BATTESIMO DEL SIGNORE

Prima lettura: Isaia 40,1-5.9-11

«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. – Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato».  Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».

 

I versetti 1-11 del capitolo 40 di Isaia fungono da prologo all’intera sezione della seconda parte di Isaia formata dai capitoli 40-55. Il brano è pervaso da una grande letizia, fondata sulla fede esaltante nel Dio guida del popolo, suo liberatore e salvatore. «Consolate, consolate il mio popolo»: Dio comanda di consolare Israele e l’imperativo ripetuto due volte suggerisce l’idea dell’urgenza e della sovrabbondanza della consolazione. Dio può infliggere il «doppio per tutti i suoi peccati», ma non si dimentica del suo popolo e della sua città e torna a rivolgergli parole di salvezza, che parlano al cuore.

     «Una voce grida»: la voce misteriosa del versetto 3 e le altre, che seguono, si possono considerare l’equivalente poetico della formula profetica il «Signore ha parlato». Con maggiore efficacia il secondo Isaia al comando diretto del Signore fa seguire in forma diretta le voci, che ne ripetono il messaggio.

     I sinottici per spiegare il compito profetico di Giovanni Battista adoperano le parole di Isaia 40,3 (cf. Mt 3,3; Mc 1,3; Lc 3,4). Egli è una voce, che ripete il comando del Signore. Il Signore, che aveva abbandonato insieme al popolo la sua dimora e lo aveva seguito in esilio, vi fa ora ritorno: per lui, e quindi anche per il popolo, si deve preparare una strada agevole, percorribile con facilità. Si tratta di una strada «nel deserto», come nel deserto era stata la strada dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa. «La gloria del Signore» (Is 40,5) si rivelerà di nuovo in tutta la sua potenza, come nell’esodo dall’Egitto, momento fondante tutta la storia di Israele.

     I versetti 6-7, che sono stati tolti dalla liturgia di oggi, incentrata sulla rivelazione di Dio, propongono un intermezzo meditativo sulla distanza fra la fragilità dell’essere umano, paragonato all’erba, e la potenza divina. Questa meditazione aiuta a capire che l’intervento di Dio nelle vicende umane e in particolare in quelle di Israele, dipende interamente dalla sua scelta misteriosa, dettata dall’amore.

     Il Signore avanza con potenza e domina col suo braccio, ma verso il suo popolo si rivela un pastore amoroso: «egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).

     «Il suo braccio» è l’immagine che esprime il suo intervento di castigo e dominio (cf. in Esodo l’intervento contro il faraone, ma anche il castigo dell’esilio per il popolo), ma anche di perdono e dono gratuito e sovrabbondante di salvezza. Dobbiamo sempre tenere insieme nel leggere i profeti per non fraintenderli, i messaggi di salvezza, che dipendono sempre dalla bontà misericordiosa di Dio, da quelli di castigo, che sono volti a riportare Israele sulla via del Signore e non vogliono affatto annientarlo: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29).

Seconda lettura: Tito 2,11-14;3,4-7 

Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta sal­vezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’em­pietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli ap­partenga, pieno di zelo per le opere buone. Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore no­stro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua mise­ricordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spi­rito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella spe­ranza, eredi della vita eterna.

 

In un breve scritto di occasione, volto ad esortare un pastore e la sua comunità a superare i contrasti interni e a tenere una condotta moralmente irreprensibile, l’autore della lettera a Tito richiama l’insegnamento fondamentale dell’apostolo Paolo: la nostra salvezza dipende interamente da Dio, dalla sua bontà (chrestòtes, amore per gli uomini (philan-tropìa) e misericordia (eléos) (Tt 3,4.5).

     Noi non possiamo vantare nessuna pretesa nei confronti di Dio. Noi, infatti, eravamo «insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degno di odio e odiandoci a vicenda» (Tt 3,3). Noi dobbiamo solo accogliere con gratitudine il dono di Dio e rispondere con una condotta che sia conforme alla chiamata di Dio e alla nuova vita che Dio ci ha donato gratuitamente.

     «È apparsa (epiphàne Tt 2,11; 3,4) la grazia di Dio» apportatrice di salvezza per tutti gli esseri umani. Il greco anthropos comprende uomini e donne senza differenze sessuali (a differenza da aner usato solo per uomo e arsen maschio). Si tratta di una vera e propria rivelazione, di un intervento fattivo di Dio, che, anche se apparentemente lascia tutto come prima, in realtà ha trasformato la situazione.

     L’incontro di Dio con gli uomini è un incontro potente e rinnovante. L’autore della lettera attribuisce la stessa potenza salvifica dell’«apparizione» di Dio a Gesù Cristo «nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». Si rinnova in lui il miracolo più volte avvenuto nella storia dell’umanità primitiva e in particolare in quella del popolo di Israele dell’intervento salvifico di Dio.

     In questo caso, la salvezza, data in dono gratuito, è legata al battesimo «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo». I battezzati sono esseri nuovi, che vivono nello Spirito di Dio «effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo».

     La manifestazione della grazia di Dio, effusa per suo volere e senza meriti umani, è, però, strettamente legata all’educazione a fare opere buone. Questo è un insegnamento tradizionale dell’ebraismo. La Torà è la «rivelazione-dono» per eccellenza di Dio. Non possiamo staccare la fede alle opere ammonisce la lettera di Giacomo, che accomuna Abramo che ha creduto, con Raab, la meretrice, salvata per la sua ospitalità (cf. Ge 2,21-25). A proposito di Abramo, il modello della fede per eccellenza, fra le diverse parole a lui rivolte da Dio leggiamo: «Io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso» (Gen 18,19). È Dio che ha scelto Abramo, ma tale scelta comporta una risposta pronta e lo «zelo» per i comandi del Signore.

     Il giudizio finale, secondo il Vangelo di Matteo sarà sulle opere compiute, anche senza il riconoscimento del Signore (cf. Mt 25,31-37), mentre la conoscenza, senza le opere è motivo di condanna: «Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Dobbiamo tenere insieme i due poli del messaggio biblico: l’insistenza sull’iniziativa gratuita di Dio e il richiamo pressante a mettere in pratica i suoi precetti.

     Fra le tante osservazioni che si possono fare sul brano della lettera a Tito scelto per la liturgia di oggi, merita particolare attenzione l’espressione «nella speranza». Siamo stati giustificati dalla grazia di Gesù Cristo e siamo diventati eredi della vita eterna, ma secondo la speranza.

     La salvezza rivelata da Gesù non è ancora quella definitiva, che non si può più perdere e che si manifesta in gloria e potenza per tutte le creature. «I cieli nuovi e la terra nuova» sono ancora sperati. Il regno del nostro Dio ci è dato nel segno della speranza: la sua manifestazione definitiva è nascosta nel mistero della benevolenza di Dio; a noi spetta il grande compito di testimoniare che il dono del regno ci è stato dato, dobbiamo rendere visibile la nostra speranza. Dobbiamo comportarci da cittadini del regno secondo la condotta dettata dai comandamenti divini.

Vangelo: Luca 3,15-16.21-22

In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

 

Esegesi 

     Il vangelo di Luca nei versetti 14-16 ci presenta il popolo che è in attesa del messia (l’«unto», christòs in greco). Coloro che erano accorsi ad ascoltare la predicazione di Giovanni e a ricevere il suo battesimo di purificazione come segno dell’inizio della conversione (metanoia in greco, teshuvà in ebraico), si chiedevano se non fosse proprio lui il Messia.

     Si tratta di una piccola parte degli ebrei di allora, ma Luca parla del popolo in generale e dice «tutti» si ponevano la domanda sul messia e Giovanni risponde a «tutti». A lui interessa il popolo nella sua dimensione collegiale: al versetto 21 sottolinea: «mentre tutto il popolo veniva battezzato». È «tutto il popolo» che in analogia all’avvenimento del Sinai forma per così dire il luogo della rivelazione divina. Gesù, che in Luca è il destinatario della rivelazione: «Tu sei il Figlio mio, l’amato», appare pienamente inserito nel suo popolo Israele. Senza Israele non c’è la rivelazione del Padre di Gesù Cristo; se stacchiamo Gesù dal suo popolo, suggerisce l’evangelista, non comprendiamo nulla di Lui, perché il Dio, che al battesimo lo consacra «l’amato» con l’investitura dello Spirito Santo, è lo stesso Dio della rivelazione del Sinai a «tutto il popolo», col quale ha stipulato l’alleanza (cf. Es 24,3; 34,10).

     Giovanni si premura di togliere ogni dubbio sulla sua identità e per chiarire la distanza fra sé e il Messia usa il detto popolare, assai efficace, che egli non è degno neppure di «slegare i lacci dei sandali». Un’altra caratteristica rilevante del Vangelo di Luca, rispetto al rac-conto analogo degli altri due sinottici, è il legame fatto fra la rivelazione divina e la preghiera di Gesù.

     «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì…» (Lc 3,21-22). Il Vangelo di Luca mette spesso in rilievo la preghiera di Gesù: «Ma Gesù si ritirava in luoghi deserti e pregava» (Lc 5,16; cf. Mc 1,35; Lc 6,12; 9,18; 11,2); «in preda all’angoscia Gesù pregava più intensamente» (Lc 22,44); egli si affida al padre appena prima di esalare l’ultimo respiro (Lc 23,46).

     Prima della trasfigurazione, narrazione che si accosta a quella del battesimo, «Gesù salì sul monte a pregare. E mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto…» (Lc 9,29).

     La preghiera crea la situazione adatta alla rivelazione e nello stesso tempo ci presenta Gesù nella sua piena umanità, bisognoso di affidarsi al padre per comprendere quale sia la sua missione e per portarla a compimento con coraggio.

     Il battesimo è il momento della consacrazione di Gesù, attraverso la quale egli diviene Cristo, cioè unto, messia: «Dio unse (chriò) in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò benedicendo e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). Questa consacrazione si presenta come una nuova nascita, resa possibile dalla discesa dello Spirito e dalla manifestazione della paternità divina. Gesù stesso sperimenta una nuova nascita dall’alto per opera dell’acqua e dello Spirito, secondo le parole del vangelo di Giovanni (cf. Gv 3,3-6). Egli inizia al Giordano la strada che indicherà a tutti i discepoli, chiamati ad essere figli di Dio attraverso il dono dello Spirito Santo.

    Noi delle strade 

Noialtri, gente della strada,

crediamo con tutte le nostre forze

che questa strada,

che questo mondo dove Dio ci ha messi

è per noi il luogo della nostra santità.

Noi crediamo che niente di necessario ci manca.

Perché se questo necessario ci mancasse

Dio ce lo avrebbe già dato.

 

(Madeleine Delbrêl, Noi delle strade)

Meditazione 

     Il racconto di Luca si apre oggi con l’immagine di un popolo ‘in attesa’ (cfr. Lc 3,15). Sembra essere stata questa la missione fondamentale del Battista: suscitare un’attesa e nello stesso tempo distoglierla dalla propria persona per orientarla verso il ‘più forte’ che deve venire (cfr. v. 16). È l’attesa che si compiano le promesse dei profeti, quelle che ci vengono ad esempio ricordate da Isaia nella prima lettura: che Dio consoli il suo popolo e che ogni uomo possa vedere il rivelarsi della sua gloria. Solo chi attende può giungere ad ascoltare la voce che annuncia: «Ecco il vostro Dio!» (cfr. Is 40,9).

     Nello stesso tempo questa attesa deve rimanere disponibile a lasciarsi purificare e convenire dalla parola del Signore. Dio infatti compie le sue promesse e colma le nostre attese in modo sempre sorprendente, a volte persino sconcertante. Giovanni aveva annunziato il venire di uno più forte di lui, che avrebbe battezzato non semplicemente con acqua, ma in Spirito Santo e fuoco. Eppure, la prima immagine che l’evangelista ci offre di Gesù, dopo il vangelo dell’infanzia, ce lo mostra nel momento in cui ha ricevuto, come tutti gli altri, il battesimo d’acqua da Giovanni. Il più forte è in mezzo al suo popolo, confuso tra i peccatori, insieme ai quali si è sottoposto al medesimo rito di penitenza e di purificazione. Chi può battezzare in Spirito Santo e fuoco non si sottrae al battesimo d’acqua di Giovanni. Ma è proprio mentre è in mezzo al suo popolo, disposto a scendere radicalmente nella fraternità dei peccatori, che Gesù vede il cielo aprirsi, accoglie lo Spirito che scende su di lui, ascolta la voce del Padre che lo conferma nella sua singolare identità: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v. 22).

     Tutto in questa scena è in discesa. Gesù discende dal nord della Galilea verso il sud, dove Giovanni battezza. Discende nella depressione del Giordano, che scorre circa 400 metri sotto il livello del mare, probabilmente il punto più basso della terra che un uomo possa raggiungere camminando sulle sue gambe. Una volta giunto al Giordano discende nelle sue acque e soprattutto si immerge nella fraternità dei peccatori. Ed è in questo cammino di umiltà e di discesa che può vedere il cielo aprirsi e ascoltare la voce del Padre. Nella scena seguente, che racconta la prova nel deserto, il diavolo farà compiere a Gesù il cammino opposto: dapprima lo condurrà «in alto» (cfr. Lc 4,5), poi a Gerusalemme lo porrà «sul punto più alto del tempio» (cfr. Lc 4,9), ma in questa altezza, anziché ascoltare la voce di Dio, si rischia di ascoltare soltanto le suggestioni di Satana. Per ascoltare la voce di Dio occorre invece percorrere un cammino di discesa, nell’umiltà e nell’obbedienza. Più volte Gesù ripeterà nei vangeli che chi si umilia sarà esaltato, e chi si innalza sarà umiliato. Sarebbe riduttivo intendere queste espressioni solamente a un livello morale, o peggio moralistico. Evocano piuttosto l’autenticità dell’esperienza di Dio, che è sempre un’esperienza pasquale. Quando raggiungi il punto più basso del tuo cammino esistenziale, quando sei gettato a terra o dal tuo stesso peccato, o dalla violenza che puoi subire da altri, allora incontri lì il Dio della Pasqua che ti rialza e ti dona una vita nuova. Sarà questa l’esperienza pasquale di Gesù: gettato nella polvere della terra e della morte, disceso nell’oscurità del sepolcro, accoglierà la potenza dell’amore del Padre che lo farà risorgere, innalzandolo nel più alto dei cieli. Nel suo battesimo Gesù anticipa quella che sarà la sua Pasqua. Immergendosi nella fraternità dei peccatori, scendendo con loro, lui l’unico giusto, nell’esperienza del peccato e dell’umiliazione in cui il peccato ci getta, ascolterà il Padre che gli dice: «Tu sei il mio Figlio, l’amato». In questo modo Gesù capovolge la logica perversa di Caino, il figlio primogenito che vuole rimanere solo, e per questo elimina Abele. Al contrario Gesù è il figlio Unigenito che non vuole rimanere solo, ma ci vuole in lui tutti fratelli e figli dello stesso Padre, e per questo dona la sua stessa vita fino alla Croce, nell’attesa di riceverla rigenerata dall’amore di Dio.

     Il cammino pasquale di Gesù è già tutto incluso nelle parole che ascolta presso il Giordano, molto essenziali ma incredibilmente ricche di contenuto. Almeno tre testi del Primo Testamento vi risuonano. «Tu sei mio figlio» evoca il Salmo 2: «Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio”» (v. 7). «L’amato» riprende, nel testo greco, lo stesso termine che nel Primo Testamento risuona solo in Genesi 22 a proposito di Isacco, che viene definito il figlio ‘amato’ di Abramo (cfr. Gen 22,2). «In te ho posto il mio compiacimento» cita le espressioni iniziali del primo canto del servo sofferente del Signore che leggiamo in Isaia 42: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui» (v. 1). Tutta l’identità di Gesù è qui delineata, l’intero suo cammino storico e pasquale già trat-teggiato. Gesù è il Figlio unigenito che dovrà vivere la sua identità filiale facendosi servo nella forma di Isacco. Lui è il vero Isacco di Dio, il figlio che non viene chiesto ad Abramo, ma che Dio stesso offre per la salvezza di tutti. È lui il vero capretto donato da Dio, l’Agnello di Dio offerto in sacrificio perché ogni uomo possa vedere la salvezza del Signore.

     «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», promette Giovanni. Ci farà condividere, cioè, la sua stessa esperienza pasquale, rendendoci partecipi della sua morte per condividere con noi la potenza della sua risurrezione e la novità della sua vita. «L’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo», come Paolo definisce il battesimo nella lettera a Tito (3,5), ci consente di ascoltare insieme a Gesù le parole del Padre come rivolte personalmente a ciascuno di noi. Anche a noi Dio dona il suo Spirito, che è lo Spirito del Figlio, e ci conferma il suo amore di predilezione e il suo compiacimento. La condizione per ascoltare questa parola di Dio rimane anche per noi la disponibilità a vivere, come Gesù, un cammino di discesa, di umiltà, di obbedienza. Solo così la nostra attesa sarà colmata, e potremo riconoscere, come sempre Paolo scrive a Tito, che «egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia» (3,5).

Preghiere e racconti

Battesimo di Cristo come metafora

«Un tentativo di rendermi conto dell’amore di Dio è stato per me la meditazione sul battesimo di Gesù (Lc 3,21s.). Gesù si cala nel Giordano, nell’acqua che è carica della colpa dei molti che si sono fatti battezzare nel fiume da Giovanni. Mentre entra in acqua, il cielo si apre sopra di lui. E Dio gli dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Nella meditazione ho sperimentato la realtà di questo amore quando ho sovrapposto consapevolmente la frase «Tu se il mio figlio prediletto» alla paura, all’oscurità, al fallimento, alla mediocrità, alla menzogna esistenziale in me. Ho tentato di calarmi nell’acqua del mio inconscio, nel regno delle tenebre in cui ho rimosso tutto quanto fugge alla luce del sole, ciò che non mi va di guardare alla luce del giorno. Per me è una bella immagine del battesimo di Gesù il fatto che il cielo sopra di lui si sia aperto proprio quando egli si è calato nelle profondità del Giordano. Il cielo vuole aprirsi anche sugli abissi della mia anima. Ma devo avere il coraggio di calarmi in tali abissi, per percepire là in fondo, con un suono nuovo, le parole: «Tu sei il mio figlio prediletto»; «Tu sei la mia figlia prediletta». Solo quando ho sovrapposto alla mia esistenza concreta la frase secondo cui sono il figlio prediletto, essa mi ha toccato nell’intimo, donandomi la pace interiore. Ogni parlare che si fa dell’amore di Dio ci lascia indifferenti se non giunge alle esperienze della nostra vita quotidiana.

Gesù si cala nei flutti della colpa, nell’inconscio, nella pulsionalità, negli elementi della terra, come lo rappresentano sempre le icone. Calandosi in essi, prega tanto intensamente che il cielo si apre sopra di lui, che quanto è essenziale prorompe e la luce di Dio risplende sopra di lui. È un profondo desiderio anche mio quello di saper pregare in modo tale che il cielo si apra sopra di me, che l’amore di Dio rifulga nel profondo del mio inconscio, negli abissi della mia colpa. E anelo a saper pregare anche per gli altri, in modo tale che il cielo si apra sopra di loro. Pregare significa aprire il cielo sopra le persone, in modo che sia loro consentito di sentire il rapporto con Dio come la loro unica salvezza.

Gesù sente dal cielo aperto la voce di Dio che è rivolta a lui: «Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Questo è anche il mio anelito più profondo, l’essere il figlio prediletto di Dio, non essere rispettato, ammirato e amato solo dagli esseri umani, bensì da Dio, la causa prima di ogni esistenza, il creatore del mondo».

(A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 20-23).

La parola è “Amato”

[…] Come cristiano, ho scoperto per la prima volta questa parola nella storia del battesimo di Gesù di Nazareth.

«Non appena Gesù uscì dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E sentì una voce dal cielo: “Tu sei mio Figlio, l’Amato, in te mi sono compiaciuto”». […] Sì, è quella voce, la voce che parla dall’alto e da dentro i nostri cuori, che sussurra dolcemente o dichiara con forza: “Tu sei il mio Amato, in te mi sono compiaciuto”. Non è certamente facile ascoltare quella voce in un mondo pieno di altre voci che gridano: “Tu non sei buono, sei brutto; sei indegno; sei da disprezzare, non sei nessuno – e non puoi dimostrare il contrario.”.

Queste voci negative sono così forti e così insistenti che è facile credere loro. Questa è la grande trappola. È la trappola del rifiuto di noi stessi.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 23-24).

La lotta spirituale come esigenza battesimale

La lotta spirituale è organica alla vita cristiana tout-court: essa riguarda tutti i cristiani, non certo solo i monaci o altre “categorie” di iniziati… La necessità di tale lotta discende dal battesimo, è inerente la vita cristiana in quanto tale, e questo secondo tutto il NT e la tradizione cristiana. Il NT definisce «bella» questa lotta (1 Timoteo 1,18; 6,12; 2 Timoteo 4,7), cioè positiva, di altro ordine rispetto alle guerre e contese mondane, ma altrettanto dura ed esigente. È la «lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), insita cioè nell’adesione a Cristo e nella sua sequela, e riguarda ogni cristiano: essa infatti è connessa al battesimo, che sigilla la conversione, la rottura con il paganesimo e immette in una nuova vita.

Per Paolo, il rivestirsi di Cristo nel battesimo comporta l’impegno di rivestirsi di un abito di vita rigenerata per entrare nella gloria di Dio, e poiché ciò non è realizzabile senza una continua tensione morale che si può paragonare ad una lotta o ad un combattimento, con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, ad indossare cioè quelle che Paolo chiama «armi della giustizia» (Romani 6,13-14) e «armi della luce» (Romani 13,12).

Si tratta delle armi della fede, della preghiera, dell’ascolto della Parola di Dio, della docilità all’azione dello Spirito, che consentono al credente di veder agire in sé la forza di Dio stesso. Come Gesù, appena battezzato, ha affrontato l’assalto di Satana e ha combattuto le tentazioni (cfr. Matteo 4,1-11; Luca 4,1-13; Marco 1,12-13), così il cristiano dovrà attendersi, dopo il suo battesimo, una dura lotta contro l’Avversario.

Chiamato a entrare per la porta stretta (Luca 13,24), posto di fronte all’impossibilità di servire due padroni (Luca 16,13), il battezzato, cosciente dell’urgenza dell’ora escatologica instaurata dal Signore Gesù, deve attuare una scelta di campo mettendosi a servizio di Dio e non del peccato (Romani 6,12-14). Il NT definisce il cristiano «soldato di Gesù Cristo» (2 Timoteo 2,3) e afferma che deve sforzarsi di «piacere a chi l’ha arruolato» (2 Timoteo 2,4). Questa lotta assicura l’incessante dinamismo della vita cristiana ed è diretta contro «il peccato che ci assedia» (Ebrei 12,1), contro «il Maligno» (Efesini 6,16), contro quelle potenze indicate con nomi differenti (Efesini 6,12), ma che designano cumulativamente quelle forze negative, presenti nell’uomo e fuori di lui, che tendono a far ricadere il cristiano nella situazione pre-battesimale. È dunque una lotta che si combatte con armi spirituali: vigilanza e perseveranza (Efesini 6,18; Ebrei 12,1), sobrietà (1 Tessalonicesi 5,6.8), temperanza (I Corinzi 9,25), rinuncia e dominio di sé (1 Corinzi 9,27), capacità di soffrire per il Signore (Filippesi 1,29-30; Ebrei 10,32-33), pazienza ed esercizio alla pietà (1 Timoteo 4,8), e soprattutto preghiera (Efesini 6,18-20; cfr. Sapienza 18,21). Il messaggio neotestamentario è dunque esplicito sul carattere battesimale di questa lotta: vi è un rigoroso aut-aut che accompagna il cristiano nella sua vita e che gli contesta qualsiasi compromesso con la mondanità e con il peccato. È la vita cristiana stessa che è una battaglia, una lotta: essa esige lotta contro le tentazioni, ascesi della mente e del corpo per acquisire il necessario dominio di sé, la vigilanza costante sulle relazioni con sé e con gli altri, la disciplina del tempo e degli impegni, la purificazione delle relazioni. Contro che cosa si combatte? Possiamo riprendere le parole di Ilario di Poitiers che, scritte nel corso di quel IV secolo che ha visto il progressivo passaggio del cristianesimo dalla condizione di religione dei martiri a religione ufficiale, di Stato, si adattano molto bene alla nostra attualità:

«Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci da la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro» (Ilario di Poitiers , Liber contra Constantium, 5).

(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI /PIEMONTE-VALLE D’AOSTA, Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 139-140.

Il battesimo di Gesù

I nuovi tempi sono già iniziati,

i tempi nuovi che il mondo attendeva

fin dall’origine, gli ultimi tempi:

e fu la voce dal cielo a bandirli. 

«Questi è il mio Figlio, l’amato da sempre,

nel quale ho posto la mia compiacenza»:

così è spuntata l’aurora del mondo

e fu l’inizio di nuova creazione.

Ma tu sei venuto a battezzarci

in Spirito santo e fuoco:

non vale l’acqua soltanto

ma l’acqua e il sangue

che sgorga dal tuo costato, Signore:

così sia il nostro battesimo

affinché i cieli si aprano anche su di noi.

Amen. 

E cielo e fiume insieme si aprirono:

è il nuovo esodo e il patto per sempre!

Come colomba lo Spirito scese

e fu la quiete seguita al silenzio.

David Maria Turoldo       

Preghiera

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.