XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Amos 8,4-7

 

Il Signore mi disse: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere».         

 

Anche questo oracolo di Amos contro i mercanti disonesti, come il precedente insegnamento di Gesù, colpisce un sistema di ingiustizie ancor più dei singoli casi denunciati. Destinatari sono coloro che calpestano, fino a soffocarli, i poveri, gli umili della terra. Calpestatori sono i ricchi commercianti, rapaci e prepotenti. Calpestati sono coloro che Dio ha più a cuore, come l’orfano, la vedova, l’oppresso (cf. Is 1,17). Sono gli umili della terra che Sofonia dirà i più fedeli e osservanti delle disposizioni di Dio e ai quali, per la salvezza di tutto il popolo, domanderà di continuare a cercare JHWH, di cercare la vera giustizia nella fedeltà all’alleanza e di accettare pure la miseria per umile sottomissione a lui (Sof 2,3). Sono coloro che a sostegno della loro vita pongono la fiducia nel Signore (Sof 3,12), i poveri di JHWH, il vero popolo di JHWH.

     Amos delinea la mentalità e i comportamenti dei mercanti rapaci con un monologo messo loro in bocca, che traduce i loro intimi sentimenti. Alla radice essi sono insofferenti della religione, se non proprio miscredenti. Le loro prime espressioni suonano come se dicessero: le celebrazioni religiose ci rovinano gli affari! Il sabato e gli inizi del mese ci bloccano i commerci! Così si manifestano avidi di guadagni assai più che disponibili a Dio e al prossimo. Di conseguenza sono volutamente imbroglioni, programmando la alterazione di monete e pesi e lo smercio degli scarti, e sono strozzini dei miseri e dei poveri. È per questi comportamenti, sviluppatisi nelle classi dominanti del periodo monarchico, che i profeti denunciano la ricchezza come pregiudiziale di ingiustizia e anzi di empietà (cf. Is 53,9), mentre nella condivisione comunitaria del tempo dei Patriarchi e dei Giudici era salutata solo come una benedizione.

     Ma Dio non resta indifferente ai soprusi. Nell’ultimo versetto del brano, Amos ammonisce che JHWH si impegna con giuramento a non dimenticare le opere dei disonesti sfruttatori, cioè a punirle a suo tempo. Lo giura per il vanto di Giacobbe. La espressione non è chiara: può intendersi per l’orgoglio dei corrotti in Giacobbe oppure per l’onore con il quale Dio ha impegnato se stesso con il suo popolo (cf. Am 6,8 e 1Sam 15,29). In ogni caso si tratta della vendetta che JHWH farà per riportare la sua giustizia in mezzo al suo popolo. Amos infatti prosegue annunciando prossimo il terribile giorno del Signore (Am 8,8-14), che sarà tenebre e non luce (Am 5,18). E colloca il tutto fra le ultime due visioni: quella del canestro di frutta ormai matura che sta per essere staccata dall’albero (Am 8,1-3) e quella dell’abbattimento del santuario sopra i frequentatori indegni, a loro rovina (Am 9,1-4).

 

Seconda lettura: 1Timoteo 2,1-8

 

Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.                                                                                                 

 

A Timoteo, nel primo capitolo di questa lettera, Paolo ricorda la particolare vigilanza verso le deviazioni nella fede, che ha motivato l’incarico affidategli di rimanere a Efeso (cf. 1Tm 1,3).

     Nel secondo capitolo passa alla parte costruttiva e gli raccomanda prima di tutto e a base di tutto la preghiera. È quanto riportato in questo brano liturgico, che si apre e si chiude con tale raccomandazione. Paolo si riferisce alla preghiera pubblica liturgica, della quale Timoteo è guida, e anche a quella privata dei fedeli, dovunque si trovino (cf. v. S). E dice come va fatta.                              

     Dev’essere universale anzitutto (v. 1), cioè esprimersi in tutte le forme sue proprie (domanda, suppliche, ringraziamenti) e a favore di tutti gli uomini. Ma in modo particolare deve riguardare i re e i governanti (v. 2), perché siano in grado di garantire il bene comune e uno sviluppo della vita sociale nella pace e nella dignità di tutti.

     Per questo, sia la preghiera sia le cose che essa domanda si ricollegano ai disegni di Dio (vv. 3-4), alla sua volontà che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Per questo ancora la preghiera va stabilita sulla mediazione dell’uomo-Dio Cristo Gesù (vv. 5-6) e più precisamente sul suo mistero di morte e resurrezione per il riscatto di tutti.

     Infine Paolo richiama a incoraggiamento la propria partecipazione al mistero di Cristo (v. 7), tutta opera della grazia che lo ha trasformato da bestemmiatore e persecutore violento ad apostolo e maestro dei pagani (cf. 1Tm 1,12-14).

     Tema del brano è dunque la preghiera. Ma le dimensioni che Paolo le assegna la pongono alla radice dello sviluppo del nuovo popolo di Dio, quindi anche della giustizia dei poveri di JHWH (prima lettura) e della scaltrezza e affidabilità con le quali i figli della luce hanno da superare i figli di questo mondo (Vangelo).

 

Vangelo: Luca 16,1-13

 

 In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

 

 

Esegesi 

     Abbiamo qui uno degli insegnamenti di Gesù, che Luca riunisce nei lunghi capitoli dedicati al ministero itinerante dalla Galilea alla Giudea (Lc 9,51-19,27), da lui presentato, più che come un viaggio geografico, come un itinerario formativo dei discepoli, dopo che lo hanno riconosciuto come il Cristo, perché sappiamo seguirlo fino alla croce. L’insegnamento riguarda il buon uso delle ricchezze materiali e si sviluppa in due momenti: prima un racconto-parabola (vv. 1-8) e poi una serie di massime (vv. 9-73).

     La parabola (vv. 1-8) fa il caso di un amministratore incapace che, denunciato, non cerca scusanti e, costretto a pensare al futuro e ad altre situazioni della vita, si dà subito da fare per non restare travolto. Per questo, si converte un poco anche all’amore del prossimo, ma perché gli conviene non per altruismo: un amore egoistico dunque. E lo mette in atto con mezzi illeciti, condonando debiti ingenti a persone forse inguaiate per essi, e diventando pure imbroglione del suo padrone dopo che sperperatore. Il padrone passa sopra alla disonestà del suo dipendente e ne loda invece la scaltrezza. Ed è appunto la scaltrezza o avvedutezza l’insegnamento che Gesù ricava dalla parabola per i discepoli, avvertendo però subito che quella domandata ai figli della luce dovrebbe essere maggiore e soprattutto diversa da quella dei figli di questo mondo, nei giochi con i loro simili.

     Con le massime successive (vv. 9-13) Gesù applica la parabola e precisa le diverse scaltrezza. Anzitutto invita a farsi degli amici con la disonesta ricchezza o meglio col mammona della ingiustizia. Similmente anche l’amministratore è detto economo della ingiustizia. Tale specificazione pare indicare un sistema di cose e non equivalere soltanto a un aggettivo che qualifica i singoli casi di una cifra o di una persona ingiusta. L’invito allora è rivolto a chi si trova dentro al sistema ingiusto, perché si comporti in modo da superarlo nella prospettiva delle dimore eterne, cioè con la realizzazione dell’evangelico regno di Dio. In questo senso i figli della luce sono contrapposti ai figli di questo mondo e sono chiamati a diventare economi della giustizia portata da Cristo, con la proposta delle Beatitudini.

     Le altre massime diventano così più chiare. La fedeltà o meno del poco, che rende fedeli o meno anche nel molto, riguarda la amministrazione delle ricchezze di questo mondo, il poco, da dentro il quale ci si apre o meno alla amministrazione delle ricchezze eterne, il molto. Per questo Gesù aggiunge: non si può affidarvi la ricchezza vera, evangelica, se non siete affidabili in quella ingiusta, di ordine terreno; non si può affidarvi la vostra, di figli della luce, se non siete affidabili in quella altrui, dei figli di questo mondo. E conclude: Nessun servitore può servire due padroniNon potete servire Dio e la ricchezza. La contrapposizione non è tanto fra ricchezza e Vangelo, quanto fra i principi ispiratori della gestione della ricchezza: si arriva veramente a farne buon uso quando dai criteri del mammona si passa a quelli di Dio.

