivere una vita retta, trattandosi con giustizia reciprocamente e sottomettendosi con devozione a Dio, e facendosi battezzare. In verità, Giovanni era dell’idea che nemmeno questo lavacro fosse accettabile come perdono per i peccati, ma era convinto che si risolveva soltanto in una purificazione del corpo, se l’anima non era stata purificata in precedenza grazie a una condotta retta» (Antichità Giudaiche 18.5.2 §§ 116-119).

Nel vangelo di oggi Matteo lo descrive come un uomo austero (v. 4). Il suo cibo era quello semplice degli abitanti del deserto, il suo vestito era rozzo: la cintura ai fianchi che contraddistingueva Elia (2Re 1,8) e il mantello di pelo – la divisa dei profeti (Zc 13,4).

Tutta la persona del Battista era denuncia e condanna della società opulenta che – allora come oggi – puntava sull’effimero, sul frivolo, sui falsi valori del lusso e dell’ostentazione. Il suo messaggio è riassunto dall’evangelista in una semplice frase: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (v. 2).

La speranza in un futuro migliore era uno dei temi centrali del messaggio dei profeti. A differenza degli altri popoli che ponevano la loro età dell’oro nel passato, Israele collocava il «regno di Dio» nel futuro. Attendeva un mondo dove il Signore avrebbe fatto trionfare l’armonia e abbondare la pace, un mondo dove i rapporti interpersonali sarebbero stati improntati all’amore, alla riconciliazione con la natura, con gli uomini, con Dio.

I predicatori apocalittici avevano descritto la storia dell’umanità come un susseguirsi di regni di bestie. «Bestie emerse dal mare» erano stati i grandi imperi di Babilonia, Media, Persia, Grecia (Dn 7). I tempi erano difficili, ma non ci si doveva perdere d’animo: il mondo antico era ormai alla fine e il mondo nuovo stava per fare irruzione.

I dolori presenti non dovevano essere interpretati come segni di morte, ma come sofferenze di un difficile parto: preludevano alla nascita della nuova era. Essendo queste le attese del popolo, è facile intuire come la predicazione di Giovanni suscitasse enorme entusiasmo. Tutti correvano a farsi battezzare per essere introdotti per primi in questo «regno di Dio».

Il battesimo con l’acqua non era però sufficiente. Il Giordano non era una piscina da cui si usciva miracolosamente purificati dai peccati. Per disporsi a entrare nel «regno» era necessario «convertirsi», cioè invertire il cammino, cambiare rotta, modificare completamente il modo di pensare e di agire. Non bastava correggere qualche comportamento morale bisognava mettere in atto un nuovo esodo.

«Accorrevano a lui da Gerusalemme…». Ecco il popolo d’Israele, ormai installato nella terra promessa, che abbandona la propria condizione di presunta libertà e ritorna al Giordano. Si riteneva libero, ma in realtà continuava a essere schiavo: delle proprie convinzioni religiose, della propria ostinazione, della falsa immagine di Dio che si era fatta.

«Confessavano i loro peccati». Prendevano coscienza di vivere ancora in esilio, di essere privi della libertà.

Tutti gli anni, nella seconda domenica di Avvento, la liturgia propone ai cristiani la predicazione del Battista perché come egli preparò il popolo d’Israele alla venuta del messia cosi oggi è in grado di insegnare ad accogliere il Signore che viene.

Oggi come allora, il passo più difficile da compiere è comprendere che è necessario «uscire» dalla «terra» in cui ci si è installati, «uscire» dalle false sicurezze religiose e teologiche che ci si e costruiti e accogliere la novità della parola di Dio.

Non tutti hanno risposto con sollecitudine all’invito del Battista, non tutti sono stati disponibili a operare un cambiamento interiore radicale. I farisei e i sadducei, pur incuriositi dalla predicazione di Giovanni, stentavano a lasciarsi coinvolgere, non si fidavano, preferivano mantenere le loro certezze (vv. 7-10). Pensavano di essere già a posto con Dio per il fatto di essere figli di Abramo. Questa falsa sicurezza sarà denunciata in seguito da un famoso detto rabbinico: «Come la vite si appoggia su legni secchi, così gli israeliti si appoggiano sui meriti dei loro padri».

