Prima lettura: 2Samuele 12,7-10.13
In quei giorni, Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro. Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammonìti. Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittìta». Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».
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Il pentimento di Davide, riportato dal brano, è la tappa conclusiva della storia del suo peccato e dell’intervento di Dio che lo guida verso il pentimento. Ciò che Davide aveva commesso – l’adulterio, il tentativo di nasconderlo, la decisione di far morire Uria, l’accoglienza di Betsabea nella reggia – era stato un male agli occhi del Signore. Solo l’intervento di Dio poteva ristabilire nella sua bellezza e potenza vitale la relazione personale che si era rotta tra i due. E Dio aiuta Davide a ritornare in se stesso. «Lo libera facendo presa, nella sua infinita bontà e finezza psicologica, sui suoi sentimenti migliori: la lealtà, il bisogno di difendere la giustizia […]. Rivolge il suo appello non a Davide peccatore, bensì a Davide giusto, leale, e per questo riesce» (C.M. Martini).
Il profeta Natan, attraverso un racconto semplice ricostruito sulla trama della vicenda di Davide, aiuta il re a rileggere, con distacco e oggettività, la propria vicenda personale, quindi lo porta a rientrare in sé e lo restituisce alla sua personale verità con un coraggioso passaggio: «Tu sei quell’uomo!», proprio quello che tu hai giudicato meritevole di morte. A questo punto prende Davide come per mano e lo aiuta a ripercorrere tutta la sua storia segnata da tanti interventi di benevolenza divina.
La sintesi riportata richiama il testo di Isaia sulle cure del Signore per la sua vigna e tutta la serie dei benefici di Dio in favore del suo popolo che rispose con ingratitudine e infedeltà (cfr. Is 5,1-7). Le parole di Natan giungono al cuore dell’uomo Davide che non si difende, ma confessa: «Ho peccato contro il Signore!». Quasi un’eco del «sono nudo» di Adamo (Gen 3,10)! Questa confessione restaura tutta la statura spirituale di Davide e lo libera da quel groviglio di menzogna e infedeltà nel quale si era sempre più intricato volendosi liberare da solo. Il pentimento di Davide è grande: c’è tutto il suo cuore contrito, c’è l’infrangersi di tutte le sue resistenze e un’esperienza molto concreta di abbassamento interiore. Su questo volto dell’umiltà umana – non acquisita, ma subita e accolta – scende il perdono del Signore, che libera Davide dalla morte: «Tu non morirai».
Seconda lettura: Galati 2,16.19-21
Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano. |
Lo stralcio della lettera ai Galati ci offre una sintesi del ‘vangelo’ di Paolo. Potremmo rileggerlo a partire dal suo nucleo centrale: «Cristo vive in me», per trovare qui espressa l’autentica vita cristiana e la profonda esperienza religiosa di Paolo: una vita vissuta al di sopra dell’io naturale, segnata dalla presenza e irruzione di Dio nell’uomo. È la vita nuova che trae la sua origine dal battesimo e la sua risorgente energia dall’adesione fiduciosa della fede nell’amore con cui Gesù abbraccia ogni uomo. Ecco il battesimo: morire alla legge, cioè sottrarsi alla sua influenza, al suo dominio, e morire dunque al passato, all’uomo esteriore, al peccato, per vivere per Dio, cioè consacrato a Dio. Ed ecco la fede: l’uomo viene giustificato, cioè reso moralmente retto davanti a Dio e capace di agire come tale, non dalle opere della legge, ma dalla salvezza operata da Gesù Cristo. La fede è – per così dire – la porta di accesso a Gesù salvatore; è quell’atteggiamento con cui l’uomo accoglie la rivelazione divina manifestata in Gesù Cristo e risponde dedicando a lui tutta la propria vita. Questa giustificazione è dunque un dono gratuito di Dio che cambia dal di dentro la vita dell’uomo entrato in contatto con Cristo mediante la fede e il battesimo.
In virtù di questo contatto tra Cristo e il credente si opera come uno scambio reciproco, una simbiosi. È la vita di Cristo che si realizza nel credente, ma non nel senso che Cristo diventa il soggetto delle azioni umane. Il soggetto resta sempre il credente, con la sua vita di carne, tutta umana, con il peso delle sue debolezze, fragilità, della sua miseria, ma sulla quale si innesta un principio di vita superiore, che è Cristo stesso. La comprensione di questa verità operata dalla fede nell’inabitazione di Cristo trasforma, rinnovandola, la vita dell’uomo, fino a compenetrarne la coscienza psicologica.
Vangelo: Luca 7,36-8,3
In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni. |
Esegesi
Nel brano evangelico due personaggi si impongono alla nostra attenzione interiore: Simone, il fariseo, simbolo dell’uomo giusto, autosufficiente, controllato, che rispetta la legge ma ha il cuore indurito all’amore, e una peccatrice la cui storia ci è ignota, mentre ci è noto il suo stato interiore di conversione, il suo cuore pentito, frantumato.
I gesti di questa donna racchiudono tutte le sfumature della gratitudine. L’andare diretta verso Gesù, il prostrarsi ai suoi piedi (gesto tipico di chi ha visto salvata la propria vita), lo sciogliersi dei capelli in segno di umiliazione, il versare il profumo (segno di gioia, di abbondanza, di amore e consacrazione), e poi le lacrime e i baci: tutte espressioni che parlano di accoglienza e di vita. Questa donna dice così l’autentico stare dell’uomo davanti a Dio: nessuna giustificazione e tanta gratitudine; pronuncia così l’amen della sua fede nel perdono di Gesù e del suo amore che accetta di lasciarsi amare.
Tra il fariseo e la peccatrice sta Gesù, il vero profeta, che conosce i disegni di Dio e sa leggere nel cuore degli uomini. Gesù vede il disprezzo e la freddezza del cuore di Simone, il suo sentirsi giusto e credere che l’amore di Dio può essere meritato. Il suo peccato è tutto qui: voler meritare l’amore di Dio che è per essenza pura gratuità. Potremmo chiamarlo «un peccato di prostituzione nei confronti di Dio» (S. Fausti). Nel cuore della donna, probabilmente una prostituta, Gesù coglie invece l’apertura e l’accoglienza al dono dell’amore che si manifesta pienamente nel perdono. La donna si lascia amare, cioè perdonare, e il suo amare di più è effetto e causa insieme del perdono. Amore e perdono si alimentano a vicenda: la donna ama in quanto perdonata e, in quanto ama, è aperta ad accogliere il perdono.
Il cristianesimo è questo amore per Gesù, la fede che salva è apertura alla salvezza portata da Gesù. La conversione più profonda è dunque il semplice riconoscersi bisognosi del perdono. La donna si pone come uno specchio non solo, per Simone, ma anche per tutti noi ogni volta che abbiamo difficoltà a piegarci fino ai piedi di Gesù: solo chi è piccolo e a terra può toccare i piedi del messaggero che porta il lieto annuncio della salvezza e della pace.
L’immagine della domenica
TU CI AMI PER PRIMO, SEMPRE
Noi parliamo di te
come se ci avessi amati per primo
una volta sola.
Invece, continuamente,
di giorno in giorno,
tu ci ami per primo.
Quando al mattino mi sveglio
ed elevo il mio spirito a te,
tu sei il primo,
tu mi ami per primo.
Se mi alzo all’alba
ed immediatamente elevo a te
il mio spirito e la mia preghiera,
tu mi precedi.
Tu mi hai già amato per primo.
È sempre così.
E noi ingrati,
che parliamo come se
tu ci avessi amato per primo
una volta sola.
(Sören Kierkegaard)
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Meditazione
«Ho peccato contro il Signore!… Il Signore ha rimosso il tuo peccato» (2Sam 12,13). Questo essenziale dialogo tra Davide e il profeta Natan, in cui sono messi di fronte l’uomo peccatore e il Dio ricco di misericordia, potrebbe riassumere il tema che attraversa la liturgia della Parola di questa domenica. E infatti, quasi come una eco dell’annuncio rivolto dal profeta al re peccatore, ci giungono le parole che chiudono il racconto della peccatrice perdonata da Gesù, tramandatoci dall’evangelista Luca: «I tuoi peccati sono perdonati… va’ in pace» (Lc 7,48.50).
L’accostamento di questi due testi della Scrittura, proposto dalla liturgia, ha realmente la forza di una rivelazione del volto di Dio che permette all’uomo di ritrovare la verità della sua vita nell’orizzonte infinito del perdono che ricrea e che apre quel cammino nella pace che il peccato aveva interrotto. Lo sguardo di compassione che Dio posa sull’uomo che ha il coraggio di riconoscere la sua colpa (come Davide e come la donna peccatrice) è più forte della morsa del peccato e solo chi sperimenta su di sé questo sguardo di misericordia donato nella assoluta gratuità, può intraprendere l’avventura di un amore senza più riserve. È il paradosso di un amore che sgorga dal perdono e di un perdono che può essere donato e accolto solo da chi ama. Gesù, rivolgendosi a Simone, ma parlando di quella donna che con i suoi gesti ha rivelato tutta la sua miseria e tutto il suo amore per Lui, dice: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47). Chi non ha il coraggio di riconoscersi nella estrema nudità e fragilità in cui l’esperienza del peccato lo pone di fronte al Dio infinitamente compassionevole, non riuscirà mai ad entrare nello spazio della gratuità; di fronte agli altri sarà come il fariseo Simone, duro nel giudizio, illuso di saper discernere il cuore dell’uomo, ma di fatto cieco e incapace di guardare l’altro con occhi di misericordia.
Il racconto di Luca, sul quale ci soffermiamo brevemente, è davvero una icona da contemplare. Si resta profondamente colpiti dai contrasti che caratterizzano la dinamica di questo brano evangelico: una giustizia e una rettitudine che non riescono a varcare la soglia della gratuità (il fariseo), un grande peccato che si trasforma in un grande amore, parole non dette e parole sussurrate dietro le quali l’uomo si nasconde, e gesti forse ambigui ma attraverso i quali si ha il coraggio di compromettersi e di esprimere tutta la forza dell’amore. E poi in questo brano tutto è eccessivo: il peccato, il perdono, l’amore, i gesti, i silenzi, gli sguardi. Veramente si deve riconoscere che Luca ha saputo esprimere stupendamente il paradosso della gratuità e soprattutto il paradosso di una conversione che sa trasformare un desiderio appassionato in una porta aperta all’amore di Cristo.
Con un linguaggio sorprendente, Giovanni Climaco così descrive questa ‘conversione’ dall’eros all’agape, questa apertura della dimensione affettiva, attraverso cui noi amiamo, alla charitas Christi di cui è protagonista la peccatrice: «Ho visto anime impure che si gettavano nell’eros fisico fino al parossismo. È stata proprio la loro esperienza di tale eros a portarli al capovolgimento interiore. Allora concentrarono il loro eros sul Signore. Oltrepassando il timore, cercavano di amare Dio con un desiderio insaziabile. Ecco perché Cristo, parlando della casta prostituta, non ha detto che ella aveva avuto paura, ma che aveva molto amato, e che aveva potuto superare agevolmente l’amore con l’amore» (Scala del paradiso, 5,54).
La forza di questo racconto sta nel contrasto tra due modi di rapportarsi a Dio e agli altri, espressi proprio dagli atteggiamenti del fariseo che invita a pranzo Gesù e della peccatrice che improvvisamente irrompe nella sala e compie verso Gesù dei gesti imbarazzanti e inauditi per Simone e gli altri invitati. Questa donna è conosciuta come una peccatrice (7,37) e ciò che compie sembra essere risucchiato in questa situazione di vita moralmente scandalosa. Così appare allo sguardo di Simone. E infatti quella donna, senza dare alcuna spiegazione, senza presentarsi, senza dire una parola, inizia a compiere dei gesti così inau-diti da gettare tutti nello sconcerto. Tutti, ma non Gesù, il quale la lascia fare, perché quella donna è venuta per lui ed è lui che vuole incontrare. Ogni suo gesto sprigiona il desiderio di questo incontro. Stando «dietro presso i piedi di Gesù» (v. 38), quella donna sembra quasi voler deporre tutta la miseria della sua vita ai piedi di chi ha la forza di risollevarla. E «piangendo cominciò a bagnarli di lacrime» (v. 38): quelle lacrime che dai suoi occhi scendono sui piedi di Gesù sono le lacrime di chi finalmente ha saputo porsi di fronte alla verità della sua vita e ora può vivere un momento di liberazione. E poi si mette ad asciugare i piedi di Gesù «con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (v. 38): le lacrime, segno del pentimento, confondendosi con il profumo dell’unguento, diventano il segno più limpido del suo amore per Gesù. Questa immagine eccessiva di amore turba il fariseo Simone e quasi in contrasto con la passione espressa dalla donna nei suoi gesti, c’è la freddezza nel giudizio che quest’uomo, giusto e retto, esprime nel suo cuore: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!» (v. 39). Parole di condanna non solo per la donna, ma anche per Gesù: è un profeta che di fatto non sa discernere e donare il giudizio di Dio!
È sorprendente notare come tutto ciò che quella donna compie è sotto lo sguardo di ognuno, mentre il giudizio di Simone è formulato nel segreto, nel cuore. Eppure, ad un certo punto tutto viene messo allo scoperto e rivelato nella verità. E questo avviene quando Gesù, attraverso una parabola, risponde a quei tanti interrogativi e giudizi che Simone (e forse anche tutti gli altri invitati) aveva formulato nel cuore e non aveva osato far affiorare sulla labbra. «Simone, ho da dirti qualcosa….» (v. 40): nel momento in cui Gesù pronuncia questa parola e poi racconta la storia dei due debitori, uno con un ‘grande’ debito da restituire e uno con un ‘piccolo’ debito, due debitori ugualmente perdonati, ecco che Simone è obbligato a confrontarsi con la donna, a convenire il suo sguardo su di lei, a vedere nei gesti che ha fatto il segno di un amore senza limiti, a misurare su di essi la piccolezza della sua giustizia, ad allargare gli orizzonti del suo sguardo per andare oltre le apparenze, a cambiare il suo modo di interpretare l’agire di Dio verso il peccatore. È lui il piccolo debi-tore che è rimasto intrappolato solo nella logica del dovere e non ha saputo, come quella donna, avventurarsi nello spazio senza limiti della gratuità, della sovrabbondanza e dell’eccesso dell’amore. Queste stupende parole di Isacco il Siro possono offrire un commento alle parole che Gesù rivolge al fariseo (cfr. vv. 44.47): «La giustizia è la rettitudine di una eguale misura che dà a chiunque in modo eguale, che non adatta la sua retribuzione a nulla, badando a ciò che ha sotto agli occhi. La misericordia invece, è una passione mossa dalla bontà, che si piega su tutto con indulgenza. Non retribuisce colui che merita il male, né colui che merita il bene, ma dà in abbondanza il doppio… È misericordioso colui che fa misericordia al suo prossimo, non solo con i doni, ma che, anche quando sente e vede qualcosa che causa sofferenza a qualcuno, soffre nel suo cuore un incendio; e ancora, quando riceve uno schiaffo da suo fratello, non si ribella e non gli rende il contraccambio neppure con la parola, ma ne soffre nel suo pensiero».
«Simone, ho da dirti qualcosa…» (v. 40). Ciò che avviene in quella sala, attorno a quella tavola, è la parabola che Gesù vuole ora raccontare anche a ciascuno di noi. E ce la racconta perché anche noi abbiamo bisogno di comprendere che cosa significano perdono e misericordia, che cosa significano gratuità e rischio di amare, giustizia e compassione. Questa parabola ci è narrata per rispondere ai tanti interrogativi del nostro cuore: come Simone anche noi tratteniamo nel profondo del nostro cuore pensieri e domande che temiamo di porre al giudizio del Signore Gesù, per paura di essere smentiti. Gesù ce la racconta per aprire il nostro sguardo interiore a discernere ciò che va oltre le apparenze, per renderci capaci di perdono e di misericordia. Gesù ci racconta questa parabola perché anche noi, troppe volte, siamo come Simone.
Preghiere e racconti
Presenta a Dio una preghiera fatta carne
L’amore di Dio, uscito alla ricerca dei peccatori, ci è annunciato da una donna peccatrice. Rivolgendosi a lei, Cristo invita all’amore tutti noi; in lei attirava al suo perdono tutti i peccatori.
Parlava a lei soltanto, ma invitava la creazione intera a divenire partecipe della sua misericordia. Nessun altro l’ha convinto a tenderle la mano perché si accostasse al perdono. Soltanto il suo amore per colei che ha plasmato l’ha convinto […]. Il pastore è disceso dal cielo verso la pecora perduta, per riprendere, in casa di Simone, colei che il lupo astuto aveva rapito. A casa di Simone ha trovato colei che cercava […]. La peccatrice con le sue parole prega Gesù come suo creatore. Le sue parole, benché non siano state scritte, si lasciano indovinare dai suoi gesti. Colei che con le sue lacrime bagna i piedi di Gesù, li asciuga con i suoi capelli e versa su di essi un profumo di grande valore, non può che dire parole corrispondenti ai suoi gesti. Presenta a Dio una preghiera fatta carne; manifestando la sua umiltà, testimonia la sua fiducia in lui […]. Gesù non parla subito e, quando parla, dice una parola soltanto, ma con questa parola, distrugge il peccato, annienta le colpe, scaccia la trasgressione, accorda il perdono, sradica il peccato, fa germogliare la giustizia. Il suo perdono apparve all’improvviso dentro alla sua anima e ne scacciò le tenebre del peccato; la donna fu guarita, si riprese e, risanata, ritrovò la forza […]. E perché tutto questo accada anche a te, renditi conto che il tuo peccato è grande, ma che disperare del perdono perché il tuo peccato ti sembra troppo grande è bestemmiare contro Dio e fare torto a se stessi. Il Signore ti ha promesso di perdonare i tuoi peccati per quanto grandi siano e tu ribatti che non gli credi, gli dici: «II mio peccato è troppo grande perché tu lo perdoni. Tu non puoi guarirmi dalle mie malattie»? Fermati e grida con il profeta: «Signore, ho peccato contro di te» (2Sam 12,13) e subito ti risponderà: «Ti ho perdonato il tuo peccato; non morirai».
(Omelie anonime sulla peccatrice 1,4.26. 28, in L’Orient syrien 7 (1962), pp. 179; 189; 193; 195).
Naturale e artificiale
La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte ma quando ne accettiamo l’esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è davvero vita non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell’avere ma nell’essere, nel costruire il nostro destino esercitando la vita contro la morte, l’accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell’intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento.
Per essere grati, dobbiamo però rompere l’idolatrica maschera che genera sterilità e risentimento.
Per essere grati, dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell’oscurità.
Per essere grati, dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall’ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza.
Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l’infinito e provare nostalgia per il bene racchiuso nell’Alleanza.
Per essere grati, dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente nel mondo.
Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c’è ritrosia, non frigidità nella gratitudine ma, piuttosto, abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde.
(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 112-113).
Lasciatela libera
Lasciatela libera di fare quello che desidera, perché è l’amore che la ispira.
Lasciatela libera: lei mi conosce attraverso l’amore e sa ciò che desidero e ciò di cui ho bisogno.
Lasciatela libera di annunciarmi: è piena di amore e di entusiasmo…
Lasciatela libera: lei realizzerà con me soltanto opere di bellezza, opere che saranno un’effusione di amore. In realtà ho bisogno solo di questo ministero, un bisogno urgente. Perché il mondo per il quale io ho dato la vita muore senza festa e senza acqua, senza luogo di adorazione e senza canto, senza danza e senza colori, senza speranza e senza giardino.
E’ di questo ministero che ho bisogno: non avete letto che, mentre asciugava i miei piedi con i suoi capelli, tutta la casa si riempiva di profumo?
Ad essa ho inviato il mio Spirito perché mi chiami, mi desideri, perché attenda con ansia la mia venuta. Lasciatela, lasciatela libera di fare.
(Maria Teresa Porcile Santiso, La donna spazio di salvezza, EDB, Bologna 1996, 348-349).
Il valore della gratuità
«A sprecare la vita per Cristo, cioè il valore della gratuità, così lontana dall’utilitarismo corrente.
In un epoca in cui prevalgono la produttività e l’efficientismo, il valore della gratuità non è tramontato. Come a Betania una donna ruppe il vaso d’alabastro per versare il profumo sul capo di Gesù, così il certosino “spreca” la sua vita per Cristo e il profumo di questa vita donata si può diffondere in tutta la Chiesa e nel mondo.
…Tutti si scandalizzano: il profumo poteva essere venduto, il ricavato offerto ai poveri. Ma quel gesto apparentemente illogico è in realtà una testimonianza di amore. E perciò Gesù dice a chi la rimprovera: “Lasciatela in pace, perché tormentarla? Questa donna ha fatto una buona azione verso di me”.
L’amore vero non conosce misure e non ha la preoccupazione del contraccambio. Un amore che pretende un corrispettivo è un amore verso se stessi più che verso l’altro. L’amore verso Dio non può che essere gratuito, perché Lui ci ama gratuitamente.
Cosa c’è di più utile e di più giusto per l’uomo se non amare Dio?
La vera utilità, per lui, non è ciò che si vede e che si può ottenere subito, ma l’amore per Dio, perché Lui è l’unico bene che può riempire il cuore dell’uomo. “Donarsi senza aspettare nulla in cambio, questo è il nostro ideale. Perché la nostra vita vuol essere un dono d’amore e l’amore autentico è sempre gratuito”».
(Enzo Romeo, I solitari di Dio. Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 15).
Il profumo che deve riempire la casa
L’unguento che Maria spande è il simbolo della comunione nuziale con Gesù espresso dalla comunità cristiana. Celebriamo la chiamata delle nostre comunità cristiane, rappresentate da Maria di Betania, alla comunione totale con Gesù, datore di vita. È lui che trasforma quello che sarebbe dovuto essere il banchetto funebre in memoria di Lazzaro in un banchetto di gioia. È lui che tramuta il fetore insopportabile di un morto “quadriduano” nel profumo che inonda la casa di letizia. È lui che protesta contro tutti i Giuda della terra, i quali considerano sprecato l’unguento prezioso della intimità con Dio e oppongono i poveri al Signore. È lui che rifiuta la “praticità” di tutti coloro che preferiscono l’efficienza del denaro a ogni estasi di amore, e riducono malinconicamente in valuta monetaria anche ciò che non ha prezzo. È lui, insomma, che dobbiamo ricercare nella preghiera d’abbandono, nell’esperienza contemplativa e nella consuetudine di vita.
Il Signore ci preservi dall’errore di Giuda il quale, insensibile al profumo del nardo, avverte solo il tintinnare dei soldi, e, invece che percepire la lucentezza dell’olio, si lascia sedurre dallo scintillo dell’argento. Qual è questo profumo d’unguento di cui dobbiamo riempire la casa, e qual è questo buon profumo di Cristo che dobbiamo diffondere nel mondo? Il profumo che deve riempire la casa è la comunione. Naturalmente, come quello comprato da Maria di Betania, l’olio della comunione ha un prezzo carissimo. E noi dobbiamo pagarlo, senza sconti, con tanta preghiera, anche perché non è un prodotto commerciale in vendita nelle nostre profumerie, né è frutto dei nostri sforzi titanici. È dono di Dio che dobbiamo implorare senza stancarci. Ma l’otterremo, ne sono certo; e il suo profumo riempirà tutta la nostra Chiesa”.
(A. Bello, Lessico di comunione, Terlizzi, 1991, 69-75).
Gli idoli
Un papà aveva passato la cera sulla carrozzeria dell’automobile e ora la strofinava accuratamente per renderla splendente. Il figlio lo aiutava, passando lo straccio sui paraurti.
“Vedi, ragazzo mio, l’auto è un capitale della famiglia. Dobbiamo dedicarle cure, attenzioni e tempo” diceva il padre.
“Certo, papà”.
Un momento di silenzio.
“Allora io non sono un capitale della famiglia” mormorò piano il figlio.
“Perché?”
“Tu non hai mai tempo per me!”
Da’ gratuitamente
«Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente. Puoi reclamare il carattere permanente del tuo amore come un dono di Dio. E puoi dare questo amore permanente agli altri. Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli. A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.
Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio. Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito. Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci. Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di riceverlo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.
Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi bisogni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».
(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia. 2005, 27-28).
La propria interiorità
A proposito di differenza verso se stessi, sono celebri le spietate autoanalisi di sant’Agostino che nelle Confessioni si dichiara “terra di miseria” (regio egestatis), dice di “provare disgusto” di se stesso (displicere mibi), e non teme di esplicitare questo suo sentimento dicendo che la sua anima, “coperta di piaghe, si proietta fuori di sé, miseramente bramosa di sfregarsi al contatto con le cose sensibili […]. Inquinavo così la fonte dell’amicizia con le sozzure della concupiscenza e ne oscuravo il candore con le tenebre della libidine, e tuttavia, sporco e volgare, smaniavo dalla vanità di apparire elegante e raffinato”. Ecco di che cosa è capace il sé, non solo di sporcarsi ma anche di pretendere di essere pulito. Ancora Agostino: “La volontà traviata genera la passione, e la soggezione alla passione genera l’abitudine, e il cedimento all’abitudine genera la necessità. Con questa specie di anelli agganciati l’un l’latro – perciò ho parlato di catena – mi teneva avvinghiato una dura schiavitù”.
Prima di Agostino era stato l’apostolo Paolo a presentare un severo giudizio sulla propria interiorità, in un brano che è opportuno citare diffusamente perché ha segnato nel profondo la storia della coscienza occidentale: “Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me” (Romani 7,15-21).
(Vito MANCUSO, La vita autentica, Milano, Raffaello Cortina Ed., 2009, 105-106)
Preghiera
Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.
Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà. Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre. Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di essere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza. Tu mi ripeti, Gesù, che proprio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.
Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
PER L’APPROFONDIMENTO: