Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18
In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce». |
Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi. Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.
Aspetti di esegesi
Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito. Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2). Abramo esegue il volere divino.
«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).
La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8). L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.
Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio. All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza. È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà. Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.
«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).
Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento. I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).
«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20). La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21). L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19). In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio. La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).
Seconda lettura: Romani 8,31-34
Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! |
La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13). Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.
Aspetti di esegesi
«Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).
L’insieme è un inno di fiducia. Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente. Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto. L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande. Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi. Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso. La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote. Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi. La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.
Vangelo: Marco 9,2-10
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti. |
Esegesi
Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20). Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro. È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.
Aspetti di esegesi
Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù. Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio. Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.
Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23). Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione. La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione. Gesù rimane identico mostrandosi glorioso. Lo splendore di Gesù è celeste. La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina. I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.
«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4). Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie. Essi discorrono con Gesù. Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).
«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati». Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6). È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.
«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre. La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.
Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo. «E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).
Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione. L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato. I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).
Meditazione
Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita. In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito. Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio. E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana. Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato. Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino. Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio. È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.
Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli. È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù. Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33). La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino. È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29). Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.
Notiamo solo alcuni elementi del racconto. Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’. Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio. Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù. In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).
Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte. E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte. Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.
Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3). Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo. Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza. Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore. È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).
Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena. E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto. Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4). C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola. E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge. Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio. Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola. E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).
Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze. La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5). L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo. E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia. Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro. Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32). Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.
Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare. Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme. Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8). Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua. Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino. Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31). Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta. Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.
L’immagine della domenica
Il ricordo di quello che si è visto
«Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere….
A che pro, allora?
Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo, devi prendere nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali, puoi vederle.
Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene. Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto.
Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto.
Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere».
(Renè Daumal)
Preghiere e racconti
Il Tabor e il Getsemani
Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.
Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
(Henri J.M. NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).
Domenica della Trasfigurazione
L’odierna domenica, la seconda di Quaresima, è detta della Trasfigurazione, perché il Vangelo narra questo mistero della vita di Cristo. Egli, dopo aver preannunciato ai discepoli la sua passione, “prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,1-2). Secondo i sensi, la luce del sole è la più intensa che si conosca in natura, ma, secondo lo spirito, i discepoli videro, per un breve tempo, uno splendore ancora più intenso, quello della gloria divina di Gesù, che illumina tutta la storia della salvezza. San Massimo il Confessore afferma che “le vesti divenute bianche portavano il simbolo delle parole della Sacra Scrittura, che diventavano chiare e trasparenti e luminose” (Ambiguum 10: PG 91, 1128 B).
Dice il Vangelo che, accanto a Gesù trasfigurato, “apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui” (Mt 17,3); Mosè ed Elia, figura della Legge e dei Profeti. Fu allora che Pietro, estasiato, esclamò: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). Ma sant’Agostino commenta dicendo che noi abbiamo una sola dimora: Cristo; Egli “è la Parola di Dio, Parola di Dio nella Legge, Parola di Dio nei Profeti” (Sermo De Verbis Ev. 78,3: PL 38, 491). Infatti, il Padre stesso proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mt 17,5).
La Trasfigurazione non è un cambiamento di Gesù, ma è la rivelazione della sua divinità, “l’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 357). Pietro, Giacomo e Giovanni, contemplando la divinità del Signore, vengono preparati ad affrontare lo scandalo della croce, come viene cantato in un antico inno: “Sul monte ti sei trasfigurato e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre”.
(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 20.03.2011).
L’immagine tra luce e ombra
La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione. Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili. Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata. La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce. Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte. Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata. L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti. Tutto il resto deve essere svelato e illuminato. Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre. […] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa. La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile. I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.
I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori. Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato. Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini. Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore. L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati. È piuttosto essa a illuminare. La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori. L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie. Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.
L’immagine è tra la luce e l’ombra. E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra. In ogni caso la rivelazione non è il riflettore. La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo. I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce. È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.
La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.
(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E. AFFINATI et al., Saper sperare. Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).
Una sola tenda
Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole. Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno. Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso. Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.
Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21). Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto. Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva […].
Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui. San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano. Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia. Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto. Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui. Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui. Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia. Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione. Credeva fosse bene ciò che diceva. Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola». Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo. All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi. Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.
(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 576-578)
Riconoscere Cristo
Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte. C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle. Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità. Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge. Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.
La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura. Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro. Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.
(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).
Ancora e sempre sul monte di luce
Ancora e sempre sul monte di luce
Cristo ci guidi perché comprendiamo
il suo mistero di Dio e di uomo,
umanità che si apre al divino.
Ora sappiamo che è il figlio diletto
in cui Dio Padre si è compiaciuto;
ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,
perché egli solo ha parole di vita.
In lui soltanto l’umana natura
trasfigurata è in presenza divina,
in lui già ora son giunti a pienezza
giorni e millenni, e legge e profeti.
Andiamo dunque al monte di luce,
liberi andiamo da ogni possesso;
solo dal monte possiamo diffondere
luce e speranza per ogni fratello.
Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo
gloria cantiamo esultanti per sempre:
cantiamo lode perché questo è il tempo
in cui fiorisce la luce del mondo.
(D. M. Turoldo)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
PER L’APPROFONDIMENTO: