V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 14,21-27

 

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.   

 

Paolo e i suoi collaboratori sono presentati come missionari itineranti, che predicano la parola di Dio. Essi non prendono dimora stabile in nessuna comunità, ma vanno di paese in paese.

     Quando è necessario essi ritornano nelle comunità evangelizzate per «fortificare» (lett. confermare) nella fede i discepoli. «Confermare» è un termine che diventa tipico nel linguaggio missionario delle primitive comunità cristiane (cf. At 15,32-41; 16,5; Rom 1,11; 1 Ts 3,2.13). Il tema della conferma della fede si trova già nel Vangelo lucano: «confermare i fratelli» è la missione affidata da Gesù a Pietro (cf. Lc 22,32).

     Le tribolazioni sono la grande tentazione della fede per i discepoli. Le sofferenze possono portare alla disperazione e indurre a non avere più fiducia nell’avvento del regno di Dio e a rinunciare a lavorare per esso.

     Il regno di Dio è indicato qui come una realtà escatologica, nella quale si entra «attraverso molte tribolazioni». È presentato come realtà futura, nella quale i discepoli devono ancora entrare. Chiesa e regno non si identificano: essi sono nella Chiesa, ma non ancora nel Regno. Sono ancora nel regime della «fede» e della «speranza», che si possono perdere a causa delle tribolazioni…

     Paolo e Barnaba si preoccupano di dare una struttura stabile alla comunità e costituiscono degli «anziani», che le governino, mentre loro continuano ad andare in nuovi paesi a predicare la parola di Dio. Paolo e Barnaba stanno compiendo la missione fra i pagani, che numerosi hanno abbracciato la fede. Il giungere alla fede nel Signore è un dono gratuito di Dio, come essi riconoscono e dichiarano davanti alla comunità (cf. At 14,27).

 

Seconda lettura: Apocalisse 21,1-5 

 

Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.  Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».

 

 

La sezione dell’apocalisse che inizia col capitolo 21 e termina a 22,5, è l’ultimo grande affresco della profezia di Giovanni. Si tratta di una conclusione radiosa, conseguenza di un intervento diretto e creatore di Dio. I versetti che leggiamo oggi sono l’introduzione a questa sezione. Essi vanno letti non come una previsione del futuro, ma come una esortazione alla speranza e all’attesa dell’intervento definitivo di salvezza di Dio.

     Giovanni ha la visione di un cielo nuovo e una terra nuova. Si tratta di una novità dovuta all’intervento creatore di Dio, come lo era stato all’inizio, non solo di una trasformazione, infatti il cielo e la terra di prima «erano scomparsi». Il riferimento è ad Isaia (65,17; cf. 66,22). «Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra».

     La visione continua con quella della «Gerusalemme nuova». In Isaia Dio promette «farò di Gerusalemme una gioia del suo popolo, un gaudio». La salvezza escatologica della visione di Giovanni è universale e particolare al tempo stesso. Rispecchia il movimento creatore e salvatore di Dio che attraversa tutta la rivelazione biblica. Dio è creatore dell’universo e Padre di tutte le creature che popolano la terra, ma Dio al tempo stesso si sceglie un popolo, Israele, e una città, Gerusalemme, come possesso e dimora amati e riservati in modo particolare per sé.

     La nuova Gerusalemme è presentata nella visione «come una sposa adorna per il suo sposo» (cf. Is 52,1; 61,10).

     Nella terra e cielo nuovi Dio ha la sua dimora stabile. Questo fa la differenza con il cielo e la terra di prima dove Dio aveva dimora, ma nascosta «dalla tenda». Solo in visione e da parte di alcuni scelti da lui per delle missioni particolari, come Mosé, ci poteva essere un contatto per così dire, più diretto. La dimora definitiva di Dio fra gli uomini sarà lo svelamento di quella stessa presenza di Dio nella tenda in mezzo o alla guida del suo popolo in questo mondo che deve passare. La dimora, in greco skené, ha le stesse consonanti della parola ebraica skekinà, che indica l’immanenza di Dio che sta insieme al suo popolo e condivide, se così si può dire, la sua stessa vita tanto da andare in esilio con lui.

     Il segno della dimora definitiva di Dio col suo popolo e l’umanità “giusta” sarà l’assenza di ogni sofferenza, morte, lutto, dolore (cf. Is 35,10; 65,19; Ger 31,16).

 

Vangelo: Giovanni 13,31-33a.34-3 

 

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

 

 

Esegesi 

     Nei primi due versetti della pericope che leggiamo oggi Gesù parla della glorificazione del «Figlio dell’uomo» ormai avvenuta e annuncia che Dio è glorificato in lui.

     Giovanni collega il discorso della glorificazione di Gesù con il dono dello Spirito. In 7,39 afferma che non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. I credenti ricevono lo Spirito del Signore glorificato, e solo dopo questo dono «si ricordano» (12,16) e capiscono le parole di Gesù.

     La glorificazione del Figlio è opera del Padre, al quale appartiene la gloria. I segni miracolosi compiuti da Gesù presentano questo movimento dinamico: essi avvengono a gloria di Dio e le persone che vi assistono lodano il Padre, Dio di Israele (cf. Mt 9,8; 15,31; Mc 2,12;). Gesù insiste su questa dinamica intrinseca alla glorificazione del Padre, che a sua volta glorifica il Figlio e che è glorificato attraverso il Figlio (Gv 8,54). C’è un intreccio inestricabile fra le due glorificazioni, ma il termine ultimo è sempre il Padre. «Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,28). «Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).

     Per Giovanni la glorificazione di Gesù è strettamente legata alla passione. Egli dice infatti all’annuncio della passione: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23). Gesù si sottomette a passione per amore, in obbedienza al Padre. Egli dà l’esempio dell’amore più grande: «dare la vita». «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questa è la misura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni verso gli altri.

     «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati». Gesù propone sé stesso come esempio di adempimento in misura totale del comandamento grande di Lev 19,18: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ne sottolinea l’attualità ai discepoli: «Vi do’ un comandamento nuovo», un comandamento che va messo in pratica sempre in forma nuova a seconda delle circostanze in cui una persona si trova. La novità per i discepoli è il dovere di imitare Gesù nel suo dono senza misura.

     Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli affettuosamente «figlioletti» (teknía). Questo termine ricorre solo qui nel vangelo di Giovanni, ma è un’espressione tipica della Prima Lettera a lui attribuita (1Gv 2,12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21), che ravvicina al genere letterario sapienziale dei Proverbi (cf. Pv 1,8; 2,1; 3,1; 4,1; 8,32): un padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti. Il diminutivo «figlioletti», anziché il più usuale «figli», indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento.

 

L’immagine della domenica

 

 Amare i nemici

Ai nostri più accaniti oppositori noi rispondiamo così: faremo fronte alla vostra capacità di infliggere sofferenze, con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Metteteci in prigione e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli e noi vi ameremo ancora. Ma siamo convinti che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Gesù ha eternamente ragione. La storia è piena delle ossa di popoli che rifiutarono di ascoltarlo.

(Martin Luther King)

Spiaggia di Fregene (litorale laziale) – Italia – 2011

 

 

 Meditazione 

La pericope evangelica che la liturgia propone nella quinta domenica di Pasqua dell’anno C’ è, come sempre, tolta dal suo contesto biblico per ‘rivivere’ in un nuovo contesto che è quello liturgico. Senza contraddire il contesto biblico, cerchiamo di far risuonare questo testo di Giovanni all’interno della celebrazione pasquale che la Chiesa vive nei Cinquanta giorni, i quali costituiscono un unico grande giorno di festa.

Nella pagina degli Atti degli Apostoli (prima lettura) troviamo la narrazione della missione di Paolo e Barnaba, in particolare di come essi cercarono di dare solidità e struttura alle comunità da loro fondate, istituendo in ogni Chiesa alcuni anziani. Quello che ci viene qui narrato è dunque uno sforzo di evangelizzazione, accompagnato dalla preoccupazione di organizzare anche in modo ‘istituzionale’ le comunità locali — e tuttavia si afferma che quando i due apostoli ritornarono ad Antiochia, la comunità dalla quale erano partiti, «riferirono tutto ciò che Dio aveva operato per mezzo loro» (At 14,27). Ecco un aspetto pasquale al quale la Chiesa sempre si deve convertire: imparare a vedere sempre, nella sua vita, la presenza dell’azione di Dio.

Il brano tratto dal libro dell’Apocalisse (seconda lettura) ci può aiutare a cogliere il contesto pasquale sullo sfondo del quale interpretare le parole di Gesù che troviamo nel vangelo. 

Ecco: faccio nuove tutte le cose!

L’Apocalisse riprende un’immagine molto bella, già usata in precedenza per parlare della fine della storia (cfr. Ap 7,17): Dio che asciuga ogni lacrima dal volto dell’umanità. E aggiunge qui un elenco di situazioni concrete che alla fine e nel fine della storia non ci saranno: «Non vi sarà più morte né lutto e grida e dolore» (Ap 21,5). Le lacrime che saranno asciugate non sono quelle dei grandi eventi della storia, ma quelle dei lutti e delle tribolazioni che ogni uomo e ogni donna hanno vissuto nella loro concreta esistenza.

Nel fine e nella fine della storia, nel disegno di Dio, queste realtà non ci sono più. Dio non le ha mai volute e alla fine della storia le cancella, perché il suo desiderio originario alla fine non può che vincere contro ogni ‘nemico’. Il brano termina con un’affermazione che ci proietta nel testo evangelico: «Ecco: faccio nuove tutte le cose». La storia conoscerà una svolta, ma tale svolta è opera di Dio. A partire da questo annuncio, spostiamo la nostra attenzione sul brano evangelico, per contemplare come, dove e quando quest’azione di Dio trova conferma, quando la Parola di Dio si dimostra degna di fede/fedele e veritiera (cfr. Ap 21,5).

Anche il testo del Vangelo parla di una ‘cosa nuova’, un comandamento nuovo, che Gesù dona ai suoi discepoli. In realtà non si tratta di una novità dal punto di vista del contenuto: il comando dell’amore è già presente nell’Antico Testamento sia in riferimento a Dio (Dt 6,5), sia in riferimento al prossimo (Lv 19,18.34). La novità sta nel ‘come’. Si tratta di un comando, ‘amatevi’, che interessa l’avvenire, fondato sopra un fatto avvenuto nel passato: ‘come io ho amato voi’. L’amore dei discepoli è possibile perché sono stati preceduti dall’amore di Gesù: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). In Gv 15,9 Gesù descriverà così qual è l’amore con il quale egli ha amato i discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». È in questo amore, con il quale il Padre ha amato Gesù e che Gesù a sua volta ha indirizzato verso i suoi discepoli, che i discepoli stessi devono ‘rimanere’.

La novità di questo comandamento, allora, è la novità della Pasqua, nella quale Dio crea qualcosa di nuovo proprio in Gesù, primogenito dell’umanità e terra nuova che l’Apocalisse canta con stupore. Anche se collocato in un discorso di Gesù ambientato nella cena che ha preceduto la passione e quindi la Pasqua, questo testo, come ogni testo dei vangeli, viene trasfigurato dalla luce pasquale. Ma ci dice anche qualcosa di più circa la ‘novità’ che è stata resa possibile dalla Pasqua di Gesù e che ‘oggi’ la Chiesa può celebrare nel suo cammino nella storia dell’umanità.

Gloria, sequela, amore

Nel brano si susseguono tre temi molto significativi — la gloria, la sequela, il comandamento dell’amore — che corrispondono nel testo a suddivisioni ben riconoscibili, e anche a una scansione temporale ben precisa.

La gloria. Nell’Antico Testamento la ‘gloria’ — termine che in ebraico indica la ‘pesantezza’, la ‘consistenza’ — è il manifestarsi di Dio nella storia. La gloria è la presenza di Dio visibile nella storia dell’umanità. Nel testo di Giovanni si parla del Padre che è glorificato in Gesù e di Gesù che è glorificato da parte del Padre. In Gesù, nella sua Pasqua, continua dunque il medesimo ‘stile’ del Dio dell’Esodo, un Dio che agisce nella storia in favore del suo popolo e dell’umanità. Questo primo tema fa riferimento al tempo della Pasqua di Gesù.

La sequela. Il secondo tema è quello del seguire il Signore. Su esso sembra che ci sia incomprensione tra il maestro e i suoi (cfr. 13,36-38). Gesù afferma che ora i discepoli non lo possono seguire dove egli va, sulla sua via (Gv 13,33.36) e il v. 36 è ancora più chiaro: ora i discepoli non possono seguire Gesù. Lo potranno fare però in un secondo momento, dopo la sua Pasqua. Non possono amarsi vicendevolmente come Gesù li ha amati prima che egli li abbia amati fino alla fine (Gv 13,1). Devono accettare questo suo gesto estremo di amore per poter diventare capaci di essere veramente suoi discepoli e di seguirlo. Il tempo di cui si sta parlando è il presente dei discepoli, prima della Pasqua di Gesù.

Il comandamento dell’amore. Ora si capisce perché Gesù introduca a questo punto il tema del comandamento nuovo. Gesù indica qui la via che i discepoli devono percorrere per poterlo seguire, per andare dove lui va, cioè verso la Pasqua: è l’amore fino alla fine, a somiglianza del suo. Prima della Pasqua questo amore è ‘sconosciuto’ ai loro occhi e non sono in grado di percorrere quella via. Solo dopo, dopo la Pasqua di Gesù e il dono dello Spirito, potranno essere veramente discepoli.

La sequela non è frutto dell’impegno dei discepoli, ma è quella ‘cosa nuova’, quella via nel deserto che Dio ha aperto nella storia dell’umanità. Senza la strada aperta da Dio in Gesù, che è la via (Gv 14,6), non ci può essere sequela autentica. Allora questa parola di Gesù è situata in un ‘terzo tempo’, che viene dopo la sua Pasqua e il dono dello Spirito, e condurrà i discepoli alla verità tutta intera. È il tempo della Chiesa.

Preghiere e racconti 

La nostalgia dell’Eterno

Come le rondini che a metà agosto cominciano a venir prese dalla febbre migratoria e al crepuscolo con alte strida in gruppi ahimè sempre più piccoli si richiamano e si raccolgono sui fili, così anche noi, a un certo punto della nostra vita, possiamo sentire lo stimolo di prendere il volo.

Al di là del mare, un altro mondo ci chiama.

Non l’abbiamo mai visto, non abbiamo in mano un contratto che ci garantisca l’approdo, non sappiamo neppure se le nostre forze saranno sufficienti. Forse una notte, sfiniti, verremo inghiottiti dai flutti.

Eppure, partiamo lo stesso.

Come i piccoli rondinotti nati in Italia, già al primo volo intorno al nido hanno nostalgia dell’Africa, così noi, nelle parti più segrete del cuore, custodiamo sempre la nostalgia della voce dell’Eterno che ci chiama. 

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015,127)

Affamati d’amore

Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno per essere ciò che i nostri figli si aspettano da noi, che un marito si aspetta dalla moglie e viceversa. E così siamo sempre meno in contatto gli uni con gli altri. Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di gentilezza. La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati.

(Madre Teresa di Calcutta)

«Vi do un comandamento nuovo».

Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità. È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti». E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli». Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo. Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò. Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].

E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità. Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità. Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza. In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli. Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imitate il mio amore. I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa. E niente educa alla virtù come la carità. Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).

Ama con umiltà e rispetto

La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.

(Thomas Merton).

 «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Mt 22,37-39).

 Comincio a sperimentare che un amore di Dio totale e incondizionato rende possibile un amore del prossimo visibilissimo, sollecito e attento. Ciò che spesso io definisco ‘amore del prossimo’ si dimostra troppo spesso un’attrazione sperimentale, parziale o provvisoria, di solito molto instabile e fuggevole. Ma se il mio obiettivo è l’amore di Dio, si può sviluppare anche un profondo amore per il prossimo. Altre due considerazioni possono spiegarlo meglio.

Prima di tutto, nell’amore di Dio scopro ‘me stesso’ in modo nuovo. In secondo luogo, non scopriremo solo noi stessi nella nostra individualità, ma scopriremo anche i nostri fratelli umani perché è la gloria stessa di Dio che si manifesta nel suo popolo in una ricca varietà di forme e di modi. L’unicità del prossimo non si riferisce a quelle qualità peculiari, irrepetibili da individuo a individuo, ma al fatto che l’eterna bellezza e l’eterno amore di Dio divengono visibili in quelle creature umane uniche, insostituibili, finite. È precisamente nella preziosità dell’individuo che si rifrange l’amore eterno di Dio, diventando la base per una comunità d’amore. Se scopriremo la nostra stessa unicità nell’amore di Dio e se potremo affermare che possiamo essere amati perché l’amore di Dio dimora in noi, potremo allora arrivare agli altri, in cui scopriremo una nuova ed unica manifestazione dello stesso amore, entrando in intima comunione con loro.

(H.J.M.NOUWEN, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista,  Brescia, 1998, 82s.).

Cogliere il mistero di Dio

Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’amore di Dio è anche il culmine dell’amore sopra la terra. Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate ogni fogliuzza, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa! Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio. Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente. E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale.

(Fedor Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).

Cercare la verità…amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle confessioni di sant’Agostino.

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

 

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio Mazzi, Preghiere di un prete di strada).

 

L’amore basta all’amore

Quando l’amore ti chiama, seguilo,

anche se ha vie ripide e dure.

Quando dalle sue ali ne sarai avvolto,

abbandonati a lui;

anche se la sua lama potrà ferirti.

Quando ti parla, credigli,

anche se la sua voce potrà disperdere i tuoi sogni.

Perché più l’amore ti colpirà,

più tu maturerai.

Perché l’amore non deve dar nulla, se non se stesso,

né coglier nulla, se non da se stesso.

Perché amarsi l’un l’altro,

non è far dell’amore una prigione.

Perché l’amore non possiede, né deve essere posseduto.

Perché l’amore basta all’amore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DI PASQUA C