Il rimprovero con cui il Battista accoglie farisei e sadducei è severo: «Razza di vipere!». Li paragona a serpi che iniettano il loro veleno di morte in chi inavvertitamente si accosta a loro. Poi passa all’invettiva, all’annuncio delle catastrofi che stanno per colpirli: corrono il rischio di venire tagliati come un albero che non porta frutto e di essere bruciati come pula. Su di loro incombe l’ira di Dio. Siamo di fronte a immagini drammatiche che sembrano smentire il sogno di Isaia della prima lettura.

Il tono è minaccioso e non sorprende sulla bocca del Battista; così si esprimevano i predicatori di quel tempo ed è questo il linguaggio che compare spesso anche nella Bibbia. Il precursore lo impiega per mettere in guardia chi rifiuta l’invito alla conversione: si priva dell’incontro di amore con Cristo che viene per introdurlo nella sua gioia e nella sua pace.

Nel contesto di tutto il vangelo le parole del precursore assumono un significato che va oltre quello immediato. È successo anche a Caifa di pronunciare, senza rendersene conto, una profezia (Gv 11,49-51).

Quando parlava dell’ ira divina, Giovanni non aveva le idee chiare su come si sarebbe manifestata.

L’ira di Dio è un’immagine che ricorre spesso nell’Antico Testamento e non va intesa come un’esplosione di livore della persona offesa. È espressione dell’amore di Dio: si scaglia contro il male, non contro chi lo compie; non vuole colpire l’uomo, ma sottrarlo al peccato.

La scure, che taglia gli alberi alla radice, ha la stessa funzione attribuita da Gesù alle forbici che potano la vite e la liberano dai rami inutili che la privano della preziosa linfa e la soffocano (Gv 15,2). Gli alberi divelti e gettati nel fuoco non sono gli uomini, che Dio ama sempre come figli, ma le radici del male che sono presenti in ogni uomo e in ogni struttura e che devono essere fatte a pezze in modo che non possano più gettare germogli (Ml 3,19).

I tagli sono sempre dolorosi, ma quelli operati da Dio sono provvidenziali: creano le condizioni perché spuntino rami nuovi, capaci di produrre frutti.

Il ventilabro, infine, con cui il Signore attua il suo giudizio è immagine viva: descrive il modo con cui l’operato di ogni uomo viene vagliato da Dio.

Nei tribunali umani i giudici prendono in considerazione solo gli errori e pronunciano la sentenza in base al male commesso. Delle opere buone tengono poco conto. Nel giudizio di Dio avviene esattamene il contrario. Egli, con il ventilabro della sua parola, sottopone ogni uomo al soffio impetuoso del suo Spirito che spazza via la pula e lascia sull’aia solo i preziosi chicchi: le opere di amore che, poche o molte, tutti compiono.

 

 

 

 

Immagine della Domenica

 

 CAMMINO DI SANTIAGO   – 2007

 

CAMMINARE 

L’amico assaporava e riassaporava di gusto questo concetto: “Niente di più bello che trovare camminando ciò che unicamente camminando si cerca”. E telefonando a sua moglie, insegnante di lettere, glielo ripeteva in latino: “Nihil mihi jucundius quam deambulando invenire quod eundo quaero.”

 

Meditazione

     Le letture convergono nel consegnare un messaggio centrato sul Messia: il Messia è colui su cui si posa lo Spirito di Dio con suoi doni (I lettura); Gesù, il Messia è colui che, secondo la parola della Scrittura, ha adempiuto le promesse di Dio fatte ai padri (II lettura);  il Messia, colui che battezzerà in Spirito santo e fuoco, è il più forte annunciato dal Battista (vangelo). Egli è rivelato dallo Spirito (I lettura), profetizzato dalle Scritture (II lettura), indicato da un uomo, Giovanni, il profeta e precursore (vangelo). Anche nella vita cristiana, lo Spirito, le Scritture e un uomo di Dio, un profeta, un padre spirituale, svolgono una funzione magisteriale e di preparazione all’accoglienza del Signore che viene.

     Giovanni annuncia il Veniente chiedendo conversione. Per accogliere il Signore occorre prepararsi e Giovanni mostra un aspetto importante della conversione, ovvero, l’unità tra vita e predicazione, tra dire e fare. Egli chiede di preparare nel deserto una strada al Signore, situandosi egli stesso nel deserto a preparare la via al Veniente. Questa unità fonda l’autorevolezza del predicatore facendone un testimone. Egli appare, come spesso i profeti, un segno: ovvero, una parola di Dio fatta carne che, con i modi stessi del suo vivere, indica il Signore che viene, e prepara ad accoglierlo.

     Giovanni ha intrapreso la via del deserto non per ascetismo o per compiere esercizi di pietà, ma per vivere la verità della propria personalissima vocazione di profeta e precursore del Messia (Mt 11,9-10) e per ridare verità alla via del Signore opacizzata da uomini religiosi che «dicono e non fanno» (Mt 23,3) e perciò finiscono nell’ipocrisia. E Giovanni prepara i suoi ascoltatori alla venuta del Signore conducendoli a fare verità in se stessi: la confessione dei peccati (Mt 3,6) è segno della volontà di ritrovare la rettitudine del proprio cammino davanti a Dio. La conversione inizia da questo lucido coraggio di ritrovare la propria verità e, quindi, dall’umile riconoscimento che da tale verità ci si è allontanati.

     Ciò che si oppone al coraggio della verità è l’ignavia di chi vive la fede come una polizza assicurativa, come una riserva di certezze. Giovanni si scaglia contro chi è abitato dalla presunzione della salvezza, contro chi irrigidisce la vitalità e il rischio della fede nella rigidezza di un’identità e nell’immobilismo di un’appartenenza: quasi che la salvezza fosse un’eredità che spetta per diritto. «Non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre”» (Mt 3,9).

     Alla staticità di chi si culla in un’identità religiosa abitata da certezze, che non tollera di metterla in discussione e ancor meno di riconoscere i meccanismi di autogiustificazione che gli evitano di guardare in faccia i propri peccati, Giovanni oppone una parola che è un comando e una rivelazione: «Convertitevi» (Mt 3,2). Comando che discende dalla presa di coscienza che il Regno di Dio si è fatto vicino e non più possibile esitare, indugiare, perdere tempo, e rivelazione che il cambiamento è possibile, che il peccato non è l’ultima parola, che le situazioni paralizzanti possono essere sciolte. Vi è qualcosa di non cristiano, oltreché di profondamente triste, nelle espressioni che a volte affiorano sulla nostra bocca: «Io non cambierò mai», «Io sono così e non ci posso fare niente». Tutto questo significa che il cambiamento uno lo pensa come opera propria, e non come apertura all’azione del Signore e alla potenza della sua grazia. Ma la conversione è esattamente questo: «Possiamo convertirci soltanto perché Dio,  per primo, si è rivolto a noi, donandoci il suo perdono e aprendo la via alla riconciliazione. La conversione è quindi azione di grazia; è il dono di poter ricominciare da capo. Conversione significa “avere il coraggio di vivere il dono di Dio”» (Walter Kasper). L’unico nostro vero peccato è che possiamo in ogni momento convertirci, ritornare a Dio e non lo facciamo. Convertirsi è ripristinare il primato di Dio e della sua grazia nella nostra vita.

 

Preghiere e racconti

 

La nostra salvezza poggia su una venuta

Il Vangelo di questa seconda domenica di Avvento (Mt 3,1-12) ci presenta la figura di san Giovanni il Battista, il quale, secondo una celebre profezia di Isaia (cfr 40,3), si ritirò nel deserto della Giudea e, con la sua predicazione, chiamò il popolo a convertirsi per essere pronto alla imminente venuta del Messia. San Gregorio Magno commenta che il Battista “predica la retta fede e le opere buone … affinché la forza della grazia penetri, la luce della verità risplenda, le strade verso Dio si raddrizzino e nascano nell’animo onesti pensieri dopo l’ascolto della Parola che guida al bene” (Hom. in Evangelia, XX, 3, CCL 141, 155). Il Precursore di Gesù, posto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, è come una stella che precede il sorgere del Sole, di Cristo, di Colui, cioè, sul quale  secondo un’altra profezia di Isaia  “si poserà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11,2).Nel Tempo dell’Avvento, anche noi siamo chiamati ad ascoltare la voce di Dio, che risuona nel deserto del mondo attraverso le Sacre Scritture, specialmente quando sono predicate con la forza dello Spirito Santo. La fede, infatti, si fortifica quanto più si lascia illuminare dalla Parola divina, da “tutto ciò che  come ci ricorda l’apostolo Paolo  è stato scritto prima di noi… per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza” (Rm 15,4). Il modello dell’ascolto è la Vergine Maria: “contemplando nella Madre di Dio un’esistenza totalmente modellata dalla Parola, ci scopriamo anche noi chiamati ad entrare nel mistero della fede, mediante la quale Cristo viene a dimorare nella nostra vita. Ogni cristiano che crede, ci ricorda sant’Ambrogio, in un certo senso concepisce e genera il Verbo di Dio” (Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 28).

Cari amici, ” la nostra salvezza poggia su una venuta”, ha scritto Romano Guardini (La santa notte. Dall’Avvento all’Epifania, Brescia 1994, p. 13). “Il Salvatore è venuto dalla libertà di Dio… Così la decisione della fede consiste… nell’accogliere Colui che si avvicina” (ivi, p. 14). “Il Redentore  aggiunge  viene presso ciascun uomo: nelle sue gioie e angosce, nelle sue conoscenze chiare, nelle sue perplessità e tentazioni, in tutto ciò che costituisce la sua natura e la sua vita” (ivi, p. 15).

Alla Vergine Maria, nel cui grembo ha dimorato il Figlio dell’Altissimo, e che mercoledì prossimo, 8 dicembre, celebreremo nella solennità dell’Immacolata Concezione, chiediamo di sostenerci in questo cammino spirituale, per accogliere con fede e con amore la venuta del Signore.

(Santo Padre Benedetto XVI, Angelus, 5-12-2010).

 

ACQUA E FUOCO

«Il lupo dimorerà insieme con l’agnello la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà» (Is 11,6). 

«Vi dico che Dio può far sorgere i figli di Abramo da queste pietre. Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non sono degno neanche di portargli i sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,9.11). 

Nei brani biblici sono bandite le mezze misure e i toni smorzati non vi compaiono neppure alla lontana. Si direbbe che le Scritture vivono sui contrasti. Del resto, con un protagonista come Giovanni – ispido nelle sue vesti di peli di cammello, selvatico come il miele di cui si nutriva rude come le locuste che scricchiolavano sotto i suoi denti  le tinte intermedie non potevano essere le più indicate.

I contrasti (oggi si dice: le antinomie) compaiono già nel testo di Isaia 11, 1-10: lupo e agnello; pantera e capretto; orsa e mucca; aspide e lattante…

E poi continuano nel passo di Matteo 3, 1-12: deserto e fiume; parola e voce; denuncia e proposta; acqua e fuoco; grano e pula.

Non si potrebbe, allora, cogliere l’occasione per affidare a tali contrapposizioni tematiche l’annuncio di questo avvento che, tutto sommato, si riduce a una grande parola: «Convertevi»?

 

Lupo e agnello

Il tema della pace messianica ritorna con insistenza e costituisce il filo rosso che attraversa tutto l’Avvento.

Per non correre il rischio di relegare questo tema nel limbo delle buone emozioni utopiche, occorrerà chiedersi se nelle nostre comunità stiamo facendo qualcosa perché si giunga alla convivenza del lupo e dell’agnello. Anzi, siccome la convivenza potrebbe far pensare a una sopportazione pro bono pacis, che lascia inalterati gli squilibri più avanzati, bisogna parlare, come fa Isaia, in termini di convivialità: «Pascoleranno insieme. Il leone si ciberà di paglia come il bue».

Convivialità che non significa coesistenza ottenuta mettendo tra parentesi i soprusi o facendo finta che non esistano. La convivialità si poggia sulla giustizia: «Giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese» (Is 11, 4).

E si poggia anche sulla nonviolenza attiva: il violento e l’empio saranno abbattuti, sì, ma senza nessuna arma, se non quella della parola: «La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio».

Ebbene, nella nostra vita privata e comunitaria, la pratica della giustizia e della nonviolenza attiva sta diventando segno di conversione?

 

Deserto e fiume

Se il deserto è il luogo dell’intimità con Dio, della prova, della purificazione, dell’abbattimento degli idoli, viverne la spiritualità, oggi, deve comportare tante conseguenze: non lasciarci prendere dall’affanno delle cose; non sprofondare nello scoraggiamento quando si sperimenta l’aridità e la fatica nel quotidiano, con tutte le sue tentazioni; abbattere i piccoli idoli che abbiamo eretto, forse anche accanto alla croce, nel santuario della nostra coscienza.

E se il fiume, nella simbologia biblica, indica la salvezza che straripa provocando novità di vita, sarebbe opportuno chiederci se noi da queste acque ci lasciamo appena lambire, rimanendo a mezza costa o sul greto, sedotti magari solo dalla curiosità, oppure ci siamo decisi cordialmente a «entrare nel fiume». 

 

Parola e voce

II Battista, definito semplice voce di colui che verrà dopo e che sarà la Parola, deve provocare, in noi, una conversione all’umiltà, alla coscienza del limite, al rifiuto di ogni arrogante prevaricazione. Noi siamo i servi della Parola. Le prestiamo vibrazioni e risonanze. La portiamo lontano e le    diamo cadenze di attualità. Ma la Parola è Cristo. È lui che giudica e che salva.

Forse la considerazione della nostra semplice strumentalità, oltre che spingerci all’approfondimento della Parola che poi, come credenti in Gesù, dobbiamo rivestire di voce, potrebbe riscattarci anche da non pochi abusi di potere.

 

Denuncia e proposta

Lo stile di Giovanni che rimprovera gli ebrei e, ricorrendo al vocabolario più duro, ne sferza la cattiva condotta di vita, potrebbe fuorviarci, se non tenessimo presente che, nel suo messaggio, accanto alla denuncia si colloca l’annuncio, con una incredibile forza propositiva. «Razza di vipere», sì. Ma anche: «Convertitevi», «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri: il regno dei cieli è vicino» (Mt3, 3).

Ci sarebbe da chiedersi se anche nelle nostre comunità cristiane lo sbilanciamento sui versanti della denuncia, che per altro non ha molto bisogno di inventiva, non debba essere ricondotto a più maturo equilibrio mediante proposte positive, incoraggianti, che facciano appello alle risorse della speranza. Sarebbe ben triste che scambiassimo la profezia con l’esercizio del brontolare cronico, dimenticando che essa è danza più che lamento.

 

Acqua e fuoco

«Io vi battezzo con acqua… egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3, 11). È molto significativo che già lo Spirito Santo venga insediato al centro dell’economia di salvezza. Non è raro, infatti, che il Natale venga percepito come espressione del protagonismo solo del Padre e del Figlio, rimandando quasi una più seria presa in considerazione dello Spirito Santo al periodo di Pentecoste. Non c’è nulla di più deleterio di questa visione.

Non sarebbe fuori posto oggi buttare lì, come una pietra nello stagno, una domanda a bruciapelo: che cosa significa per noi credenti fermarsi all’acqua di Giovanni?

 

Grano e pula

Non è esercitare forme di ricatto o di terrorismo spirituale, su di sé o sugli altri, se oggi ci chiediamo qual è la percentuale della crusca nel frumento della nostra esistenza. E non è neppure dare sfogo all’ingenuità se ci si esercita in una specie di bilancio di previsione, pensando a quale sarà la crusca della nostra vita che il Signore un giorno brucerà e a quali saranno i chicchi di grano lucente che egli riporrà nei suoi granai. È solo il tentativo di chi vuoi tradurre in spessore di concretezza l’invito alla conversione.

(Don Tonino Bello, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 61-66).

 

Conversione

Il verbo shuv, che appunto significa «ritornare», è connesso a una radice che significa anche «rispondere» e che fa della conversione, del sempre rinnovato ritorno al Signore, la responsabilità della chiesa nel suo insieme e di ciascun singolo cristiano. La conversione non è infatti un’istanza etica, e se implica l’allontanamento dagli idoli e dalle vie di peccato che si stanno percorrendo (cfr. i Tessalonicesi 1,9; 1 Giovanni 5,2I), essa è motivata e fondata escatologicamente e cristologicamente: è in relazione all’Evangelo di Gesù Cristo e al Regno di Dio, che in Cristo si è fatto vicinissimo, che la realtà della conversione trova tutto il suo senso.

La conversione attesta la perenne giovinezza del cristianesimo: il cristiano è colui che sempre dice: «Io oggi ricomincio». Essa nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo: nessuna caduta, nessun peccato ha l’ultima parola nella vita del cristiano, ma la fede nella resurrezione lo rende capace di credere più alla misericordia di Dio che all’evidenza della propria debolezza, e di riprendere il cammino di sequela e di fede. Gregorio di Nissa ha scritto che nella vita cristiana si va «di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine». Sì, sempre il cristiano e la chiesa abbisognano di conversione, perché sempre devono discernere gli idoli che si presentano al loro orizzonte, e sempre devono rinnovare la lotta contro di essi per manifestare la signoria di Dio sulla realtà e sulla loro vita. In particolare, per la chiesa nel suo insieme, vivere la conversione significa riconoscere che Dio non è un proprio possesso, ma il Signore. Implica il vivere la dimensione escatologica, dell’attesa del Regno di Dio che deve venire e che la chiesa non esaurisce, ma annuncia. E annuncia con la propria testimonianza di conversione.

(Cf. Enzo BIANCHI, Le parole della spiritualità, Milano, Rizzoli, 21999, 67-70).

 

Voltati!

Ho visto una volta lo spettacolo di un mimo, in cui un uomo si sforzava di aprire una delle tre porte della stanza in cui si trovava. Spingeva e tirava le maniglie delle porte, ma nessuna delle porte si apriva. Allora colpiva col piede i pannelli di legno delle porte, ma non si rompevano. Alla fine, gettò tutto il suo peso contro le porte, ma nessuna di queste cedette.

Era uno spettacolo ridicolo, e tuttavia molto divertente, perché l’uomo era così concentrato sulle tre porte chiuse che non aveva neppure notato che dietro di lui nella stanza non vi era una parete e che avrebbe potuto semplicemente uscirne, se soltanto si fosse voltato e avesse guardato!

Quando parliamo di conversione è di questo che si tratta. Significa voltarci per scoprire che non siamo prigionieri come crediamo di essere. Visti dalla prospettiva di Dio, spesso appariamo come l’uomo che cerca di aprire le porte chiuse della sua stanza. Ci angosciamo per tante cose e persino ci feriamo nella nostra ansia. Dio dice: “Voltati, rivolgi il tuo cuore al mio Regno. Ti do tutta la libertà che desideri”.

(Henri J.M. NOUWEN, Vivere nello spirito, Brescia, Queriniana, 2003, 45-46)

 

Sulla la conversione

Quando sono diventato frate speravo di convertire il mondo intero.

Sarò felice se riuscirò a salvare me stesso.

E mi sono accorto che sono io che devo essere diverso e non l’altro.

(Davide Maria Turoldo)

 

Dammi la forza

«Dio mio,

dammi la forza di cambiare le cose

che possono essere cambiate;

dammi la forza di accettare le cose

che non possono essere cambiate;

e dammi la luce

per distinguere le une dalle altre»

(Anonimo)

 

Il pentimento       

      La prima attività o energia dello Spirito in noi è la metànoia, la conversione o pentimento. Questo volgersi indietro del nostro nous (metanoia), questo cambiamento del cuore, è il nostro primo momento di verità davanti a Dio, a noi stessi e ai fratelli. Alcuni padri della chiesa ritenevano che essa comportasse normalmente il battesimo delle lacrime, a loro avviso il chiaro segno che lo Spirito si stava impossessando del corpo di un uomo: l’uomo capitola, la sua resistenza va in frantumi, ed egli piange. Si potrebbero vedere dei paralleli a quest’esperienza con esperienze analoghe riscontrate nella psicanalisi: ha luogo una sorta di catarsi. L’uomo piange e si arrende, si arrende allo Spirito santo, a quella nuova consapevolezza di se stesso che gli è possibile acquisire mediante il battesimo delle lacrime.

      Mi sembra di poter dire che la conversione, il pentimento, non è solo un tema del quale è difficile parlare ai nostri giorni, ma è anche, visti i complessi che attanagliano l’uomo moderno, uno dei più difficili da mettere a fuoco con precisione e da vivere autenticamente. E tuttavia rimane essenziale. Il pentimento è oggi qualcosa che suscita repulsione. Ci troviamo a vivere in un periodo di transizione tra la nevrosi ossessiva (se così si può chiamarla) che caratterizzava il periodo immediatamente precedente al nostro, e l’effervescenza e l’aggressività adolescenziali di un periodo che si sta liberando da tale nevrosi. A chi è già divorato dall’angoscia l’evidenza del peccato può creare soltanto un’angoscia ancor più insopportabile. Il peccato era del tutto intollerabile nell’epoca precedente alla nostra, e gli uomini cercavano di liberarsene ricorrendo a quella che i padri erano soliti chiamare dikaioma, la pretesa di esser giusti, l’autogiustificazione: non si era in grado di portare il peso del peccato? E allora ci si convinceva d’esser giusti mediante un’osservanza esteriore della legge, o piuttosto, di un certo numero di regole. In realtà, in questo modo non si fa che sfuggire alla conversione, alla metànoia. Oggi, invece, manifestiamo un’effervescenza e un’aggressività adolescenziali che sono altrettanto nevrotiche, e per le quali il peccato è altrettanto insostenibile; la soluzione odierna consiste tuttavia nel dire che non esiste il peccato.

(A. LOUF, La vita spirituale, Magnano (Biella), Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, 2001, 9-20).

 

Preghiera

      Suscita in noi, Signore, ancora oggi il desiderio vivo di tornare a te con una vera conversione. Riconosciamo, Padre, le molte tortuosità in cui si smarriscono il nostro cuore e la nostra volontà, quando non sono sostenuti dalla tua Parola di verità, dall’opera della tua grazia. Tu che sei il Dio fedele, rendi saldi anche noi sulle tue vie.

      Non vediamo, Signore, attorno a noi il lupo dimorare con l’agnello, ne il bambino porre la mano nel covo dei serpenti e, anche quando parliamo di pace e giustizia, lo facciamo spesso solo perché siamo mossi dalla convenienza o dalla paura. Gesù, germoglio di Davide, tu vieni a noi come bambino che non teme di stendere le mani tra i veleni di questa umanità: insegnaci ad accoglierci gli uni gli altri per la gloria di Dio; non sia solo la paura a farci convertire, ma l’intima convinzione che per la tua presenza Dio cammina in mezzo a noi e fa di noi il suo popolo.

      Vieni su di noi, Spirito Santo, con la pienezza dei tuoi doni, perché questo popolo, che ancora si accinge ad ascoltare la parola forte e austera del Battista, non riposi sulla propria presunta giustizia e abbia la forza di portare a termine il cammino intrapreso.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.

Adviento y Navidad, in «Sal Terrae» 101 (2013) 1.184, número monográfico.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

II DOMENICA DI AVVENTO ANNO A