 L’immagine della domenica

 

Cattedrale di Astorga – Cammino di Santiago 2016

 

 OVUNQUE SIA IL VOSTRO TESORO, LÌ SARÀ ANCHE IL VOSTRO CUORE

Risparmiate il vostro cuore per l’amore, e date il vostro amore solo alle persone: a voi stessi, al vostro prossimo e al vostro Dio. Non date mai il vostro cuore alle cose: se lo farete, quella cosa, qualunque essa sia, diventerà gradualmente la vostra padrona, vi conquisterà e vi terrà stretti al guinzaglio della dipendenza. Le preoccupazioni che ne deriveranno, vi renderanno inquieti e vi terranno svegli la notte. Quel che è peggio, se date il vostro cuore a una cosa, ben presto inizierete a invertire in modo radicale le vostre priorità. Quando si incomincia ad amare le cose, si iniziano ad usare le persone per ottenere queste cose, per avere sempre più cose. È dunque opportuno osservare che la Bibbia non dice che il denaro è la causa di ogni male, bensì che l’amore per il denaro è la causa di ogni male. Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile. Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più. Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi. Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).

Meditazione

Elemento comune alle letture è la denuncia della potenza di seduzione del denaro e della ricchezza che porta Gesù a parlarne come di un’entità divinizzata (Mammona) che si oppone all’unico e vero Dio (vangelo) e che conduce il profeta Amos a smascherare l’ossessiva bramosia di guadagno di latifondisti e commercianti che si mostrano insofferenti al giorno santo del sabato che mette un limite ai loro affari (I lettura).

L’ambiguità del denaro e la sua capacità di pervertire il cuore dell’uomo appare anche nella parabola in cui Gesù presenta a modello «l’amministratore disonesto»: modello ovviamente non per la sua disonestà, ma perché, nel momento in cui gli è stato prospettato il licenziamento, ha saputo agire con scaltrezza (Lc 16,8). Al cuore della nostra pagina evangelica vi è la decisione radicale a cui l’uomo è chiamato per entrare nel Regno di Dio.

Questa decisione richiede qualità che sono esemplificate nell’amministratore che ha saputo reagire con decisione al momento difficile in cui è venuto a trovarsi quando i suoi intrighi economici sono stati scoperti.

Nel momento della crisi, questo amministratore anzitutto dimostra capacità di accettazione della realtà, della nuova situazione prodottasi («Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione?»: Lc 16,3); quindi di riconoscimento dei propri limiti, delle proprie incapacità e impotenze («Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno»: Lc 16,3); infine di decisione e scelta preparandosi un futuro: egli agisce compiendo gesti che gli dischiudono un futuro (Lc 16,4-7). Dunque, l’esemplarità di quest’uomo corrotto non sta certo nel suo agire senza scrupoli, ma nel suo discernere realisticamente la situazione critica in cui si viene a trovare e nel saper agire di conseguenza. Anche per Gesù costui è un «figlio di questo mondo» (Lc 16,8)! La domanda di Gesù però riguarda i figli della luce: come mai non sanno discernere l’ora, la vicinanza del Regno e mettere in atto prontamente i gesti di conversione che sono essenziali per la salvezza?

Gesù non demonizza il denaro, ma mette in guardia dalla potenza che esso esercita: l’uomo lo divinizza. «Mammona» è termine connesso alla radice ‘aman che significa «credere». Il vangelo denuncia la seduzione del cuore umano e il pervertimento della verità dell’uomo che il denaro può esercitare. Possiamo dire che esso è l’idolo per eccellenza: nel denaro si «crede» il mercato si nutre di «fiducia». E noi scopriamo la nostra insipienza non appena riflettiamo sul fatto che quel manufatto che è il denaro (è l’uomo che «batte moneta») da mezzo di scambio è divenuto fine, da servo è diventato padrone, crediamo di muoverlo e invece è lui che ci agisce, anzi determina i nostri ritmi quotidiani spingendoci a una frenetica corsa all’accumulo. Per questo Gesù pone un’insanabile contrasto fra «servire Dio e servire il denaro»: «Nessun servo può […] Non potete» (Lc 16,13). Questa parola resta una spina nel fianco di cristiani e chiese ricche in una società opulenta. Il vangelo non da ricette, ma la domanda va almeno fatta risuonare: l’abbondanza di mezzi economici e la potenza di mezzi culturali non rende forse illusoria la sequela Christi? E non la rende anche poco credibile?

Condividere e donare ai poveri sono forme di uso cristiano dei beni suggerito nei vangeli: «Fatevi amici con la disonesta ricchezza». Ovvero: donate ai poveri, gli amici di Dio, ed essi, portatori del giudizio escatologico (Mt 25,31 ss.), potranno accogliervi nelle dimore eterne. Ciò che non è avvenuto al ricco che non ha mai mosso un dito per Lazzaro: ora, dopo la morte, mentre Lazzaro è nel seno di Abramo, il ricco è tra i tormenti, e i due sono separati da un abisso invalicabile (cfr. Lc 16,19-31).

Le parole di Gesù sulla  fedeltà (Lc 16,10-12) svelano che vi è una gerarchia di realtà con differente valore: c’è un «poco» e c’è un «molto», c’è una ricchezza materiale e c’è una vera ricchezza, una ricchezza non quantificabile in cui consiste la propria personale verità. Una ricchezza fatta di umanità, vero capitale che il Dio creatore ha donato all’uomo in forma di immagine e somiglianza con lui. 

Preghiere e racconti

Perché ascoltandole diventino più avveduti

Le parole che abbiamo letto sono molto chiare nel loro significato letterale e non c’è bisogno di spiegarne i dettagli. Ci dice il Signore stesso perché raccontò questa parabola. Perché, egli dice, i figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce (Lc 16,8). Il Signore non loda l’agire iniquo dell’amministratore, ma la sua avvedutezza. Non lo loda per la frode che ha attuato, ma per l’espediente con il quale ha provveduto al suo futuro. Non sapendo in che modo vivere, poiché non era capace di zappare e si vergognava a mendicare, trovò uno stratagemma particolare: dopo aver dissipato i beni del padrone, alla fine compì questa frode. Viene lodato, dunque, non per una qualche buona azione, ma per la scaltrezza e l’astuzia del suo inganno; siccome ormai non poteva più rubare i beni del suo padrone, li sottrasse di nascosto. E a questa scaltrezza non applaude soltanto il padrone dell’amministratore, ma anche il Signore di tutti, quando dice: I figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce. Quelli sono avveduti nel male più di quanto gli ultimi lo siano nel bene. A stento, infatti, si trovano alcuni cristiani che siano tanto accorti nell’acquistare i beni eterni, quanto sono scaltri costoro nell’acquistare i beni caduchi di questo mondo.

Per questi essi vegliano giorno e notte, faticano, si angustiano e non smettono mai di accumulare tali ricchezze con inganni, furti, rapine, tradimenti, spergiuri, omicidi. E chi può dire a quanta scaltrezza e astuzia ricorrano per ingannarsi a vicenda i figli di questo mondo? Ascoltino dunque i figli della luce e arrossiscano di lasciarsi vincere dai figli di questo mondo. Queste cose sono state scritte perché, ascoltandole, diventino più avveduti, non perché imitando l’agire iniquo dell’amministratore frodino altri o commettano ingiustizie. Perciò viene aggiunto: E io vi dico: Fatevi degli amici con il mammona d’iniquità (Lc 16,9), ma non come fece l’amministratore iniquo. Non frodando l’altrui, ma dando del vostro. Tutte le ricchezze che sono conservate con avarizia, infatti, nuocciono ai propri padroni […] Il Signore continua dicendo: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto e chi è ingiusto nel poco è ingiusto anche nel molto (Lc 16,10). Questo vale in particolare per gli apostoli e per gli altri ministri della chiesa, per i presbiteri. Con questo principio evangelico si dice quello che il Signore aveva detto ai suoi discepoli. Non si devono dunque affidare cose importanti a quelli che nella vita privata non sono stati fedeli e non si sono serviti di quel poco che avevano per opere di amore e di misericordia. Ma quanto a coloro che vediamo, con il poco che possiedono, provvedere volenterosamente ad altri non dobbiamo dubitare della loro fedeltà nell’amministrare. Per questo motivo l’Apostolo ammonisce i vescovi a non essere avidi di denaro né a ricercare un guadagno disonesto (cfr. Tt,7).

(BRUNO DI SEGNI, Su Luca 2,7, PL 165,420C-421C.422A).

La ricchezza

Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26). La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» (16,1 -13). In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo. Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.

La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona». Eppure questo non significa un masochismo pauperista. Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola. La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).

(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).

Quello che non abbiamo cercato

“Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.

(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).

La porta del cielo

Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo. Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…

Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”.

