5° Convegno Ecclesiale Nazionale

Tra il 9 e il 13 novembre 2015 si terrà a Firenze il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale. Dopo Evangelizzazione e promozione umana (Roma 1976), Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini (Loreto 1985), Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia(Palermo 1995) e Testimoni di Gesù Risorto speranza del mondo (Verona 2006), titoli dei convegni ecclesiali precedenti, i Vescovi italiani hanno voluto questo nuovo Convegno In Gesù Cristo il nuovo umanesimo.

Di fatto nel nostro Paese i cinquant’anni dal Concilio Vaticano II sono stati cadenzati da questi eventi ecclesiali, quasi a rimarcare con anniversari decennali l’eredità conciliare. In questa luce, il tema di ogni Convegno ha incrociato di volta in volta quello degli Orientamenti pastorali del decennio entro cui il Convegno stesso si collocava: Evangelizzazione e sacramenti per il primo decennio (gli anni Settanta), quindi Comunione e comunità (gli anni Ottanta), Evangelizzazione e testimonianza della carità (gli anni Novanta), Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2000-2010) ed Educare alla vita buona del Vangelo per il decennio in corso.

Il 5° Convegno affronterà il trapasso culturale e sociale che caratterizza il nostro tempo e che incide sempre più nella mentalità e nel costume delle persone, sradicando a volte principi e valori fondamentali per l’esistenza personale, familiare e sociale. L’atteggiamento che deve ispirare la riflessione è quello a cui richiama quotidianamente papa Francesco: leggere i segni dei tempi e parlare il linguaggio dell’amore che Gesù ci ha insegnato. Solo una Chiesa che si rende vicina alle persone e alla loro vita reale, infatti, pone le condizioni per l’annuncio e la comunicazione della fede.

In tale cammino di rinnovamento non è difficile scorgere alcune costanti che complessivamente delineano il percorso delle nostre Chiese. Al centro dell’attenzione è sempre rimasta l’evangelizzazione, attuata in spirito di dialogo con il contesto sociale italiano. Rispetto a questa missione, dopo il Vaticano II, le nostre comunità si sono interpretate come segno della presenza salvifica del Signore sul territorio. La Chiesa, infatti, esiste non per parlare di sé né per parlarsi addosso, bensì per annunciare il Dio di Gesù Cristo, per parlare di Lui al mondo e col mondo. La missione vive di questo «colloquio» – come scriveva Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam – tramite il quale la Chiesa annuncia la ricapitolazione di tutti e di tutto in Cristo Gesù, decifrandone gli indizi nella storia degli uomini e argomentandone i motivi alla luce del Vangelo.

Di conseguenza, sempre desta è stata anche l’attenzione nei riguardi dell’humanum, chiamato insistentemente in causa: nella prospettiva della promozione umana a Roma; nell’orizzonte comunitario e in quello sociale rispettivamente a Loreto e a Palermo; infine, a Verona, sotto le cifre esistenziali degli affetti, del lavoro e della festa, della fragilità, dell’educarsi vicendevolmente e del convivere nel rispetto di regole stabilite democraticamente. Il Vangelo annunciato dalla Chiesa illumina di senso il volto dell’uomo e permette di intuire le risposte meno scontate ai suoi interrogativi più profondi (cf. Gaudium et spes 41).

Si può discutere – come del resto s’è fatto – su modalità, contenuti ed esiti di questi Convegni ecclesiali, ma non si può non riconoscere che essi hanno contribuito a delineare il volto storico delle nostre Chiese, innescando una serie di reazioni virtuose utili a dare vitalità alle nostre Diocesi. La stagione dei Convegni nazionali esprime tutto ciò in un rinnovato stile ecclesiale, che porta a convenire, traduzione permanente del paradigma sinodale rappresentato dal Concilio. Questa prassi realizza la Chiesa quale esperienza di comunione, allenandola a vivere la sua vocazione di «sacramento dell’unità del genere umano» in cammino verso Dio (Lumen gentium 9). Non è fatica da poco; per riuscire a sostenerla è necessario apprendere, sempre daccapo e sempre meglio, la lezione del dialogo, dell’incontro col mondo e, prima ancora, del confronto tra le varie componenti della comunità ecclesiale.

Per questo, ancora una volta, a quasi dieci anni dal Convegno di Verona, torniamo a sentire il bisogno di “convenire”, di rimetterci in cammino per incontrarci in un luogo in cui esprimere sinfonicamente la comune e, insieme, sempre peculiare esperienza credente di ogni Diocesi; per verificare la strada percorsa a partire dall’evento conciliare e valutare seriamente i risultati dei processi di cambiamento. A questo proposito bisognerà registrare ciò che ancora non si è fatto al fine di attuarne le indicazioni, accogliendo sino in fondo le potenzialità che l’insegnamento del Concilio mantiene, specialmente quando ci ricorda che «nel mistero del Verbo incarnato viene chiarito il mistero dell’uomo. […] Cristo, che è l’Adamo definitivo e pienamente riuscito, mentre rivela il mistero del Padre e del suo amore, pure manifesta compiutamente l’uomo all’uomo e gli rende nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes 22).

Solamente fidandoci di Gesù Cristo, conosciamo che il destino dell’uomo è partecipare della sua stessa figliolanza; è chiamata a oltrepassarsi incessantemente, non per divenire altro da sé, bensì per assumere la propria identità grazie alla relazione con l’Altro. «La fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione» (Lumen fidei 4).

Si tratta di una promessa il cui profilo ultimo è costituito dal Risorto, nostra incrollabile speranza, che già si va realizzando – qui e ora – per ciascuno. Ciò avviene sulla base di alcune premesse fondamentali: la natura personale che ci distingue da tutti gli altri esseri, senza però indurci a disinteressarci o a separarci dal creato; la spontanea inclinazione alla reciproca dedizione e alla solidarietà; la nostra responsabilità a interloquire con Chi ci interpella nella profondità della nostra coscienza; un’autonomia non autoreferenziale, che si traduce in un maturo esercizio della libertà.

Dall’Invito di Mons. Cesare Nosiglia
Presidente del Comitato preparatorio
del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale

 

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Cinque vie, un nuovo umanesimo

di Chiara Giaccardi

«Le cinque vie, cioè i cinque verbi dell’Evangelii Gaudium, sono i percorsi attraverso i quali oggi la Chiesa italiana può prendere tutto ciò che viene dal documento di papa Francesco e farlo diventare vita» (mons. Nunzio Galantino, segretario generale della CEI). Uscire, Annunciare, Abitare, Educare, Trasfigurare sono le cinque «vie» lungo le quali la comunità ecclesiale italiana viene invitata a incamminarsi, cominciando con un esame di coscienza. Ma quali sono, e cosa significa ciascuna di esse?

Uscire. Incontro agli altri per purificare la fede

Uscire implica apertura e movimento, lasciare le porte aperte e mettersi in cammino. Senza apertura non c’è spazio per nient’altro che noi stessi; senza movimento la verità diventa un idolo («la fede vede nella misura in cui cammina», Lumen fidei, 9). È la disposizione preliminare a ogni altra, senza la quale ci si arrocca sulle proprie certezze come fossero un possesso da difendere e si rischia di diventare disumani. È l’atteggiamento che deve accompagnare ogni altra via, per evitarne le derive. Significa uscire dal proprio io ma anche da un noi difensivo; dai luoghi comuni e dall’ansia di classificare e contrapporre. Siamo capaci di metterci in movimento, spingendoci anche fuori dai territori dove ci sentiamo sicuri per andare incontro agli altri? Di ascoltare anche chi non la pensa come noi non per convincerlo, ma per lasciarci interpellare, purificare la nostra fede, camminare insieme, senza paura di perdere qualcosa? Di «camminare cantando»? (Laudato Si’ 244).

Annunciare. Testimoniare il Vangelo con la vita

Annunciare non è una scelta. Se davvero la gioia della buona notizia ci ha toccati nel profondo non possiamo tenerla per noi. Per annunciare bisogna uscire: «Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno» (Evangelii Gaudium23). «Annunciare» non è sinonimo di «enunciare»: comporta dinamismo appassionato e coinvolgimento integrale di sé, che il Papa riassume in 4 verbi: prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare (EG 24). L’annuncio è testimonianza. «Possa il mondo del nostro tempo ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo» (Evangelii nuntiandi 75). Ne siamo capaci?

Abitare. Costruire dimore stabili aperte al mondo

Abitare in tante lingue è sinonimo di «vivere», perché solo l’uomo abita: non si limita a scavare una tana per sopravvivere ma, mentre si adatta all’ambiente, lo plasma secondo i significati che ha ereditato e condivide con il proprio gruppo. Abitare traduce nella concretezza dell’esistenza il «di più» che distingue l’uomo dal resto dei viventi e si esprime costruendo luoghi stabili per l’intreccio delle relazioni, perché la vita fiorisca: non solo la vita biologica, ma quella delle tradizioni, della cultura, dello spirito. È dimensione essenziale dell’Incarnazione, insieme a nascita e morte: «il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi». Ci può essere un abitare difensivo, che costruisce muri per marcare distanze o un abitare accogliente, che incorpora l’uscire e iscrive nello spazio segni capaci di educare e annunciare; che vede il mondo come «casa comune», per tutti i popoli. Qual è oggi il nostro contributo alle forme dell’abitare, nel suo significato più autentico?

Educare. Tirar fuori la passione per ciò che è vero e bello

Educare è il tema scelto dalla Chiesa per il decennio 2010-2020. A che cosa e in che modo vogliamo educarci ed educare per realizzare la nostra umanità? Intanto, l’umanesimo oggi deve essere «integrale e integrante» (Laudato si’ 141) perché «tutto è connesso». Questa «totalità integrata» non è un nostro prodotto ma un dono ricevuto: da qui gratitudine e responsabilità, non sfruttamento. Consapevoli che questo è un dono d’amore, da parte di un Padre nel quale siamo fratelli. L’educazione non può prescindere dalla relazione. Come educare? Prima di tutto «uscendo»: e-ducere è «tirar fuori», non riempire di nozioni. Uscire dai luoghi comuni, dal dato per scontato; riscoprire la meraviglia e la passione per ciò che è vero e bello. Rimettere al mondo: l’educatore è in un certo senso un ostetrico, che fa nascere la nostra umanità più piena: con l’esempio prima di tutto, risvegliando la scintilla di infinito che è in ciascuno. Ne siamo capaci? O preferiamo rifugiarci nel sapere preconfezionato?

Trasfigurare. La capacità di vedere oltre i limiti umani

Trasfigurare è ciò che compie Gesù quando, dopo aver vissuto fino in fondo la propria umanità morendo in croce, rivela la propria natura divina apparendo ai discepoli nello splendore della luce. Loro vorrebbero abitare stabilmente quel tempo-luogo, ma sono invitati ad andare nel mondo come testimoni. Trasfigurare, sintesi delle cinque vie, non è un’azione in nostro potere. Possiamo solo metterci a disposizione, fidandoci e lasciandoci portare dove non sapremmo mai andare da soli. La via della trasfigurazione è via di bellezza, che rivela l’unità profonda tra bontà e verità, terra e cielo. Ci rende capaci di vedere oltre i confini delle cose, cogliendo l’unità profonda di tutto e, pur coi nostri limiti, farci testimoni di Gesù. Siamo capaci di coltivare la nostra capacità di aprirci alla grazia, con la vita spirituale e i sacramenti? Di testimoniare in modo profetico la bellezza del Vangelo?