Prima lettura: Levitico 13,1-2.45-46
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento». |
I capitoli 11-15 del libro del Levitico, di cui fa parte questo brano sono chiamati dagli esegeti «codice di purità» (in parallelismo con i capitoli 17-26, chiamati «codice di santità»). Il nome è giustificato dal fatto che, in questa sezione, vengono elencate le realtà che avvicinavano a Dio (tutte racchiuse nel nome generico di «puro») e quelle che a Dio si oppongono o da Dio allontanano (come le malattie e la morte, ma anche fenomeni come il parto o fenomeni legati al ciclo della femminilità ecc.: queste vengono racchiuse nel nome generico di «impuro»). Anche la lebbra rientra in queste realtà negative, anzi vi entra in modo esemplare perché il termine ebraico che la definisce — negàh, «colpire» — è diventato sinonimo della «piaga» per eccellenza che allontana da Dio e mediante la quale Dio punisce.
Bisogna, tuttavia, notare che presso l’antico Israele il concetto di lebbra era molto più ampio del nostro. Infatti, ogni malattia della pelle («arrossamento, pustola, macchia bianca») — e le stesse muffe dei muri delle case — venivano considerate come lebbra. Inoltre questa malattia conduceva a una totale esclusione dalla comunità. Questo spiega il particolare modo di vestire («vesti strappate, capo scoperto, coprirsi la barba») e l’obbligo di abitare fuori dall’accampamento o dall’abitato e di segnalare la propria presenza, per evitare di contagiare gli altri (il lebbroso deve gridare: «Impuro! Impuro!»).
Seconda lettura: 1Corinzi 10,31-11,1
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo. |
Il breve brano proposto contiene la conclusione della trattazione di alcuni problemi che assillavano la comunità cristiana di Corinto. Vivendo in ambiente pagano e idolatra, più in particolare i problemi riguardavano la partecipazione ai sacrifici pagani e all’eucaristia e il mangiare le carni offerte in sacrificio agli idoli (chiamate con termine greco «idolotìti» dal verbo thyo, «sacrificare»). Queste carni venivano distribuite e offerte come cibo nel banchetto che seguiva al sacrificio, ma venivano anche vendute nei mercati.
Paolo dà questo consiglio: se il cristiano viene invitato a un banchetto e non e al corrente della provenienza delle carni che gli vengono offerte in cibo, ne può mangiare (al riguardo Paolo cita, come giustificazione il Salmo 24,1: «Del Signore è la terra e tutto ciò che contiene»). Se invece il cristiano sa che le carni provengono dai sacrifici offerti dai pagani agli idoli, se ne deve astenere. Ciò viene motivato dal fatto che si potrebbe dare occasione di scandalo a chi è ancora «debole» nella fede («Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio»).
L’astensione dall’assumere queste carni è motivo per il cristiano di testimoniare apertamente la fede nell’unico vero Dio e di esprimere la sua opposizione al culto degli idoli, assai fiorente nella città di Corinto. Su tutto, però, deve prevalere il principio della ricerca di Dio e della sua gloria e non il proprio tornaconto: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio». La vita, l’opera e il comportamento di Paolo stesso sono il modello di questa ricerca di Dio su tutto: «Così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
Vangelo: Marco 1,40-45
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte. |
Esegesi
Lo sfondo del brano evangelico è quello della prima lettura, dedicata alla descrizione del significato negativo della lebbra all’interno della comunità israelitica e alle precauzioni da assumere nei suoi confronti. Ma lo sfondo è anche quello «teologico» del vangelo di Marco, nel quale i miracoli di Gesù vengono presentati con lo scopo di condurre i suoi contemporanei a riconoscere in lui il Figlio di Dio. Quanto allo sfondo biblico, è interessante notare come ancora ai tempi di Gesù fossero in vigore le norme del libro del Levitico, che per i lebbrosi contemplavano l’emarginazione, l’esclusione dalla comunità, un vestito e un comportamento particolari (vedi la prima lettura), cioè la morte civile e religiosa. Il leb-broso del vangelo infrange queste norme «andando» da Gesù, quindi rompendo l’isolamento. E Gesù stesso infrange queste norme, quando «tocca» il lebbroso. Toccare chi era colpito dalla lebbra, significava infatti essere dichiarato immondo, con conseguenze gravi per la vita religiosa.
«Se vuoi, puoi purificarmi!»: il lebbroso ha la percezione che solo Gesù, con i poteri e l’autorità che sta dimostrando attraverso i miracoli, ha la capacità di guarirlo dalla lebbra. Nessun altro può restituirlo alla vita civile e quotidiana, perché la legge è rigorosissima. Questa percezione diventa fede quando, nel suo significato più profondo, la lebbra è vista come immagine del peccato, che emargina l’uomo da Dio e dalla comunità di fede. Solo Gesù ha la capacità di salvare. I verbi di miracolo («guarire, sanare») nei vangeli diventano perciò i verbi della fede («salvare, convertire a Dio»).
«Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò»: con questi verbi appare in pienezza l’umanità di Gesù, che si ribella allo stato di emarginazione in cui venivano relegati i lebbrosi. È, questo, un progresso nel riconoscimento della dignità dell’uomo che versa nella malattia, un progresso che solo il vangelo può favorire e ancora oggi propone di fronte alle più svariate emarginazioni a cui viene condannato l’uomo debole, indifeso, ammalato.
«Ammonendolo severamente»: Gesù ha la consapevolezza di aver trasgredito la legislazione del Levitico e per questo si dimostra severo con il destinatario del miracolo di guarigione. Ma ha pure la consapevolezza di aver ridato vita, gioia, felicità, comunità, casa, famiglia, affetti, a chi ingiustamente veniva emarginato. Gli esegeti — in riferimento anche a quanto è detto nel v. 14 («Guarda di non dire niente a nessuno») — vedono qui un’allusione al cosiddetto «segreto messianico». Gesù cioè non vuole essere riconosciuto Messia attraverso i gesti miracolosi che compie, ma soprattutto nell’umiliazione della croce.
«Va’, invece, a mostrarti al sacerdote»: secondo le norme del Levitico (capitoli 13-14) erano i sacerdoti a stabilire la presenza della lebbra, a ratificare le norme da applicare nei confronti del lebbroso e a dichiararne anche l’avvenuta guarigione. Forse Gesù vuole anche far capire ai sacerdoti che la legislazione del Levitico ha ormai esaurito la propria funzione ed è tempo di chinarsi con più amore e compassione su chi soffre ed è emarginato.
Meditazione
Il Vangelo di Marco continua ad accompagnarci di domenica in domenica per renderci partecipi della vita stessa di Gesù e del suo cammino per le strade del mondo. E ci mostrano il clima nuovo che nasceva al passaggio di Gesù. Era visibile una straordinaria corrente di misericordia che percorreva le strade di quella lontana periferia dell’Impero romano. Avvenivano cose che mai prima si erano viste. Il brano odierno si apre con una notazione asciutta e singolare per quel tempo: «Venne a Gesù un lebbroso». Era davvero strano che un lebbroso osasse avvicinarsi a qualcuno, visto che avevano l’obbligo di stare ben lontani dalla gente. Il libro del Levitico era categorico: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto, velato fino al labbro superiore, andrà gridando: Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (13,46). L’esclusione dalla convivenza con gli altri rendeva questa malattia ancor più terribile di quel che già appariva. I rabbini giungevano a considerare i lebbrosi come dei morti in vita, e ritenevano la loro guarigione più improbabile della stessa risurrezione. Ecco perché appare strano che un lebbroso osi avvicinarsi a Gesù superando un’abissale distanza garantita dalla legge. Ma, da chi altro poteva andare? Tutti, protetti dalle disposizioni legali oltre che dalla paura del contagio, si tenevano ben lontani dai malati di lebbra. L’unico che non si comportava così era Gesù. I lebbrosi l’avevano capito e andavano da lui.
Quanti malati di «lebbra» ci sono anche oggi, vicino o lontano da noi! E non parlo tanto dei colpiti dalla lebbra vera e propria, peraltro facilmente curabile, quanto di coloro che vedono la propria vita segnata irrimediabilmente dalla malattia senza neppure la speranza di poter sognare una vita migliore per il tempo che gli resta! E ancora oggi siamo in molti, in troppi, a fuggire da loro per paura di essere contagiati, oppure, come qualcuno dice, per non essere rattristati alla loro vista (e loro, che ci sono dentro, cosa dovrebbero dire?). Quei lebbrosi, contrariamente a quel che normalmente accadeva, quando venivano a sapere che
stava per passare Gesù, superavano barriere di paura e di diffidenza e accorrevano da lui. Il giovane profeta di Nazareth creava un clima nuovo attorno a sé, una atmosfera piena di compassione e di misericordia che attraeva malati, peccatori, poveri, deboli, emarginati. Quel lebbroso, finalmente e chissà con quanta fatica, giunse accanto a Gesù e gli si gettò ai piedi. Non usò molte parole, non si mise a spiegare la sua malattia, disse semplicemente ma con fede: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Chiede di essere purificato, perché la lebbra rendeva «impuri», cioè lontani da Dio, impedendo ai lebbrosi di frequentare il tempio. Anche il contagio rendeva chi li avvicinava «impuri». Per questo la legge li obbligava a vivere fuori dai luoghi abitati. Ma per Gesù niente è così grave e terribile da allontanare qualcuno definitivamente da Dio. Per questo egli mangia con i pubblicani e i peccatori. La richiesta del lebbroso è così più di una semplice guarigione corporale. Egli desidera essere reintegrato nella vita sociale e religiosa. L’esclusione e la disperazione di quel lebbroso si trasforma in fede, una fede semplice, ma vera.
Gesù «ne ebbe compassione». «Avere compassione» è un atteggiamento che in Marco viene riferito soltanto a Gesù (cfr. 6,34; 8,2; 9,22): È, potremmo dire, la caratteristica di Gesù verso il bisogno della gente. Poi Gesù «stese la mano, lo toccò». Lo stendere la mano (meglio che «tese la mano», secondo la nuova traduzione CEI) è un’azione propria di Dio o di un suo inviato, che nel Primo Testamento interviene per liberare il suo popolo dalla schiavitù e dalla morte (cfr. Es 8,1.12; 9,22; 10,12; 15,12…). Gesù non rifugge dal contatto. Ricordiamoci che toccare un lebbroso significava diventare impuri, essere contaminati. Gesù non teme il contagio, anzi lo vince con la vicinanza, con il proprio rapporto personale, andando ben oltre la mentalità che stava dietro la paura del contagio. Ed ecco la volontà di Gesù, espressa direttamente: «Lo voglio, sii purificato». Volontà che gli uomini stiano saldi nell’amicizia con Dio, liberati dalla malattia e dal peccato, guariti, purificati: di nuovo amici e alleati di Dio. Di fronte a Gesù niente è impuro perché egli stesso ristabilisce la comunione con la vita, con Dio. Lo aveva ben capito l’apostolo Paolo che, scrivendo ai Corinti circa la partecipazione a pasti in cui si mangiava carne sacrificata agli idoli e ben conoscendo la legge di Israele, sottolinea che niente davanti a Dio è impuro, anche se non tutto giova. Tutto ciò che è contrario a Dio, espresso nella concezione religiosa di allora in ciò che è impuro, viene combattuto, eliminato, sgomberato per lasciare spazio. Quell’uomo fu subito purificato. Ma Gesù, in modo strano, non vuole che quell’uomo divulghi il fatto. E ne vediamo subito dopo il motivo, perché in verità il lebbroso, contravvenendo all’ordine di Gesù, diventa il primo missionario, il primo che parla del Vangelo del regno, quella parola che guarisce e salva e dà agli uomini la possibilità di tornare in alleanza con Dio. Infatti la conseguenza è che «Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti». Gesù, avvicinando e toccando quel lebbroso, si è assunto la sua impurità e finisce per vivere come lui, in luoghi deserti. Quanto è grande la compassione del Signore, che si assume il male degli uomini perché la volontà unica di Dio è il bene, la vita, e non l’esclusione!
Ma niente può fermare la volontà di salvezza di Dio. La conclusione del testo, «Venivano a lui da ogni parte», mostra che questo racconto si conclude ma non segna una fine, bensì un inizio per tutti coloro che vengono da Gesù. Ecco superata la legge, il divieto. Per lui è vietato entrare, e allora da ogni dove vengono a lui. Cosa può impedire alla forza di Dio di trasmettersi, di guarire, di salvare, di dare nuova vita agli uomini? Ora che il tramite, Gesù stesso, è così perfettamente immedesimato persino con i più disperati fra essi? Niente può fermare la forza del Vangelo del regno, che vive nella compassione di Gesù.
La scena evangelica spinge tutti noi ad incontrare e ascoltare, a toccare e sentire il grande bisogno di salvezza che hanno i milioni di «lebbrosi» che ancora oggi vivono ai margini della vita; a volte sono popoli interi a giacere in questa incredibile situazione. È scandaloso accettare di convivere con la morte, con le stragi, con la paura del contatto e del contagio con chi è malato, povero e sconfitto. La compassione di Gesù non è solo un fatto puntuale, relativo ad un caso o all’altro, magari a quello che suscita più facilmente emozioni anche perché ben propagandato. Gesù, con la sua risposta, ci mostra qual è la sua volontà sulla lebbra e sul male, qualunque esso sia: «Lo voglio, guarisci!». Sì, la volontà di Dio è chiarissima: lottare contro ogni genere di male. Siamo davvero lontani da quella convinzione piuttosto diffusa che attribuisce a Dio la decisione di distribuire il male agli uomini a secondo del loro peccato. Nulla è più estraneo dal Vangelo. Oggi, forse ancor più di ieri, abbiamo bisogno di un «uomo» che cammini in mezzo a noi come Gesù sapeva fare. Ma non è questa la vocazione stessa della Chiesa e di ogni credente anche in questo secolo così segnato dal male?
L’immagine della domenica
IL MURO
«Avverto il mio vicino di là dal colle
e un giorno ci vediamo per percorrere
il confine e fra noi rifare il muro.
[…] Là dove è il muro un muro non ci serve:
lui ha tutto a pineta, e io ho un frutteto di meli.
I miei alberi mai sconfineranno
per mangiare le sue pigne, glielo dico.
Ma lui: «Buoni confini fanno buoni vicini».
La primavera mi rende insofferente, qualcosa
vorrei fargli capire: «Ma perché
fanno buoni vicini? Forse dove
stanno le mucche: ma qui non ce ne sono.
Prima di fare un muro dovrei chiedermi
quello che intendo riparare o escludere,
e a chi potrei recar danno.
Qualcosa c’è che non sopporta un muro
che lo vuole abbattuto».
(R. Frost, Rabberciare un muro, in Idem, Conoscenza della notte e altre poesie, tr. G. Giudici, Mondadori, Milano 21994, pp. 55-57).
Preghiere e racconti
I dieci lebbrosi
I dieci lebbrosi se ne vanno al calar del sole
tutti guariti, mostrandosi la pelle sana
liberati dall’immonda raganella
che faceva il deserto all’ingresso dei villaggi.
Uno solo si gira, inquieto di camminare
fra due ombre: una dietro di lui
come i nove compagni e l’altra
leggera, davanti a lui, già calante
come se il suo dorso restasse rischiarato
dall’oriente, lo sguardo intravisto
che li ha mandati pieni di speranza ai sacerdoti
– la Vita che si dona, dimenticata dalla vita
che segue e ricomincia. Dov’era il miracolo
prima del miracolo? Sono partiti così in fretta.
Gli altri nove sono lontano. Allora, lui decide
di risalire il fiume della strada.
(J.P. Lemaire, La rotta)
La sofferenza come maestra
Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore. Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita. Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono. Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo. Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.
Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti. Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto. E ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla.
(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).
«Se vuoi, puoi purificarmi!»
Chi supplica la volontà, non dubita del potere.
E stendendo la mano Gesù lo toccò e disse: «Lo voglio: sii mondato». E sull’istante fu mondato dalla sua lebbra (Mt 8,3). Appena il Signore stende la mano, subito la lebbra scompare. Ma osserva anche quanto sia umile e immune da vanità la sua risposta. Il lebbroso aveva detto: «Se tu vuoi», e il Signore risponde: «Lo voglio». Il lebbroso aveva detto: «Puoi mondarmi», e il Signore replica dicendo: «Sii mondato». Non dobbiamo congiungere le due parti della risposta, come credono molti latini, che leggono: «Ti voglio mondare»; dobbiamo tenerle separate, sicché egli prima dice: «Lo voglio», e poi, dando un ordine: «Sii mondato».
E Gesù disse: «Guardati dal dirlo ad alcuno» (Mt 8,4). E, in verità, che necessità aveva il lebbroso di fare tanti discorsi sulla sua guarigione, quando il suo corpo guarito parlava per lui?
«Ma va’, mostrati ai sacerdoti e presenta l’offerta che Mosè ha prescritto, affinché serva a loro di testimonianza» (Mt 8,4). Per varie ragioni lo manda ai sacerdoti. In primo luogo, per un atto di umiltà, affinché cioè il lebbroso risanato rendesse onore ai sacerdoti: era infatti prescritto dalla legge che coloro che venivano mondati dalla lebbra presentassero un’offerta ai sacerdoti. Poi perché i sacerdoti, vedendo che il lebbroso era stato mondato, potessero credere al Salvatore, oppure si rifiutassero di farlo: se avessero creduto sarebbero stati salvi; se si fossero rifiutati di farlo, la loro colpa sarebbe stata senza attenuanti. E infine perché si rendessero conto che egli non infrangeva la legge, cosa di cui tanto spesso lo accusavano.
(SAN GIROLAMO (+ 419/420), Commento al Vangelo di Matteo I, 8,2-4, in GIROLAMO, Commento al Vangelo di Matteo, Roma, Città Nuova Editrice, 1969, 63-64).
Dalla Leggenda Maggiore
Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso. Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.
San Francesco, la fede e la vista dei lebbrosi
Nel “Testamento” redatto (o meglio dettato) da Francesco, si trova una frase che pare essere la chiave di comprensione della vita di questo giovane: «Quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e con essi usai misericordia»(Cf. Fonti Francescane, Padova 2004, n. 110).
«E ciò che mi sembrava amaro continua il testo mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo». Ciò che fece scattare la conversione di Francesco fu dunque la vista dei lebbrosi. Egli si lasciò condurre dal Signore, e ciò che prima gli appariva ripugnante gli si cambiò in dolcezza. Da questa storia emerge un’altra immagine di Dio che è un’altra immagine dell’uomo. Quando è in crisi l’immagine di Dio è in crisi l’uomo, e viceversa. Dobbiamo dunque alimentare la nostra fede sposando la causa degli ultimi, come fece otto secoli fa Francesco, e non per semplice carità cristiana e nemmeno soltanto per un senso di giustizia. La nostra unica giustizia non è altro che Cristo, che ci sprona e ci possiede. Il nostro senso di giustizia, infatti, è sempre storicamente determinato e, quando l’avessimo realizzato, ci troveremmo magari a essere oppressori degli ultimi (ieri lebbrosi soltanto, oggi lebbrosi ammalati di AIDS). La nostra immagine di giustizia è una nostra via, ma le vie della giustizia di Dio non sono le nostre vie. La nostra via, e qui è sempre Paolo a ricordarlo, è il Cristo «crocifisso per la sua debolezza» (2Cor 13,4), perciò io devo compiacermi «nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Restituire a Dio la sua santità, abolendo le immagini letterarie o scientifiche che presumono di tradurlo, non vuol dire cadere in un fideismo cieco. Chi parla di Dio con sicurezza da professore è potenzialmente un uomo iniquo. Solo se c’è adorazione, tremore, incapacità a volte di dire chi è Dio se non vedendolo nell’aspetto repellente del lebbroso, allora c’è anche rispetto per l’uomo. Francesco trovò la fede, e quindi la verità, sotto la santità e la durezza della croce, nel volto sfigurato dei malati. Ritrovare la fede, dunque, significa, sul piano storico, farsi garanti della libertà e della vita della persona; abolire tutte le barriere, tutte le discriminazioni consumate sulla stessa vita umana nello sterile e misero dibattito su ciò che è vita e ciò che vita non è; riconoscere che vita è sinonimo di giovinezza perenne dello spirito, indipendentemente dagli anni o dalla condizione fisica o sociale, respingendo le catalogazioni che rendono ancora così disumana la nostra società postmoderna.
Da persone come Paolo e Francesco inizia un discorso che va lasciato al silenzio di ognuno, ma che non può risolversi se non in un rinnovato impegno ad adoperarsi perché cambi questa società e sia non un luogo di divisioni e di conflitti, ma di unione nel Cristo, segno di unità tra tutti gli uomini. Non di competizione e conflittualità parlano Paolo e Francesco, ma di animazione cristiana interna al cammino storico fino alle prospettive che superano miti e dualismi e si identificano con l’eterna comunione con quel Dio che sarà un giorno Tutto in tutti.
(Franco CAREGLIO, San Paolo e San Francesco, giovani per i secoli, in «Paulus» (2009) 2).
Coraggio, fratello che soffri
Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.
Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio. La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre «collocazione provvisoria». Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra». Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.
Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.
Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.
(Don Tonino Bello)
Che significato ha una malattia nel corso della vita?
Sono molti i fattori che fanno ammalare gli alberi, ancora di più quelli che debilitano gli uomini.
Quando, in un albero, la malattia va troppo in là è difficile salvarlo: marciscono le radici, si gonfia il tronco, il ricambio si interrompe e le foglie cadono private della linfa.
Quando si ammala un uomo si pensa subito a un virus o a un batterio, che probabilmente c’è, ma nessuno si chiede da dove viene, come mai si e insinuato là dentro, perché proprio oggi e non un mese fa, in quella persona e non in quell’altra che magari era molto più esposta al rischio di un contagio? Perché, a parità di cure, uno guarisce e un altro soccombe?
Basta che un fulmine sfiori la corteccia di una quercia secolare per innescarne la distruzione, in quel varco si insinuano batteri, funghi e coleotteri destinati in breve a propagarsi a discapito della sua vita.
Gli alberi da frutto diventano fragili quando perdono la verticalità: un pino può crescere anche se è piegato dal vento ma non un albicocco: è la perpendicolarità perfetta al suolo a permettergli di vivere e fruttificare.
Per distruggere un uomo, per farlo ammalare, invece, cosa ci vuole? E per guarirlo? Che significato ha una malattia nel corso di una vita? Dannazione? sfortuna? o forse un’occasione improvvisa, un dono prezioso che il cielo ci offre?
(Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130)
Insegnaci a non amare solo noi stessi
Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi,
a non amare soltanto i nostri cari,
a non amare soltanto quelli che ci amano.
Insegnaci a pensare agli altri,
ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.
Concedici la grazia di capire che in ogni istante,
mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te,
ci sono milioni di esseri umani,
che pure sono tuoi figli e nostri fratelli,
che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame,
che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.
Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo;
e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.
Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.
(Raoul Follereau)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
o serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
—
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
PER L’APPROFONDIMENTO: