XVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Qoelet 1,2;2,21-23

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!

 

 

Il Qohelet è uno scritto relativamente tardivo appartenente alla letteratura sapienziale dell’Antico Testamento (IV o III sec. av. Cristo). Esso rappresenta un atteggiamento scettico in opposizione alle «certezze» di alcuni ambienti. La frase programmatica è quella all’inizio della nostra lettura: «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità…». In ebraico, il termine vanità si riferisce propriamente al «fumo», al vapore che emette il nostro respiro in un ambiente freddo. Lo si vede per un attimo, poi si dilegua subito. Con questo termine si designano tutte le realtà effimere ed inconsistenti.

     Annotazioni esegetiche

     — «Vanità delle vanità» è un superlativo. Come se si dicesse: la somma inconsistenza, la più grande instabilità. Questo v. 1 potremmo forse renderlo con queste quattro frasi: È somma inconsistenza, dice Qohelet — è estrema inconsistenza, tutto è inconsistenza.

     — Questa parola programmatica sta ad esprimere l’esperienza, per cui non ci si può fidare di alcuna realtà. L’essere delle cose e degli uomini è ingannevole: dà l’impressione della solidità, in realtà non è che illusione.

— «Chi ha lavorato con sapienzadovrà poi lasciare la sua parte… » (2,21). Il versetto mostra una vera e propria assurdità: il risultato di un certo lavoro non tocca in definitiva alla persona che ha realmente lavorato con competenza, ma ad un altro che non ha fatto proprio niente. Questo è in contrasto con il senso della giustizia, è segno di un mondo assurdo, privo di senso.

— «Quale profitto viene all’uomo…» (v. 22). L’uomo è deluso, frustrato dal lavoro compiuto. La domanda, alla quale non si dà alcuna risposta soddisfacente e plausibile, non è che l’espressione verbale di tale grossa delusione.

— «Dolori e fastidi penosi» (v. 23). La vita dell’uomo si riassume in sofferenze e pene: questa vanità che è l’esistere non è che assurdità.

 

Seconda lettura: Colossesi 3,1-5.9-11

 

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato.  Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.

 

 

La fede della comunità di Colossi (e delle vicine città di Laodicea e Gerapoli) è insidiata da un ristretto gruppo di persone che propongono una dottrina diversa da quella predicata dagli apostoli, con riferimento ad «elementi del mondo» e «potenze angeliche» che presiedono al mondo e condizionano il destino degli uomini. Ciò li distoglie dalla vera fede in Cristo e dalla centralità che questa ha per la salvezza. La Lettera ai Colossesi vuol porre riparo a queste deviazioni. Essa consta fondamentalmente di due parti: una sezione dottrinale (cc. 1-2), nella quale si ribadisce fortemente la regalità universale ed il primato di Cristo nell’universo; una sezione parenetica (3,1-4,6), nella quale i cristiani sono esortati a conformare la loro condotta alle esigenze di quella centralità di Cristo. La nostra lettura si colloca esattamente agli inizi di questa parte parenetica (o esortativa): «Se siete risorti con Cristo…» (3,1). Il dunque (omesso nel brano liturgico) rappresenta un solido aggancio tra le due parti: ciò che si raccomanda ora sgorga come conseguenza delle verità affermate in precedenza.

     Annotazioni                        

     — «Cercate… rivolgete il pensiero alle cose di lassù» (vv. 1-2). Questi due imperativi non inducono ad una fuga dal mondo di quaggiù. Le «cose di lassù» stanno ad indicare il nuovo centro della vita cristiana: questo centro è ormai il Cristo glorificato (assiso alla destra del Padre), verso il quale i battezzati devono orientarsi con duplice movimento convergente: una continua ricerca (cercate!) ed un modo di pensare, giudicare e decidere (pensate!) nuovi, polarizzati al Cristo, e non più alle «cose della terra», ossia a quegli elementi mondani che rendono schiavo l’uomo. Si tratta di un capovolgimento radicale di valori, e non di distacco dai doveri terreni.

     — «Morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! » (vv. 3-4). Si delineano due antitesi: morte/vita e nascosto/manifesto. La prima è relativa alla realtà del battesimo: morte al peccato e agli elementi del mondo (cf. 2,20), e vita nuova partecipando alla stessa vita di Cristo; la seconda esprime le tappe della manifestazione di questa vita nuova: adesso nascosta, cioè sottratta allo sguardo umano essendo profondamente radicata nel mistero di Cri-sto, ma pienamente manifestata quando avverrà la manifestazione (o seconda venuta) di Cristo, la cui gloria coinvolgerà anche il nostro corpo. Nascosta nel mistero, questa vita in Cristo è comunque già realtà che agisce in noi e ci trasfigura «ad immagine del nostro Creatore» (v. 10).

     — «Fate morire dunque…» (v. 5). Alla lettera: «fate morire», «date la morte» a tutto quel complesso di desideri e passioni inconciliabili con la nuova vita, chiamate (alla lettera) «membre terrene». Tra queste è il disordine sessuale nelle sue varie espressioni (fornicazione, impurità, ecc.); ma particolare rilievo ha l’avarizia (gr. pleonexìa, cupidigia, desiderio di avere di più), che mette il denaro al posto di Dio (= idolatria).

     — «Non dite menzogne gli uni agli altri…» (v. 9). La menzogna è segno diabolico, legata all’«uomo vecchio» corrotto; anche questa deve morire, perché nel cristiano è avvenuto un mutamento profondo.

     — «Vi siete svestiti» (vv. 9-10). Il mutamento è descritto con l’immagine della spogliazione. L’«uomo vecchio» («corrotto dal peccato») è come un abito vecchio, di cui il cristiano si spoglia per indossare un vestito nuovo, quello dell’uomo che «si rinnova secondo l’immagine del Creatore». È un ritorno all’integrità ed alla gloria del progetto primitivo di Dio (cf Gen 1,26). Protologia ed escatologia, in qualche modo, si congiungono.

     — «Non vi è Greco o Giudeo…» (v. 11). Nel mondo ci sono divisioni, perché si fanno differenze di razza, di religione e di classe sociale. Nell’antichità queste differenze non erano poche: sul piano religioso tra giudei (circoncisi) e greci (incirconcisi, pagani); sul piano culturale tra greci e barbari (gli Sciti erano considerati i più barbari tra tutti); sul piano sociale, opposizione radicale tra gli schiavi e i cittadini liberi. Tali differenze non vengono automaticamente livellate, ma diventano irrilevanti per il fatto che ciascun cristiano si riconosce in Cristo, rassomiglia a lui e diventa parte di un corpo, nel quale tali differenze non contano più.

 

Vangelo: Luca 12,13-21

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

 

Esegesi

     La pericope odierna si trova in una sezione che in questa forma e successione è contenuta soltanto nel Vangelo di Luca. In modo particolare il nostro brano (vv. 12-21) non ha paralleli in Matteo e Marco. Non è un insegnamento destinato specificamente ai discepoli, ma a tutti. Uno della folla (forse un fariseo), che non sembra essere suo discepolo, prega Gesù di aiutarlo a risolvere una questione ereditaria.

     Struttura del brano

     La pericope si compone di una domanda e di una risposta (vv. 13-15): dalla risposta Gesù deduce un insegnamento valido per tutti. Nei vv. 16-20 racconta invece una parabola, dalla quale deriva una conclusione finale (v. 21: Così è…) che vale come insegnamento generale. Osservando la parabola, notiamo che essa si compone di tre piccoli discorsi, nell’ultimo dei quali è Dio stesso che prende la parola. Questo ne fa una parabola singolare, giacché in nessun altra parabola entra Dio direttamente in azione.

     Rilievi

     — «Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (vv. 13-14). Perché Gesù si rifiuta di esercitare questa funzione giudiziaria? Perché non vuole mediare in affare di denaro e di proprietà: il suo compito è quello di mettere in guardia contro la cupidigia. Naturalmente, una funzione di mediatore potrebbe essere anche un atto di amore, ma col ricusarsi di farlo Gesù pone un segno profetico: non vuole avere proprio niente a che fare con il denaro, per attirare l’attenzione sui pericoli che esso comporta.

     — L’insegnamento generale contenuto in questo segno consiste nel contestare la convinzione che la vita sia garantita dal possedere le cose.

     — La parabola è un semplice racconto in quattro scene: una buona raccolta, l’ingrandimento dei magazzini, bella vita (con quattro imperativi: riposati, mangia, bevi e divertiti). Abbiamo un crescendo in tre gradi successivi, in cima ai quali c’è il godimento della vita. Ma ecco la quarta scena portare al precipizio. Questa notte (!) porterà la morte. Notte e morte è quanto di più negativo l’uomo possa incontrare.

     «Questa notte ti sarà richiesta la tua vita» (v. 20). Dietro questo passivo e questa espressione impersonale c’è Dio. È Lui che richiederà e riprenderà la vita.

     «Così è di chi accumula tesori per sé…» (v. 21). Il possesso dei beni possiamo averlo in senso giusto, se lo orientiamo in rapporto a Dio.

 L’immagine della domenica

 

Campi di Moral de Hornuez (Spagna) –  2005

 

 Insegnami a vivere con te

Se i tuoi occhi sono in grado di non vedere con malizia,

contagia ciò che vedi.

Se le tue mani son disposte a dare il poco che possono,

àprile.

Se le tue labbra si aprono solo per parlare con dolcezza,

che non si chiudano mai.

Se i tuoi amici sono sempre nei tuoi pensieri,

non smettere mai di pensare.

Se la tua allegria è capace di far sorridere gli altri,

non essere mai triste.

Se il tuo calore è tutto ciò che puoi condividere,

sappi che non è poco.

Se il tuo più grande tesoro è un’amicizia,

sappi che sei molto ricco.

Se i tuoi difetti li accetti e li correggi,

sappi che sei un saggio.

Se hai cura dei tuoi valori e li condividi,

sappi che sei un grande.

E se la tua meta è di vivere vicino al mio Amico,

insegnami a vivere con te.

Isabel Llorente Casado

 

Meditazione

«Vanità delle vanità, dice Qoèlet,

     vanità delle vanità: tutto è vanità» (Qp 1,1).

 

     Nell’amara e disincantata constatazione con cui si apre il libro di Qoèlet possiamo riconoscere un invito al discernimento: su che cosa è possibile fondare, in modo solido e non vano, la propria vita e il suo significato? Forse la riflessione alla quale giunge la sapienza di Israele va ancora più in profondità: non soltanto sul cosa, ma sul come, su quale atteggiamento? Anche realtà in sé positive e buone, quali il lavorare con sapienza, scienza e successo (cfr. Qp 2,21), sembrano tragicamente votate al fallimento e alla delusione. All’uomo non resta che rassegnarsi a percepire l’inconsistenza di tutto ciò che vive e per il quale molto fatica, o è possibile per lui sperare in una realtà che riscatti i suoi giorni dall’ombra della vacuità?

     Siamo soliti intitolare la parabola che Gesù racconta in Lc 12 come ‘del ricco stolto’. Stoltezza o sapienza, come distinguere tra le due? Anche il vangelo ci sollecita a un discernimento, che del resto è sotteso a quanto scrive Paolo ai Colossesi: «cercate le cose di lassù… rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,1-2). Che cosa cercare? Su cosa fissare lo sguardo, nella speranza di essere riscattati da una fatica senza profitto, o dagli affanni che neppure di notte lasciano riposare il cuore, come si lamenta Qoèlet?

     A questi interrogativi Gesù sembra voler rispondere raccontando la parabola del ricco, anche se le sue parole muovono da una richiesta più circoscritta: «Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità» (v. 13). Probabilmente quest’uomo avanza una richiesta motivata, esige una giustizia che gli è stata negata. Gesù tuttavia sposta l’attenzione e invita a scendere a un livello più profondo. Se la nostra vita percepisce – ed è bene che sia così, anzi necessario – un insopprimibile bisogno di giustizia, quest’ultima da sola non basta a darle un fondamento stabile e duraturo. «Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede», afferma Gesù al v. 15. Possiamo forse intendere questa parola in senso più ampio, facendo cadere l’accento non tanto sul contenuto del possesso (i beni, le ricchezze, l’abbondanza), quanto sull’atteggiamento stesso del possedere, o in altri termini su quella cupidigia dalla quale il Signore sollecita a tenersi lontani. Il possedere, infatti, più che mettere al centro della nostra vita i beni che bramiamo, finisce con il mettere al centro noi stessi e la nostra pretesa di tenere ben stretta in pugno la vita, come se essa dipendesse da noi e dall’opera delle nostre mani. Gesù denuncia l’inconsistenza di questa illusione: «la vita non dipende da ciò che egli possiede». La vita, in altri termini, non dipende da noi e dal confidare in noi stessi. Dipende da altro. È ben fondata quando riconosco di dover dipendere da un Altro e dal suo dono. Non da ciò che possiedo o che bramo con cupidigia, ma da ciò che ricevo e accolgo con gratitudine.

     Qui passa il discernimento tra vana stoltezza e vera sapienza. Per la Bibbia lo stolto è colui che pensa: «Dio non c’è» (cfr. Sal 14,1), o vive come se non ci fosse, ovvero pensando che sia un Dio lontano, senza alcun interesse per noi e per la nostra storia. Stolto è colui che vive davanti a se stesso anziché davanti a Dio, confidando nel possesso delle proprie mani anziché nel dono di Dio. O, riprendendo più fedelmente la parola conclusiva di Gesù, stolto è colui che «accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (v. 21).

     Con il racconto della parabola Gesù ci aiuta a comprendere in cosa consista più precisamente questo atteggiamento, o cosa significhi arricchire davanti a Dio senza accumulare tesori per sé. In altri termini, come sia la qualità di un’esistenza vissuta davanti a Dio, in relazione con il suo volto, e non davanti a se stessi, secondo uno sguardo autoreferenziale e narcisistico che, anziché incontrare il volto dell’altro, si rispecchia solamente nel proprio.

     È interessante osservare cosa si cela nello spazio più interiore del ricco protagonista della parabola. «Egli ragionava tra sé»: così lo descrive Gesù, con grande intuito psicologico e finezza spirituale. Quest’uomo ragiona tra sé perché vive davanti a se stesso, chiuso nella sfera della sua autoreferenzialità. Una chiusura che lo porta addirittura a illudersi di possedere la propria vita, come mostra bene il v. 19: «Poi dirò a me stesso – ecco ancora il parlare solo tra sé e sé – Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, beni e divertiti». Anima, in greco psychè, potremmo perciò tradurre: vita mia. Quest’uomo tratta la vita come sua, quasi fosse un suo possesso, al pari del grano e degli altri beni che riempiono i suoi magazzini al punto da doverne costruire di più grandi. Questa è l’illusione del possesso, o la sua tentazione: il farci credere che, poiché possediamo molti beni, possiamo persino possedere la nostra stessa anima, la nostra stessa vita. «Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”» (v. 20). Questa parola di Dio non è un giudizio che, in modo estrinseco, piove dall’alto su questo ricco, come a punire una condotta morale ingiusta. È piuttosto una parola di rivelazione, che porta alla luce la stoltezza di chi fonda la propria vita su qualcosa di inconsistente che ben presto viene meno. L’insipienza di questo ricco è simile a quella di chi costruisce la propria casa sulla terra, senza scavare le fondamenta, anziché fondarla sulla roccia (cfr. Lc 6,47-49 e Mt 7,24-27). La vita viene presto meno, non soltanto quando si muore fisicamente, ma quando si inizia già a vivere come ‘morti’, svuotando la propria esistenza dall’interno, scolorendo il suo significato, gustando l’amarezza della sua inconsistenza. Allora si finisce con il pensare che davvero ogni fatica è vana.

     Luca, nel suo racconto, definisce spesso la ricchezza come iniqua o disonesta. Non perché possa essere acquisita o conservata con mezzi disonesti, per quanto molto spesso accada precisamente così; quella della ricchezza è una disonestà più profonda e subdola: consiste nell’illuderci con una promessa di felicità che invece non può mantenere. La sua promessa ben presto svanisce, in quanto infondata, e con essa viene meno anche la vita di chi è stato così stolto da darle credito.

     Arricchire davanti a Dio esige un atteggiamento del tutto diverso: riconoscere che la propria vita dipende dal suo dono e non dai nostri possessi; sapere che è lui – non mammona – l’Amen (in aramaico con tutta probabilità i due termini mammona e amen condividono la stessa radice etimologica) su cui la nostra esistenza può fondarsi in modo stabile e duraturo. Arricchire davanti a Dio significa anche accogliere l’invito che Gesù farà qualche pagina più avanti, a conclusione di un’altra parabola, quella dell’amministratore disonesto: «io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,9; cfr. XXV domenica del Tempo ordinario, anno C). In altri termini: trasformate i vostri beni in relazioni, perché saranno le relazioni, le amicizie, a dare fondamento stabile alla nostra vita che, anziché venir meno come quella del ricco stolto, sarà accolta nelle dimore eterne. La relazione con Dio – vivere e arricchire davanti a lui – implica sempre la relazione con i propri fratelli. Trasformare i beni in relazioni significa in fondo passare dalla logica del possesso e della cupidigia, a quella della gratuità e del dono di sé. È la logica pasquale che risuona al cuore dell’evan-gelo di Gesù: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?» (Lc 9,25-26).

     Comprendiamo allora meglio l’invito di Paolo: occorre cercare le cose di lassù non per fuggire o evadere dagli impegni di quaggiù, dalle cose della terra, ma proprio per la ragione opposta: per dar loro il vero fondamento, stabile e duraturo. Così che il nostro molto faticare non sia vano.

 

Preghiere e racconti

Che cosa è tuo?

«A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro. Dimmi- che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti. Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi. Se ciascuno si prendesse ciò che e necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sarebbe bisognoso. Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che tè li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti. Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno? Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente. Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno. E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito. Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra. Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.

(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG31,276B-277°).

“Non puoi portarlo con te”

Morrie aveva sempre gustato i piaceri semplici della vita: cantare, ridere, ballare. Ora, ancor, più di prima, i beni materiali significavano poco o nulla per lui. Quando qualcuno muore, si sente spesso l’espressione: “Non puoi portarlo con te”. Sembrava che Morrie l’avesse sempre saputo.

“In questo Paese subiamo una specie di lavaggio del cervello perpetuo”, sospirò Morrie. Sai come fanno a lavare il cervello alla gente? Ti ripetono qualcosa in continuazione. Qui da noi facciamo così. Possedere delle cose è bello. Avere più denaro è bello. Avere più proprietà è bello. Più affarismo è bello. Più è bello. Più è bello. Noi lo ripetiamo – e ce lo ripetono – ancora e ancora fino a quando nessuno si preoccupa più neanche di pensare in modo diverso. Il cittadino comune è talmente confuso da tutto questo da non avere più la minima capacità di discernere ciò che è davvero importante.

Dovunque sia stato nella mia vita ho conosciuto persone che volevano arraffare qualcosa di nuovo. Una macchina nuova. Una nuova casa. L’ultimissimo tipo di giocattolo. E poi volevano parlartene. ‘Indovina che cos’ho? Indovina che cos’ho?’

Sai come ho sempre interpretato questo fenomeno? Si trattava di persone così affamate d’affetto che si accontentavano di sostituti. Accettavano beni materiali e si aspettavano qualcosa in cambio. Ma non funziona mai così. Non si possono sostituire amore, gentilezza, tenerezza o amicizia con cose materiali.

Il denaro non può sostituire la tenerezza e neanche il potere può sostituirla. Te lo posso dire io, mentre sta arrivando la fine, che nel momento del maggior bisogno né il denaro né il potere – per quanto tu possa averne – ti possono dare la soddisfazione che cerchi.

(Mitch ALBOM, I miei martedì col professore, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130).

Quello che non abbiamo cercato

“Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.

(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).

Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro?

Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi. Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro. È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria. Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.

Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria. Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza. Vogliono averne sempre di più. Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia. In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro. Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso. Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri. Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri. Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità. Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri. O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano. Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.

Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro. Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo. Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli. Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente. Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità. E sono  necessari criteri etici. Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici. Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia. Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità. È necessaria soprattutto la libertà interiore.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).

«Tutto è vanità»

Vanità delle vanità  dice Qoèlet  vanità delle vanità, tutto è vanità. Perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura. Allora quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole?Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità!

Il Qohèlet  o Ecclesiaste  è uno dei più enigmatici e affascinanti libri dell’Antico Testamento. Lo sguardo disinteressato e impietoso del sapiente scruta fino in fondo nelle pieghe più segrete dell’esperienza e smonta sistematicamente ogni illusione. Il ritornello martellante ripete la parola chiave dell’intero libro, hebel: vanità, vuoto, soffio, vapore, inconsistenza…

1-2 – «Vanità delle vanità, tutto è vanità»: è quasi il titolo del libro, dopo l’intestazione («Parole di Qohèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme») con l’attribuzione fittizia a Salomone, figura rappresentativa della sapienza di Israele. «Vanità delle vanità» è, nella forma ebraica, un superlativo. Difficile determinare il senso preciso del vocabolo, per sua natura sfuggente; Ravasi lo traduce con vuoto: «Il termine rimanda ad una realtà fluida ed inconsistente come la nebbiolina dell’alba dissolta dal sole o come una nuvoletta spazzata via dal vento o come una stilla di rugiada che evapora al primo calore o ancora come la scia spumeggiarne della carena di una nave nel mare. subito acquietata» (G. RAVASI, Qohèlet, Paoline 1988. p. 22). Ma rimanda anche all’idolo, inerte e inutile, e all’uomo (cf. il nome di Abele) la cui esistenza è passeggera e labile come un soffio. Accostato a «vanità» c’è kol, che esprime la totalità: il vuoto è totale, assoluto, il non senso è massimo, la miseria suprema.

2,21-23 – Il libro di Qohèlet è tutto un susseguirsi di quadretti in cui le varie situazioni della vita sono portate a esempio e prova della tesi fondamentale. Qui l’argomento è l’inutilità della fatica umana. L’ansia di accumulare ricchezze viene frequentemente stigmatizzata nei testi biblici sapienziali, perché collegata all’ingiustizia e alla mancanza di fede. Qohèlet prescinde dal giudizio morale su come la ricchezza è stata prodotta; in ogni caso il lavoro dell’uomo è inutile, perché anche il sapiente non potrà godere del frutto della sua fatica e dovrà lasciarlo ad altri che non hanno mosso un dito (v. 21).

Qual è allora il guadagno per l’uomo (v. 22)? Sono interrogativi retorici. Qohèlet nega ogni valore a questa fatica, e lo conferma con la cruda descrizione che segue (v. 23). Preoccupazione e affanno senza tregua, neppure di notte: anche questo è vanità. Non ha senso accumulare ricchezze che altri godranno, non ha senso sacrificare al guadagno la serenità dello spirito e il riposo.

Piuttosto che pessimismo, quello di Qohèlet è un sano realismo che ristabilisce la giusta gerarchia di valori: esorta a non sacrificare la qualità della vita all’inganno di un benessere ambiguo, a non considerare perenne ciò che è transitorio, ad accogliere le piccole gioie del quotidiano come un dono.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

 

Immagine della domenica, a cura di García-Orsi

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVIII DOMENICA TEMPO ORD (C)