Chiesi a Dio

Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi: Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà. Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese: Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio. Gli domandai la ricchezza per possedere tutto: Mi ha fatto povero per non essere egoista. Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me: Egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro. Domandai a Dio tutto per godere la vita: Mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto. Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo, ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà. Le preghiere che non feci furono esaudite. Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini nessuno possiede quello che ho io!”

(Kirk Kilgour famoso pallavolista rimasto paralizzato nel ’76 a seguito di un incidente durante un allenamento. La preghiera è stata letta da lui in persona di fronte al Papa durante il Giubileo dei malati a Roma)

Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro?

Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi. Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro. È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria. Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.

Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria. Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza. Vogliono averne sempre di più. Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia. In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro. Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso. Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri. Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri. Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità. Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri. O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano. Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.

Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro. Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo. Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli. Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente. Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità. E sono  necessari criteri etici. Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici. Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia. Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità. È necessaria soprattutto la libertà interiore.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).

«Una cosa ti manca»

In che consiste la tristezza dell’uomo ricco? Nel suo fallire il proprio desiderio, nel lasciarsi vincere dalla paura che lo porta a preferire la sicurezza dei beni all’incertezza della relazione con Gesù, nel chiudersi all’amore, nel precludersi un futuro regredendo nel già noto del suo passato, nel cogliersi in maniera unidimensionale come «uno che ha molto», nel temere la sofferenza della vita interiore e del lavoro di ordinamento della propria umanità a cui Gesù lo invita (Mc 10,18-19). Quest’uomo è posseduto da ciò che possiede e sembra dar ragione in anticipo a Marx quando scrive: «Più si ha e più è alienata la propria vita».

Proprio in questa condizione di «troppo pieno», di fiducia posta in beni esteriori che arrivano a schiavizzare mentre ci si crede liberi, risiede l’ostacolo che le ricchezze pongono alla salvezza.

Entrare nella relazione con Gesù e dunque nello spazio della salvezza implica il doloroso riconoscimento di un vuoto, di una carenza, di una ferita attraverso cui può farsi strada l’azione salvifica del Signore. Non a caso l’uomo ricco è rinviato da Gesù a riconoscere la propria povertà interiore e profonda («Una cosa ti manca») e proprio lì egli fallisce: il possesso delle ricchezze dà sicurezza e consente di rimuovere il doloroso lavoro di riconoscere la propria mancanza. In realtà, dice Gesù, non solo le ricchezze sono un ostacolo, ma la salvezza in quanto tale non è impresa possibile alle sole forze dell’uomo: ogni autosufficienza, di qualunque tipo, ostacola il Regno di Dio. Ma, certamente, il possibile di Dio può incontrare l’impossibile degli uomini (Mc 10,27). Quanto ai discepoli, che hanno abbandonato tutto ciò che possedevano per seguire Gesù, a loro è rivolta la promessa di Gesù del centuple quaggiù, insieme a persecuzioni, e la vita eterna. C’è una benedizione insita nell’abbandonarsi al Signore, ma della promessa del Signore fanno parte anche le persecuzioni, dunque le contraddizioni, le difficoltà. Se il discepolo sa che esse sono parte integrante della promessa del Signore, allora esse potranno non scoraggiarlo o indurlo ad abbandonare.

I privilegi come debiti

La miseria impedisce di essere uomini. La povertà come la concepisce il Vangelo non è per tutti quella di S. Francesco d’Assisi, che abbandonò tutto. Un direttore di azienda può essere povero secondo il Vangelo se ha coscienza che tutti i privilegi sono un debito. Non è obbligato a proporsi l’ideale di lasciare tutto, ma di fare il suo mestiere, di operare affinché ci sia lavoro e salario giusto per tutti. Se vive con questo pensiero, egli è povero secondo il Vangelo.

(Abbè Pierre)

Preghiera

Signore, quando credo che il mio cuore sia straripante d’amore e mi accorgo, in un momento di onestà, di amare me stesso nella persona amata, liberami da me stesso. Signore, quando credo di aver dato tutto quello che ho da dare e mi accorgo, in un momento di onestà, che sono io a ricevere, liberami da me stesso. Signore, quando mi sono convinto di essere povero e mi accorgo, in un momento di onestà, di essere ricco di orgoglio e di invidia, liberami da me stesso. E, Signore, quando il regno dei cieli si confonde falsamente con i regni di questo mondo, fa’ che io trovi felicità e conforto solo in Te.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

 

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

XXV DOM TEMP ORD (C)