I DOMENICA DI AVVENTO

 Prima lettura: Isaia 2,1-5

Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme. Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.  Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore. 

     

 

Questo profeta dell’A.T è capace di contemplare l’Altissimo e di far comprendere al popolo dell’alleanza che il Signore e la sua santa legge devono essere accolti nella fede. Il profeta Isaia nasce a Gerusalemme nel 760 a.C., vive il tempo difficile del Regno del Sud sotto la minaccia degli Assiri, finisce il suo ministero sotto Manasse (690 a.C.).                                                       

Il testo proposto dalla Chiesa all’interno della Liturgia di questa prima domenica di Avvento è inserito nei primi cinque capitoli che raccolgono l’oracolo sul destino di Gerusalemme e di Giuda pronunziati nei primi anni del suo ministero.

La lettura del testo porta a ricordare l’episodio della Torre di Babele: tentativo umano di arrivare a Dio, un segno della superbia umana, ed ecco che il profeta oppone a questo avvenimento la visione del «monte del Signore» che radunerà i popoli nella pace. Siamo di fronte ad un oracolo escatologico che annunzia la diffusione nel mondo del nome di YHWH e Gerusalemme diventerà il centro della religione jahvistica e della pace.

Nel v. 2 è molto importante sottolineare quel «sarà saldo…», esso è riferito a Gerusalemme, la nota della Versione dai testi originali così commenta: «Secondo la concezione mitologica dell’Antico oriente, il monte del tempio si identificava col monte altissimo in cui dimoravano gli dei. Qui il mondo terrestre si univa con quello celeste. Nel nostro testo questa mitologia viene utilizzata per descrivere la speranza escatologica di Israele» (cf. p. 1046).

Il monte meraviglioso, attraverso la legge e la parola, impone un ordine umano secondo il progetto di Dio; il profeta nella sua visione ricorda che è volontà divina la giustizia sulla terra e che quest’ultima è il fondamento della pace; è nei piani dell’Altissimo un governo giusto, la pace internazionale, il disarmo, gli strumenti di guerra trasformati in mezzi di pace.

Il popolo d’Israele è in atteggiamento di cammino, apre il pellegrinaggio verso la luce del Signore, in questo grande movimento verso YHWH devono essere coinvolte tutte le genti.

 

Seconda lettura: Romani 13,11-14a

 

Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo. 

 

 

Il testo paolino che la liturgia propone è inserito nella Lettera ai Romani. Scritta, questa lettera, da Paolo nel 58 d.C., fu inviata per preparare un suo viaggio in Spagna. Nella lettera Paolo espone il suo pensiero teologico, anche se non sono affrontati tutti i temi della sua teologia. Questa lettera la potremmo definire come “la grande presentazione teologica” della fede cristiana.

Il nostro brano è inserito nella sezione 12,1-15,13 considerata la parte delle Attuazioni: come il credente deve affrontare la vita quotidiana. Dal testo, usato dalla liturgia, emerge come Paolo valuti il suo “tempo” come “occasione di grazia”, invita i credenti a vivere nell’apertura al futuro; ormai la notte sta per terminare e Cristo sta per arrivare con tutta la sua gloria, la sua venuta coincide con il giorno. La fede prepara la comunità cristiana a ricevere definitivamente Cristo nella sua infinita gloria. Tutto ciò esige da parte del credente di sviluppare una coscienza che realizza opere di vita e non di morte; l’attesa del Vivente porta il credente ad avere sempre una condotta onesta, una coscienza in ricerca «per rivestirsi delle armi della luce» cioè le opere buone che allontanano l’uomo da ogni forma di male.

Dietro all’affermazione del v. 72 certamente Paolo vuole ricordare che le opere buone sono possibili solo se si è nuovi nel cuore, non si deve mai dimenticare che «la proposta morale cristiana non potrà mai perdere di vista questa priorità antropologica e salvifica. Il valore morale non sta prima di tutto nel gesto che si compie, ma nel cuore che lo ispira e lo determina» (S. MAJORANO, Coscienza e virtualità del Sangue di Cristo, «Sangue e vita», Roma, 1995, 154).

Nel v. 13 Paolo ricorda un elenco di vizi dal quale l’uomo dev’essere lontano che sono praticati normalmente di notte. Ma ciò che potrebbe essere considerato centro del brano è il v. 14: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo…»: ciò che è avvenuto nel sacramento del battesimo come “evento” qui è presentato come esigenza nella vita morale. È sempre il v. 14 che dev’essere considerato eco di un inno battesimale della Chiesa primitiva, ad ogni modo è certo che Paolo qui realizza una missione: presenta il piano di Dio in maniera cristologica ed orienta tutte le iniziative etiche dei credenti nell’obbedienza al Signore, (cf. G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, vol. 2, Borla, Roma 1990, 491).

Mediante il verbo “rivestitevi” Paolo usa una metafora che indica sempre appropriazione, unione; rivestirsi del mistero di Cristo significa fare di esso il punto fondamentale della propria esistenza, la persona del Risorto datore di Spirito Santo diventa “fonte” della vita quotidiana dalla quale l’uomo attinge energia per vivere nella storia umana e fare la volontà del Padre Celeste.

 

Vangelo: Matteo 24,37-44

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato.  Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 

 

Esegesi 

Il brano del Vangelo odierno ci immette nel capitolo 24 del Vangelo di Matteo che è definito comunemente “discorso escatologico“, il contesto è il seguente: Gesù è uscito dal tempio (cf. v. 7) e sedutosi sul monte degli ulivi (cf. v. 3) pronunzia queste parole sulle ultime realtà. La pericope è preceduta dal tema dell’avvento del Figlio dell’uomo (cf. vv. 26-23), dalla dimensione cosmica di questo avvento (cf. vv. 29-37), dalla parabola del fico (cf. vv. 32-36).

     Nel discorso in questione Gesù usa il linguaggio apocalittico, molto difficile, ma sappiamo bene che l’intenzione del Cristo non è quella di portare terrore ma di affermare delle verità teologiche: verrà la fine del mondo, è necessario assumere un atteggiamento di vigilanza, la storia diventa il luogo per realizzare già il regno di Dio.

È da annotare il v. 36 che molte volte fa difficoltà ricordando Mt 11,27 dove si afferma che quello che appartiene al Padre è anche del Figlio; ma nel v. 36 — che precede la nostra pericope — il senso profondo è che non rientra nella missione di Gesù rivelare il momento preciso della fine del mondo, ciò appartiene alla conoscenza del cuore di Cristo che è sempre in comunione eterna con il cuore del Padre che svela ogni cosa, nello Spirito santo, al suo Figlio prediletto.

Ma entriamo, aiutati dallo Spirito Santo, unico esegeta della Parola, nelle profondità del testo proposto dalla liturgia: vv. 37- 39: Gesù fa un paragone con la situazione storico, sociale e religiosa degli uomini contemporanei a Noè, si viveva nell’assoluto relativismo morale, la legge scritta nel cuore umano non era seguita, la libertà era intesa come libertinaggio. Gesù ricorda tutto questo, evidenziando che vivendo nella dissolutezza, furono travolti dalla catastrofe. Dobbiamo soffermarci sull’espressione «così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo»: la venuta del Cristo glorioso che si presenterà come vero ed unico giudice della storia e delle coscienze personali incombe sugli uomini come “avvenimento” di giudizio; la seconda venuta del Cristo dev’essere intesa come “momento di sintesi” della storia umana e della nostra coscienza che si presenterà davanti al Cristo con la sua scelta fondamentale con il quale ha costruito il proprio vissuto morale.

vv. 40-41: la fine dei tempi avverrà nel “quotidiano” che diventerà improvvisamente “eternità” nel quale il Cristo glorioso giudicherà con misericordia e verità. Il testo evangelico ricorda delle occupazioni abituali: il lavoro dei campi fatto dagli uomini ed i lavori domestici realizzati dalle donne, è qui che si svolgerà l’ultima chiamata di Cristo.

v. 42: l’esistenza umana che è un cammino verso l’eterno non può essere vissuta nella distrazione, l’incontro con il Cristo glorioso dev’essere preparato dal discepolo, per questo Gesù invita alla vigilanza e quindi alla preghiera. Il momento orante della vita personale prepara il cuore umano ad accogliere la parola definitiva del Redentore nel proprio vissuto quotidiano. Ma questo “vegliare” al quale il Cristo stesso ci chiama non è un’attesa di paura e di angoscia ma dev’essere un momento nel quale il credente deve immergersi in una preghiera fiduciosa verso l’Altissimo. Il discepolo di Cristo che attende la sua venuta confida nel suo Signore, in quanto sa bene che Dio avrà sempre una «parola di misericordia» nei suoi confronti; dovranno essere questi i pensieri del «vegliare» in attesa della parusia. Ma tutto ciò non esclude l’impegno concreto per la realizzazione del regno di Dio nella storia umana, il cristiano non può disprezzare la vita presente; il futuro, l’escatologia inizia nella nostra storia; il regno di Dio è già in mezzo a noi e avrà nel «domani di Dio» la sua piena attuazione. Questo logion è presente in Mc 13,35, inserito in un’altra parabola che l’evangelista Matteo omette. È da annotare il commento che fa in nota la Bibbia di Gerusalemme: «La vigilanza, in questo stato di allarme, suppone una solida speranza ed esige una costante presenza di spirito che prende il nome di sobrietà» (cf. p. 21-43).

vv. 43-44: qui abbiamo la piccola parabola dello scassinatore notturno, è riferita alla venuta gloriosa del Cristo che sarà improvvisa, questi versetti potrebbero acquistare luce leggendo il brano dell’Apocalisse 3,3: «Se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, senza che tu sappia l’ora della mia venuta a te». Gesù si pone in netto contrasto con l’apocalittica giudaica che cercava di calcolare in anticipo la parusia, Gesù Cristo invece, vuole affermare il carattere sconosciuto ed inaspettato e perciò invita caldamente all’attesa, alla vigilanza, a stare in piedi ed attendere il Redentore. 

 

Meditazione

L’evento finale e decisivo della storia di salvezza profetizzato da Isaia e annunciato dal vangelo come «venuta del Figlio dell’Uomo» viene colto nelle letture odierne nella sua portata giudiziale: esso giudica le violenze e le guerre che gli uomini scatenano (I lettura); le immoralità in cui si perdono (II lettura); l’incoscienza e l’ignoranza colpevoli con cui si anestetizzano (vangelo). L’annuncio escatologico non è un messaggio spiritualistico, ma ha un impatto forte sulla storia dei popoli (I lettura), sulla quotidianità delle esistenze dei credenti (vangelo) e sul loro comportamento (II lettura).

La simbolica della polarità notte-giorno, tenebre e luce, attraversa le tre letture e consegna un messaggio che intende svegliare il credente e guidarlo a conversione. È la tenebra delle genti che non conoscono il cammino da percorrere e che vengono illuminate dalla parola di Dio («camminiamo nella luce del Signore»: Is 2,5); è la tenebra della generazione di Noè che non capisce nulla, non discerne il tempo e i suoi segni e così perisce; è la notte che chiede al padrone di casa di vegliare per impedire al ladro di svaligiargli la casa (vangelo); è la notte simbolo del peccato, da cui il credente è chiamato a risvegliarsi gettando via le opere delle tenebre e indossando le armi della luce (II lettura).

La prima domenica di Avvento, che segna l’inizio di un nuovo anno liturgico, contiene un invito a ricominciare, si tratta di ricominciare il cammino di fede ascoltando di nuovo la parola di Dio (I lettura); facendo memoria degli inizi della fede, dunque del battesimo (II lettura); assumendo la storia quotidiana come luogo di vigilanza e discernimento (vangelo). In questa prospettiva di inizio o re-inizio, è significativo che il passo di Paolo sia stato decisivo per la conversione di Agostino (Confessioni VIII,12,29). Ascoltata la voce che dice «Prendi e leggi», Agostino apre la Scrittura e trova il passo che dice: «Non nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, non nelle orge e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze». Afferma Agostino: «Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Infatti, appena terminata la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza, penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono». Anche Agostino vive il suo risveglio, il suo passaggio dalle tenebre alla luce.

Il vangelo, istituendo un parallelo tra il diluvio, che sconvolse la quotidianità ripetitiva della vita della generazione di Noè, e la venuta del Figlio dell’Uomo, ammonisce a non annegare nella banalità dei giorni. La generazione di Noè non è dipinta da Gesù come malvagia o empia, ma semplicemente come incosciente: «Non si accorsero di nulla» (Mt 24,39). La generazione di Noè perì per mancanza di discernimento. E così perì due volte: nel diluvio e senza sapere perché. Noè, invece, seppe discernere e così salvò se stesso e il futuro: il discernimento dell’oggi salva il futuro. E questa è la responsabilità. La colpa, se di colpa si deve parlare, intravista nel nostro testo, è dunque l’irresponsabilità, l’assenza di discernimento.

Vigilare significa esercitare l’intelligenza, la riflessione, il pensiero sui tempi che si vivono, per non essere sorpresi dalle catastrofi che si preparano nascostamente nell’oggi della storia, nella chiesa, nelle relazioni famigliari e personali. Il credente è chiamato a pensare e conoscere l’oggi a partire dalla venuta del Signore e dalle sue dimensioni di impensato e di ignoto (Mt 24,36.44).

La venuta del Signore non impegna solo a vigilare sui tempi, ma anche sulla verità del proprio cuore. Il riferimento alle due persone impegnate nello stesso lavoro, che nulla sembra distinguere, e di cui però una viene presa e l’altra lasciata, indica che ciò che nella quotidianità dei giorni può rimanere nascosto, sarà manifestato alla venuta del Signore. La differenza si gioca nell’invisibile interiorità. «In interiore homine habitat veritas» (Agostino); «Il cammino della conoscenza porta verso l’interiorità» (Novalis).   

 

L’IMMAGINE DELLA DOMENICA

  

Campane della Chiesa di Moral de Hornuez (Segovia)   –     2011


EGLI PUÒ SEMPRE ARRIVARE

«… non si può mai sapere se Dio è in una storia,

prima che uno l’abbia finita di raccontare.

Perché anche se mancassero solo due parole o soltanto

la pausa che segue le ultime parole del racconto,

Egli può sempre arrivare» 

(Rainer Maria Rilke)

 

Preghiere e racconti 

L’avvento

L’avvento è il tempo dell’attesa di un Dio che si fa uomo, che si fa così piccolo da essere accolto solo dai piccoli e dai poveri. Il tempo presente si gioca tutto nell’accoglienza di questo Dio che, dopo essere entrato nella storia più di 2000 anni fa, continua a venire sulle strade del mondo in ogni uomo, donna, bambino. L’ha detto Lui stesso: “chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me”. (Mt 18,5). Si è identificato e chiede di essere riconosciuto in un bambino! Sta a dire nel più piccolo, quello che non conta. “Bambino” è sinonimo di ogni povero, emarginato, straniero, rifiutato, “scartato”, per usare il linguaggio di Papa Francesco, che è anche il linguaggio del Vangelo. Gesù stesso infatti si è riconosciuto in quella “pietra scartata” dai costruttori che è divenuta testata d’angolo (cfr Mc, 12,10); è apparso come straniero tra i suoi, considerato come una presenza estranea, pericolosa, da eliminare a causa del suo insegnamento e dei suoi gesti di accoglienza nei confronti di coloro che erano ai margini della vita sociale e religiosa. Il pensiero va immediatamente alla sfida enorme che ci viene dall’emergenza “immigrazione”, che ci mette in crisi come singoli e come comunità umana. Siamo messi in questione innanzitutto come uomini, perché l’altro da accogliere è uguale a noi in dignità e diritti. Come discepoli di Gesù non possiamo evitare di chiederci da che parte stiamo noi, in questo mondo in cui sono tutt’altre le voci che gridano più forte sull’onda della paura, del sospetto, del pregiudizio, del rifiuto, in cui ci si ostina a costruire muri anziché ponti. Ma perché è tanto difficile aprire la mente, il cuore, le mani all’accoglienza e riconoscere in tutte queste persone che fuggono da situazioni di guerra, di ingiustizia, di povertà, degli uomini e delle donne come noi, che hanno lo stesso valore, lo stesso diritto di esistere e di trovare condizioni degne di una vita umana? Perché facciamo così fatica a riconoscerci fratelli? Siamo caduti nell’illusione che sia l’avere e il perseguimento del proprio benessere e sicurezza personale a scapito degli altri e del bene comune, a salvarci e a dare senso alla nostra esistenza. Così ci sentiamo minacciati ogni volta che qualcuno viene a chiederci di sedersi alla nostra mensa, di condividere con lui il pane della fraternità universale; abbiamo paura che ci porti via qualcosa, che diminuisca le nostre possibilità di vita. E’ un individualismo che ci toglie il respiro e uccide la speranza di un futuro migliore per l’umanità, ci rende ciechi anche di fronte alle nuove opportunità che, attraverso queste sfide, la storia ci apre davanti. Per noi cristiani questo Avvento è il tempo propizio per misurarci proprio sugli atteggiamenti dell’accoglienza e dell’apertura verso chi è più nel bisogno. Tutta l’umanità vive la grande attesa di una salvezza che risponda alle aspirazioni più profonde del cuore umano, dei singoli, dei popoli, dell’intero creato. Gesù ci indica una strada percorribile da tutti: quella del riconoscerci e accoglierci come fratelli. Ma bisogna scendere dal “trono” del nostro egoismo e farci piccoli. E accogliendo i più piccoli dei nostri fratelli ci capiterà di incontrare Lui, il vero “atteso delle genti”.

Anna Maria Menin

 

L’avvento

Con l’odierna prima domenica di Avvento, entriamo in quel tempo di quattro settimane con cui inizia un nuovo anno liturgico e che immediatamente ci prepara alla festa del Natale, memoria dell’incarnazione di Cristo nella storia. Il messaggio spirituale dell’Avvento è però più profondo e ci proietta già verso il ritorno glorioso del Signore, alla fine della storia. Adventus è parola latina, che potrebbe tradursi con ‘arrivo’, ‘venuta’, ‘presenza’. Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico che indicava l’arrivo di un funzionario, in particolare la visita di re o di imperatori nelle province, ma poteva anche essere utilizzato per l’apparire di una divinità, che usciva dalla sua nascosta dimora e manifestava così la sua potenza divina: la sua presenza veniva solennemente celebrata nel culto.

Adottando il termine Avvento, i cristiani intesero esprimere la speciale relazione che li univa a Cristo crocifisso e risorto. Egli è il Re, che, entrato in questa povera provincia denominata terra, ci ha fatto dono della sua visita e, dopo la sua risurrezione ed ascensione al Cielo, ha voluto comunque rimanere con noi: percepiamo questa sua misteriosa presenza nell’assemblea liturgica. Celebrando l’Eucaristia, proclamiamo infatti che Egli non si è ritirato dal mondo e non ci ha lasciati soli, e, se pure non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà materiali e sensibili, Egli è comunque con noi e tra noi; anzi è in noi, perché può attrarre a sé e comunicare la propria vita ad ogni credente che gli apre il cuore. Avvento significa dunque far memoria della prima venuta del Signore nella carne, pensando già al suo definitivo ritorno e, al tempo stesso, significa riconoscere che Cristo presente tra noi si fa nostro compagno di viaggio nella vita della Chiesa che ne celebra il mistero. Questa consapevolezza, cari fratelli e sorelle, alimentata nell’ascolto della Parola di Dio, dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi, ad interpretare i singoli eventi della vita e della storia come parole che Iddio ci rivolge, come segni del suo amore che ci assicurano la sua vicinanza in ogni situazione; questa consapevolezza, in particolare, dovrebbe prepararci ad accoglierlo quando “di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine”, come ripeteremo tra poco nel Credo. In questa prospettiva l’Avvento diviene per tutti i cristiani un tempo di attesa e di speranza, un tempo privilegiato di ascolto e di riflessione, purché ci si lasci guidare dalla liturgia che invita ad andare incontro al Signore che viene.

(Discorso di Benedetto XVI a San Lorenzo fuori le Mura, Per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo, 30 novembre 2008).

 

L’attesa, una maniera di vivere

«La nascita è un’attesa

ma, contrariamente

a ciò che si vorrebbe credere,

l’attesa non è una parentesi:

è una maniera di vivere…».

(Jean DEBRUYNE, Nascere).

 

L’attesa

Oggi, prima domenica di Avvento la Chiesa inizia un nuovo Anno liturgico un nuovo cammino di fede che da una parte fa memoria dell’evento di Gesù Cristo e dall’altra si apre al suo compimento finale. E proprio di questa duplice prospettiva vive il Tempo di Avvento guardando sia alla prima venuta del Figlio di Dio quando nacque dalla Vergine Maria sia al suo ritorno glorioso quando verrà a giudicare i vivi e i morti come diciamo nel Credo. Su questo suggestivo tema dell’attesa vorrei ora brevemente soffermarmi perché si tratta di un aspetto profondamente umano in cui la fede diventa per così dire un tutt’uno con la nostra carne e il nostro cuore.

L’attendere è una dimensione che attraversa tutta la nostra esistenza personale familiare e sociale. L’attesa è presente in mille situazioni da quelle più piccole e banali fino alle più importanti che ci coinvolgono totalmente e nel profondo. Pensiamo, tra queste all’attesa di un figlio da parte di due sposi, a quella di un parente o di un amico che viene a visitarci da lontano, pensiamo, per un giovane all’attesa dell’esito di un esame decisivo o di un colloquio di lavoro, nelle relazioni affettive, all’attesa dell’incontro con la persona amata della risposta ad una lettera o dell’accoglimento di un perdono.

Si potrebbe dire che l’uomo è vivo finché attende, finché nel suo cuore è viva la speranza. E dalle sue attese l’uomo si riconosce la nostra statura morale e spirituale si può misurare da ciò che attendiamo da ciò in cui speriamo.

Ognuno di noi, dunque specialmente in questo Tempo che ci prepara al Natale può domandarsi io che cosa attendo? A che cosa in questo momento della mia vita è proteso il mio cuore? E questa stessa domanda si può porre a livello di famiglia di comunità di nazione. Che cosa attendiamo insieme? Che cosa unisce le nostre aspirazioni? che cosa le accomuna?

Nel tempo precedente la nascita di Gesù era fortissima in Israele l’attesa del Messia cioè di un Consacrato discendente del re Davide che avrebbe finalmente liberato il popolo da ogni schiavitù morale e politica e instaurato il Regno di Dio. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che il Messia potesse nascere da un umile ragazza come era Maria promessa sposa del giusto Giuseppe. Neppure lei lo avrebbe mai pensato eppure nel suo cuore l’attesa del Salvatore era così grande la sua fede e la sua speranza erano così ardenti che Egli poté trovare in lei una madre degna. Del resto Dio stesso l’aveva preparata prima dei secoli. C’ è una misteriosa corrispondenza tra l’attesa di Dio e quella di Maria la creatura piena di grazia totalmente trasparente al disegno d’amore dell’Altissimo. Impariamo da Lei Donna dell’Avvento a vivere i gesti quotidiani con uno spirito nuovo con il sentimento di un’attesa profonda che solo la venuta di Dio può colmare.

(Santo Padre Benedetto XVI, Angelus, 28. 11. 2010)

 

Svegliatevi!

Avvento significa svegliarsi dai sogni di tutti i giorni, svegliarsi alla realtà. Chi è desto vive con consapevolezza ogni momento della sua vita, è presente a se stesso, vivace, vigile. È sveglio chi non si stordisce. La frenesia intontisce.

Non siamo obbligati a lasciarci travolgere dal vortice consumistico. Non dobbiamo a tutti i costi lasciarci inghiottire dalla smania di esaudire ogni desiderio. La vigilanza non è soltanto l’atteggiamento fondamentale richiesto dall’Avvento.

Il racconto del Natale menziona i pastori che vegliavano durante la notte. E proprio perché stavano vegliando viene loro annunciata la lieta novella della nascita del Messia. Chi è sveglio è aperto e disponibile ad accogliere il mistero che vorrebbe afferrarci.

(Anselm GRÜN, Il piccolo libro della gioia del Natale, Milano, Gribaudi, 2006, 20)

 

Attendere

Non amo attendere nelle file. Non amo attendere il mio turno. Non amo attendere il treno. Non amo attendere prima di giudicare. Non amo attendere il momento opportuno. Non amo attendere un giorno ancora. Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell’istante. D’altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l’attesa: gli abbonamenti ai mezzi di trasporto e i self-service, le vendite a credito e i distributori automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali. Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi.

Ma tu Dio tu hai scelto di farti attendere il tempo di tutto un Avvento. Perché tu hai fatto dell’attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l’usura che non si usura. L’attesa, soltanto l’attesa,  l’attesa dell’attesa, l’intimità con l’attesa che è in noi, perché solo l’attesa desta l’attenzione e solo l’attenzione è capace di amare.

(J. Debruynne, Ecoute, Seigneur, ma prière, Collectif, Paris, 1988).

 

L’ “ora di Dio”

Il Signore ci chiede di essere vigilanti e pronti perché non possiamo conoscere in anticipo l’ora di Dio, l’ora in cui Dio viene a visitarci con un intervento speciale. Sono ormai abbastanza anziano e saggio da pensare che non posso forzare quest’ora di Dio.

Dio verrà da me e da te, a modo suo e quando vorrà. A volte siamo tentati di comportarci come coloro che addestrano gli animali con i cerchi. Chiediamo a Dio di venire e di saltare attraverso i nostri cerchi proprio come vogliamo noi! Ma, alla fine, scopriamo che Dio non è un animale ammaestrato. Dio sceglie i suoi momenti e suoi mezzi. La nostra parte è solo di essere pronti per questi momenti speciali. A volte, l’ora di Dio sembra giungere proprio nel momento in cui non ce la facciamo più. Ad ogni modo, la nostra fiducia in Dio ci dice che Dio verrà, al momento migliore e nel modo migliore. Io devo permettere a te di essere te stesso, e tu devi permettere a me di essere me stesso.

E noi dobbiamo permettere a Dio di essere Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 70).

 

Il buffone e il re

Un re aveva al suo servizio un buffone di corte che gli riempiva le giornate di battute e scherzi. Un giorno, il re affidò al buffone il suo scettro dicendogli: «Tienilo tu, finché non troverai qualcuno più stupido di te: allora potrai regalarlo a lui». Qualche anno dopo, il re si ammalò gravemente. Sentendo avvicinarsi la morte, chiamò il buffone, a cui in fondo si era affezionato, e gli disse: «Parto per un lungo viaggio».

«Quando tornerai? Fra un mese?», «No», rispose il re, «non tornerò mai più». «E quali preparativi hai fatto per questa spedizione?», chiese il buffone. «Nessuno!» fu la triste risposta. «Tu parti per sempre», disse il buffone, «e non ti sei preparato per niente? To’, prendi lo scettro: ho trovato uno più stupido di me!».

 

Vigilanza nella solitudine

 Poco tempo fa un prete mi ha detto di avere annullato l’abbonamento al New York Time perché si era accorto che le continue cronache di guerre, di delitti, di giuochi di potere e di manipolazioni politiche non facevano altro che disturbargli la mente ed il cuore, impedendogli di meditare e di pregare.

 È una storia triste, perché fa nascere il sospetto che solo cancellando il mondo vi si possa vivere, che soltanto circondandosi di una calma spirituale, da noi stessi creata, si possa condurre una vita spirituale. Una vera vita spirituale, invece, fa esattamente il contrario: ci rende tanto vigili e consapevoli del mondo che ci circonda, che tutto ciò che esiste e che accade entra a far parte della nostra contemplazione e della nostra meditazione, invitandoci a rispondere liberamente e senza timore.

È questa vigilanza nella solitudine che muta la nostra esistenza. La differenza sta tutta nel modo in cui guardiamo e ci rapportiamo alla nostra storia personale, attraverso la quale il mondo ci parla.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 44-45).

 

Amare la prima venuta, desiderare la seconda

Fratelli carissimi, dovete sapere che questo tempo beato che noi chiamiamo «Avvento del Signore» evoca due realtà e, dunque, duplice deve essere la nostra gioia, poiché duplice è anche il guadagno che ci deve portare. Questo tempo evoca le due venute del nostro Signore: quella dolcissima venuta in cui il più bello dei figli dell’uomo (Sal 44 [45], 3), il desiderato da tutte le genti (Ag 2,7 Vg), vale a dire il Figlio di Dio, si manifestò visibilmente nella carne a questo mondo, lui a lungo atteso e desiderato ardentemente da tutti i padri; ciò avvenne quando egli venne in questo mondo a salvare i peccatori. Ma questo tempo evoca anche l’altra venuta che dobbiamo aspettare con una solida speranza e che dobbiamo ricordare spesso tra le lacrime, il momento, cioè, in cui il nostro Signore, che dapprima era venuto nascosto nella carne, verrà manifestamente nella sua gloria, come canta il salmo: Dio verrà manifestamente (Sal 49 [50], 3), cioè il giorno del giudizio, quando verrà manifestamente per giudicare […]. Giustamente la chiesa ha voluto che in questo tempo si leggessero le parole dei santi padri e si ricordasse il desiderio di quelli che vissero prima della venuta del Signore. Non celebriamo questo loro desiderio per un solo giorno, ma per un tempo abbastanza lungo, poiché di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge.

Seguiamo, dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio, e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo. Dovete sapere che è stata stabilita la celebrazione di questo tempo per rinnovare in noi il desiderio che gli antichi santi padri avevano riguardo alla prima venuta del Signore nostro e dal loro esempio impariamo a nutrire un grande desiderio della sua seconda venuta. Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda.

(AELREDO DI RIEVAULX, Discorsi 1, PL 195,209A-210B).

 

Preghiera

Signore Gesù, che ci hai affidato la tua casa, la Chiesa e tutti i nostri fratelli, perché ci prendiamo cura gli uni degli altri in attesa del tuo ritorno, non lasciarci cadere le braccia per la stanchezza e per il sonno.

«State attenti, vigilate», è il tuo comando: come chi passa la notte in campagna è attento a tutti i rumori della notte perché possono essere forieri di qualcosa di inatteso, così fa’ che noi teniamo l’occhio attento e l’orecchio teso per scorgere dove tu sei all’opera e dove ci chiami a collaborare con te.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.

Adviento y Navidad, in «Sal Terrae» 101 (2013) 1.184, número monográfico.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

I DOMENICA DI AVVENTO ANNO A