Prima lettura: Atti 9,26-31
In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero. |
Il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli segna una svolta molto importante nella storia della prima comunità cristiana: con la conversione di Saulo (vv. 1-19), l’inizio della sua predicazione (vv. 20-31) e l’orientamento di Pietro verso il mondo pagano (vv. 32-43; e. 10), si pre-para il terreno all’espansione della predicazione apostolica verso le nazioni pagane. La nostra lettura è un elemento di coesione in questo insieme di fatti, in quanto descrive il difficile e delicato inserimento di Paolo nella comunità degli apostoli.
Anche se in certo contrasto con l’esperienza narrata dallo stesso Paolo in Gal 1,18-24, la presentazione lucana del viaggio di Saulo a Gerusalemme obbedisce ad un preciso intento: sottolineare vigorosamente il contatto di Paolo col collegio apostolico, così da legittimare la predicazione successiva dell’Apostolo.
— Da questo punto di vista è di grande peso esegetico il v. 28: «andava e veniva in Gerusalemme» indica la familiarità piena che si è stabilita tra lui, Paolo, e gli altri apostoli; attinge da questa comunione la parrēsía (coraggio di parlare francamente, cf. il greco: parrēsia = zòmenos, v. 28), discutendo liberamente anche con gli ex-correlegionari, gli ebrei «ellenisti», cioè di lingua e cultura greca.
— «Ma questi tentavano di ucciderlo» (v. 29). È il secondo complotto tramato dai Giudei per eliminare questo loro correlegionario che ha «tradito» la sua fede, diventando cristiano.
— «La Chiesa era dunque in pace» (v. 31). Opportuno sommario, per mostrare lo stato di pace interna (accordo e comunione) ed esterna (fine della persecuzione con la conversione di Saulo). La Chiesa è organismo vivo che cresce e cammina, non per forza naturale, ma per due fattori fondamentali; cammina nel timore di Dio, in obbedienza e docilità al Signore; si moltiplica grazie al «conforto», ossia all’assistenza attiva e fecondante dello Spirito Santo.
Seconda lettura: 1 Giovanni 3,18-24
Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
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Nella I Epistola di Giovanni, che si può considerare come un’enciclica destinata alle chiese dell’Asia su cui incombe la minaccia di eresie e lacerazioni interne, si discernono alcune parti parenetiche (dove prevalgono le esortazioni) e altre parti dottrinali (dove abbondano indicazioni dogmatiche). La nostra lettura si colloca di una sezione parenetica, che esorta cioè a «nascere da Dio» compiendo opere di giustizia (2,28-3,24).
Data la struttura circolare, con numerosi ritorni, del nostro brano, basterà chiarire solo alcuni termini-chiave: «verità», «cuore», «comandamento».
a) «Verità», in senso semitico e giovanneo, indica propriamente la salda rivelazione di Dio Amore con fatti e «nella verità» (v. 18); significa pertanto, amare con opere (e non solo a parole) e in conformità a quanto Dio in Gesù Cristo ha rivelato di se stesso. «Siamo dalla verità» (v. 19) vuole dire: veniamo da Dio, rivelato a noi da Gesù Cristo.
b) «Cuore» è sinonimo di coscienza, oltre che centro delle decisioni dell’uomo. Dire che «il nostro cuore ci rimprovera» o «non ci rimprovera» (vv. 20-21) significa che riceviamo o non riceviamo l’approvazione della nostra coscienza. Ma il giudizio di Dio è ben al di là di tale approvazione («è più grande del nostro cuore»). Tale superiorità sottolinea la grandezza imperscrutabile dell’amore di Dio.
c) «Il comandamento», nella letteratura giovannea, è quello per autonomasia dato da Gesù ai discepoli: amarsi gli uni gli altri (Gv 15,12) come lui ci ha amati. Qui il «comandamento» (o anche al plurale «i comandamenti») ha un duplice aspetto; a) credere «nel nome», cioè nella persona stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e come tale confessarlo; b) amarci gli uni gli altri perché è lui che ci ha dato tale comandamento, e non a motivo di un amore generico o sentimentale. Tale comandamento è talmente fondamentale per la nostra vita di credenti, da essere il presupposto necessario perché si realizzi l’inabitazione di Dio nel credente. Fede, amore, inabitazione di Dio sono tre aspetti indissociabili del comandamento di Gesù.
Vangelo: Giovanni 15,1-8
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». |
Esegesi
Siamo nell’ampio contesto dei discorsi di addio ambientati nell’intima cena (Gv 13,1-35). In forma circolare, tali discorsi, che rappresentano il testamento spirituale del Signore, insistono su due fondamentali temi, quello della fede e dell’amore, atteggiamenti essenziali della vita dei discepoli di Gesù.
Il brano odierno rappresenta un significativo sviluppo all’interno dei discorsi di addio. Esso va collocato nell’insieme del cap. 15, nel quale si cela una forte tensione tra due poli: da una parte, l’amore a Gesù e i suoi frutti (vv. 1-17), dall’altra, l’odio del mondo e la testimonianza del Paraclito (vv. 18 ss.).
— «Io sono la vite vera» (vv. 1.5). Le parole introdotte da Io sono contengono un’autorivelazione come quando nel libro dell’Esodo JHWH rivela il proprio nome (Es 3,14). In riferimento al mistero di Cristo, la sua identità è caratterizzata dall’aggettivo «vera». Vite vera, in due sensi: a) in Gesù Cristo si realizzano in misura totale e piena quello che la vite natu-rale esprime; b) Israele, vigna di Dio, aveva tradito le attese di Dio (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21); Gesù invece le realizza in pieno perciò è la vera vite.
— «Il Padre mio è l’agricoltore» (vv. 1-2), l’autorivelazione si estende anche al Padre, al rapporto di profonda unione che Gesù-vite ha con il Padre da una parte, e al rapporto vitale che lega i tralci (i discepoli) all’azione sovrana e gratuita del Padre, dall’altra.
— Due principalmente, gli aspetti di questa azione del Padre:
a) in senso positivo, egli monda, o purifica, quei tralci che già portano frutto, perché — come dalla potatura — ne risulti un impulso di vitalità e di fertilità (v. 2); le iniziative del Padre, anche se appaiono dolorose, hanno come fine una crescita ed una promozione e non una mortificazione della vita;
b) in senso negativo, il castigo e l’eliminazione dei tralci che, non portando frutto, si oppongono alle premure del Padre e alla vita donata da Gesù: questi tralci sono tolti (v. 2), gettati via, raccolti, gettati nel fuoco, bruciati (v. 6). Dietro queste immagini si intravede la cura estrema di Dio nel preservare l’opera salvifica del Figlio da ogni ambiguità e compromesso col male.
— Rimanete in me come io in voi (v. 4). Questa reciproca immanenza non significa che Gesù e i credenti siano sullo stesso piano. In ogni caso precede l’azione di Gesù-vite (come io in voi), che eleva e rende possibile l’unione dei discepoli con lui («rimanete in me»).
— Sono da precisare due aspetti di questo «rimanere»: da una parte esso indica un rapporto di fede (le mie parole rimangono in voi, chiedete, ecc.); dall’altra, è condizione essenziale per vivere e portare frutto di salvezza (v. 5). La salvezza non dipende soltanto dalla libera adesione dell’uomo e degli apporti — sia pur generosi — della sua azione: procede dalla vita che riceviamo da Dio, come la linfa vitale che nutre i tralci, e li mette in condizione di portare frutti.
L’immagine della domenica
Dio sempre nuovo
Dio è sempre nuovo,
la sua opera
è sempre nuova.
Novità del mondo
è ogni vita che nasce,
novità del mondo
è ogni morte.
Assoluta novità
di tutta la storia
è sempre la perenne
resurrezione di Cristo.
(Davide Maria Turoldo, da Amare).
Meditazione
È la quinta domenica «di» Pasqua; ossia la quinta volta che torna lo stesso ed unico giorno di Pasqua. Ed è così per tutte le domeniche. Esse tornano fedelmente, quasi segno della fedeltà di Dio; tornano anche se tante volte siamo noi ad essere assenti; tornano perché possiamo restare nel giorno di Pasqua e incontrare Gesù risorto. Per questo gli antichi cristiani ripetevano convinti questa affermazione: «non possiamo vivere senza la domenica», ossia «non possiamo vivere senza incontrare Gesù risorto». Potremmo, allora, applicare anche alla domenica e ai giorni della settimana la parabola odierna della vite e i tralci, somigliando la vite alla domenica e i tralci agli altri giorni. Quest’ultimi restano senza frutto se non sono vivificati dallo Spirito che riceviamo nella santa liturgia della domenica. Restare nella domenica, ossia conservare nel cuore quello che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella santa liturgia, vuol dire rendere più fruttuosi i giorni della settimana.
La liturgia di questa domenica sottolinea la necessità di «rimanere» in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima lettera afferma: «Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio e Dio in lui». E nella parabola della vite e i tralci il termine «rimanere» ne è il cuore. Il verbo viene ripetuto ben sette volte nel nostro testo, e nei versetti seguenti altre due volte. L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era molto nota ai discepoli di Gesù. Uno degli ornamenti più vistosi del tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù frequentò era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo: «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte!» invoca il salmista (80,15-16). E Isaia, nel mirabile «canto della vigna», descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna, che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’Israele: «Io ti avevo piantata come vite pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?» (2,21).
Nelle parole di Gesù, c’è un cambiamento piuttosto singolare, la vite non è più Israele, ma lui stesso: «Io sono la vera vite». Nessuno l’aveva mai detto prima. Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò. Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testamento. Nel primo discorso chiarisce chi è la vera guida del popolo del Signore; e dice: «Io sono il buon pastore». Subito dopo, iniziando il secondo discorso, afferma: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore». Gesù si identifica con la vite, specificando che è la «vera» vite; ovviamente per distinguersi dalla «falsa».
Ma non è una vite isolata. Gesù aggiunge: «io sono la vite e voi i tralci». I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci, e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essenziale e forte. È un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologici, le nostre buone o cattive condizioni. L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirompente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto». Sono belle le parole di commento di Papia, uno dei Padri Apostolici, a questa pagina evangelica: «Verranno giorni in cui nasceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. Ogni vite avrà diecimila tralci ed ogni tralcio avrà diecimila pampini e ogni pampino diecimila grappoli. Ogni grappolo avrà dieci-mila acini, ed ogni acino spremuto darà una misura abbondante di vino».
Il Vangelo prosegue: «Ogni tralcio che porta frutto, lo porta perché porti più frutto». Sì, proprio quelli che «portano frutto», conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere «senza macchia» (Ef 5,27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo senso che va intesa la potatura; il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i suoi figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scontata né naturale, e non è un progresso univoco. Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a sentimenti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio… È, qui che si deve potare, e non una volta sola, perché sempre si ripresentano questi sentimenti, seppure in modi e con manifestazioni diverse. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, e quindi potature.
Questi tagli, talora anche molto dolorosi, purificano la nostra vita e fanno scorrere con maggior freschezza la linfa dell’amore del Signore. Per sei volte, in otto righe, Gesù ripete: «rimanete in me», «rimanete nella vite». È la condizione per portare frutto, per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono; magari, si saranno chiesti: «ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?». In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui; si rimane in lui se le «sue parole rimangono in noi». È la via che intraprese Maria, sua madre, la quale «conservava nel suo cuore tutte queste cose». È la via che scelse Maria, la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù e ascoltava la sua parola. È la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani. È l’icona della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesù è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa che permette di «non amare a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità».
Preghiere e racconti
Naturale e artificiale
La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte ma quando ne accettiamo l’esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è davvero vita non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell’avere ma nell’essere, nel costruire il nostro destino esercitando la vita contro la morte, l’accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell’intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento.
Per essere grati, dobbiamo però rompere l’idolatrica maschera che genera sterilità e risentimento.
Per essere grati, dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell’oscurità.
Per essere grati, dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall’ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza.
Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l’infinito e provare nostalgia per il bene racchiuso nell’Alleanza.
Per essere grati, dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente nel mondo.
Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c’è ritrosia, non frigidità nella gratitudine ma, piuttosto, abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde.
(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 112-113)
Io sarò vigna
Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.
Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: «Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti. Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo».
E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: «I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni».
E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».
E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.
(K. GIBRAN, Il Profeta).
Curare la vigna è come curare la vita
Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.
D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).
Senza di me non potete far nulla
Il Signore prosegue: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). […] Chi si illude di poter portare frutto da se stesso, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo non è cristiano. Ecco in quale profondo abisso siete precipitati. Ma considerate ancor più attentamente ciò che aggiunge e afferma la Verità: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce «molto frutto», non dice: perché senza di me potete fare poco, ma: «senza di me non potete far nulla». Tanto il poco che il molto, non si può comunque farlo senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Anche quando il tralcio produce poco frutto, infatti, il viticoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia se il tralcio non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. […] «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i cristiani se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere rimanendo nel Salvatore, se non ciò che tende alla salvezza? […] Le parole del Signore rimangono in noi, quando facciamo tutto quanto egli ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma non si trovano realizzate nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 81,2-4, NBA XXIV, pp. 1240-1244).
Solo Gesù può liberarmi totalmente
Nel Nuovo Testamento
la presenza di Gesù
con le sue parole e i suoi gesti
diviene una fonte inesauribile
d’ispirazione per la preghiera:
è Gesù che mi si accosta e m’interpella.
Gesù è il Buon Pastore
alla ricerca della pecora smarrita,
e io lo seguo.
Gesù è la vigna;
Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati
perché io possa dare buoni frutti.
Alla moltiplicazione dei pani,
è Gesù che m’invita
a offrirgli la mia povertà
– cinque pani e due pesci –
perché egli se ne serva
per compiere meraviglie.
Alla pesca miracolosa,
è Gesù che mi chiede
una fiducia assoluta nella sua parola
più che nei miei mezzi umani.
In occasione di numerose guarigioni,
Gesù mi rammenta
che lui solo può liberarmi totalmente.
(Jean -Jacques Gareau).
Aumenta la nostra fede
«Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5). Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio. Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24). I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali. Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).
(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp. 160-161).
Preghiera
O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.
Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudando lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie. Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.
Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi. E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
PER L’APPROFONDIMENTO: