Riflessioni – Tra fede e cultura l’umanesimo di Francesco

Il documento di papa Francesco Evangelii gaudium porta questo sottotitolo: «Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale». Si tratta di un testo lungo – forse troppo – pubblicato verso la fine del 2013, anche molto complesso, che tratta di un’infinità di questioni con la passione e lo slancio che sono tipici di questo papa.
Non penso di poterlo riassumere e nemmeno di commentarlo nel suo insieme, ma soltanto di esaminarne qualche passaggio in relazione al tema dell’umanesimo.1 Dunque: esiste, nel mondo attuale, la possibilità di un nuovo umanesimo? Per saperlo, occorrerebbe sapere anzitutto che cosa significa questa parola, umanesimo; però se volessimo percorrere fino in fondo questa via ci troveremmo intralciati dal fatto che non sono uno storico del Quattrocento o del Cinquecento, uno specialista di letteratura o di filosofia italiana.
Comunque sarebbe difficile, in poche parole, arrivare a un’immagine credibile di un movimento storico così complesso e così carico di conseguenze per tutto ciò che noi possiamo chiamare cultura moderna. Perciò propongo una riflessione più diretta e più personale; una riflessione che non mira a trasferirci in secoli lontani ma che parte dal presente.
Riscatto per un’élite
«Umanesimo» è un termine recente, nato dalle sperimentazioni pedagogiche del primo Ottocento e poi proiettato all’indietro a indicare un periodo in cui l’Italia, la cultura italiana, aveva svolto un ruolo universale. Si tratta, all’origine, di un fenomeno letterario (ritorno alle fonti classiche, all’antichità pagana), ma che poi si è caricato di significati più recenti, derivati in parte dalle rivoluzioni moderne (diritti dell’uomo, valori umani in generale: libertà, giustizia ecc.).
Oggi noi parliamo normalmente di umanesimo per indicare una civiltà in cui l’uomo, il cittadino troverebbe piena realizzazione delle sue esigenze, dei suoi ideali. Quindi abbiamo in mente un problema che è anche politico. Inizialmente però si insisteva sul rapporto tra il recupero dell’antichità (gli studia humanitatis) e la formazione di una vera umanità, pienamente sviluppata (la cosiddetta dignitas hominis): l’idea era questa, che il fondamento di tutta la cultura si trovi nelle arti del linguaggio, profondamente assimilate grazie alla frequentazione degli scrittori greci e latini; ovvero, che la lingua e la letteratura classiche siano la porta d’entrata per qualsiasi ricerca o attività degna d’interesse, nel campo delle scienze, delle arti o della politica.
Gli umanisti del Quattrocento pensavano effettivamente che gli studi sull’antichità, così concepiti, la filologia, la storia, avrebbero dato luogo a una nuova civiltà. Se ad esempio Lorenzo Valla lotta per la diffusione del latino, questo sforzo non ha un senso esclusivamente specialistico, ma mette in gioco, come lui dice, «il vantaggio e il riscatto in genere di tutta l’umanità»: cioè una visione della storia e un rinnovamento della cultura che avrebbe toccato le leggi, le arti, la medicina, la spiritualità.
Ma questo movimento aveva un carattere prevalentemente aristocratico oppure popolare, democratico? Vi sono episodi – che potremmo anche trascurare – come la rivoluzione romana, il colpo di stato di Cola di Rienzo nel 1347, che sono effettivamente ispirati al modello della Roma antica. Quando Cola si proclamava tribunus augustus o studiava le monete imperiali per trarne un’immagine della città, non si trattava soltanto di qualche mania o vanità, ma di ricostruire il passato come modello del presente.
Petrarca celebrò questo avvenimento, però senza coglierne il carattere contemporaneo, una reazione alle ingiustizie del presente; piuttosto la lotta di Cola significava per lui una risurrezione del mondo classico. Ma poi, esiste dappertutto il contrasto, per Petrarca come per Valla, tra la cultura scolastica del Medioevo, astratta, incomprensibile, riservata a pochi, e una cultura che, attraverso i classici, recuperi la realtà o l’umanità in tutti i suoi aspetti più comuni, o più universali.
Dobbiamo però adesso soffermarci sul significato che hanno avuto per gli umanisti la filologia e la storia. Era certamente decisivo il lavoro svolto direttamente sui manoscritti degli antichi scrittori. Ma la questione non riguarda soltanto questi inizi. Il trionfo supremo dell’umanesimo per più di tre secoli consiste nell’aver gettato le basi di un sistema educativo su cui si formarono le élites europee e tutte le grandi figure dell’età moderna; per cui la questione dell’umanesimo, o di un nuovo umanesimo, incrocia continuamente la questione della modernità, e il passaggio da una cultura astratta (fondata sulla logica, sulla metafisica) al carattere concreto, particolare, della ricerca storica e filologica occupa diversi secoli.
Dobbiamo quindi osservare più attentamente questo inizio. Per gli umanisti gli autori antichi non erano le autorità senza volto e senza tempo della scolastica, ma uomini con una loro biografia e una loro storia, con passioni, opinioni, esperienze rigorosamente personali: il testo, in questa prospettiva, deve mostraci una verità individuale, il passaggio – si potrebbe dire – di un singolo uomo sulla terra.
Il ritorno alla storia
All’umanesimo, infatti, dobbiamo ancora oggi la scoperta che la nostra dimensione è la storia, che l’uomo vive nella storia, ossia nella variazione, nella diversità di ambienti ed esperienze, nella relatività di tutti i punti di vista. Si può quindi capire che Valla abbia pensato il ritorno agli antichi anche come un ritorno ai padri della Chiesa, e che la critica testuale dei classici lo abbia portato alla critica testuale del Nuovo Testamento.
Valla è morto nel 1457. Quasi un secolo dopo, Erasmo da Rotterdam sostiene che, poiché la Scrittura ci parla attraverso tre lingue, l’ebraico, il greco e il latino, sarebbe una violenza inconcepibile il volersene occupare senza conoscerle tutte e tre: «Colui che le ignora non è un teologo: è piuttosto un profanatore della teologia, la infanga e la perverte». Del resto Valla aveva già affermato che solo gli originali ebraico e greco, e per nulla le loro traduzioni, meritavano il titolo di sacra Scrittura.
Ora, qual è l’attualità di tutto questo? Dal Quattrocento al Novecento la lotta fra la comprensione metafisica e la comprensione storica del cristianesimo non si è mai arrestata. Il modello aristotelico nella logica, nella metafisica, nella teologia è stato sostenuto dalla Chiesa fino all’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (1879), e a essa hanno dato esecuzione nella prima metà del XX secolo varie generazioni di filosofi e di teologi. Tra i filosofi, i nomi più noti sono quelli di Étienne Gilson e di Jacques Maritain.
La lotta contro il modernismo dei primi anni del Novecento era anche, e soprattutto, una lotta contro la cultura storica che, provenendo dalla Germania, era già penetrata in Francia attraverso Renan; mentre alcuni grandi storici, sia cattolici sia protestanti, proclamavano in conferenze e articoli la necessità di questo passaggio dalla metafisica alla storia (i loro errori, che sono indubitabili soprattutto nell’ambito della cristologia, non modificano però la loro esatta comprensione della svolta in corso).
Il concilio Vaticano II è stato inteso da alcuni come il riconoscimento tardivo di questa svolta, e dunque come l’accoglimento, all’interno del cattolicesimo, dell’altissima lezione dell’umanesimo. Nel 1966 Jacques Maritain mascherava la sua delusione riguardo al tomismo (o a un possibile abbandono della scolastica) dicendo che il Concilio era stato «pastorale piuttosto che dottrinale», e che il suo compito storico stava più nell’«orientamento del cuore» che nella definizione dei dogmi (Le paysan de la GaronneUn vieux laïc s’interroge à propos du temps présent, Desclée de Brouwer, Paris 1966).
Vi è poi nell’umanesimo un aspetto, un problema, che può diventare anche un pericolo per il cristianesimo: la riduzione della rivelazione biblica a una dottrina morale, che ci mette in comunicazione con tutti gli uomini, con tutte le culture, e perciò favorisce la pace (in questo senso una cristologia integrale divide, oppone; perciò serve far apparire Gesù – ho in mente, ovviamente il caso di Rousseau – come Catone, come Socrate: un grande saggio dell’antichità).
Quello che Erasmo voleva era un rovesciamento della teologia ufficiale: l’inutilità della teologia scolastica, pensava, si manifesta tanto nella forma quanto nel contenuto, perché tratta di questioni assurde, inutilmente complicate (ne aveva fatto un elenco nel suo Elogio della pazzia) con un linguaggio incomprensibile.
Siamo lontani dalla vita reale, dall’esperienza vissuta della fede. Perciò occorre ritornare ai Vangeli: Gesù e gli apostoli prendevano esempi dalla vita quotidiana, usando un linguaggio accessibile anche alle persone più ignoranti. Erasmo continua quindi la battaglia di Petrarca e di Valla: il nemico da abbattere è il metodo scolastico, non perché vi sia un conflitto tra diverse scuole, le quali al limite potrebbero anche convivere; ma perché occorre scegliere tra un codice artificiale per iniziati e una lingua a misura di tutti gli uomini.
Era una ricerca della pace, certamente; era il tentativo di dare una risposta globale ai problemi del mondo contemporaneo, attraverso il rinnovamento della cultura e la fissazione di un codice morale universalmente condiviso. È qui che emerge, paradossalmente, una possibilità di conflitto, perché la rivelazione cristiana, intesa integralmente come rivelazione di Dio attraverso Cristo, viene necessariamente messa in ombra nell’interpretazione etica del cristianesimo. Discussione, anche questa, che si dipana lungo i secoli per giungere quasi fino a noi, nel confronto fra Erasmo e Lutero e poi, nel primo Novecento, fra il grande storico del cristianesimo Adolf von Harnack e il teologo Karl Barth.
Gli umanisti si abituarono a esercitare la tolleranza verso idee e comportamenti che, in quanto cristiani, non avrebbero potuto accettare, nei quali entravano in contatto e si fondevano concetti pagani e concetti cristiani. Lo spirito della loro ricerca si rifaceva a un certo ottimismo rispetto alla bontà della natura umana, come se in fondo la ragione o la natura, filtrate dalla lettura dei classici, dicessero cose non molto diverse dal cristianesimo.
Non più attraverso la Grecia
Ora è chiaro che procedendo in questo modo, era inevitabile che tutto un aspetto della realtà cristiana (forse addirittura la più importante) restasse in ombra; e bisogna anche dire che questa scelta, cioè questo occultamento, questa apparente dimenticanza, ha fatto poi molta strada, fino alla Rivoluzione francese.
E veniamo ora al documento di papa Francesco, che mi sembra perfettamente in linea con il significato storico dell’umanesimo, benché ovviamente ne rifiuti la riduzione all’etica dell’annuncio cristiano («non vi può essere vera evangelizzazione senza l’esplicita proclamazione che Gesù è il Signore», scrive il papa al n. 110, riprendendo le parole di Giovanni Paolo II; Regno-doc. 21,2013,662).
Ma ciò che collega profondamente all’umanesimo questo testo è la riflessione sul linguaggio, cioè sulla cultura che permette l’elaborazione e la trasmissione della parola biblica: da questo punto di vista il papa è consapevole che le cose cambiano rapidamente e che non ci si può in nessun modo attardare nelle culture del passato.
«Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non s’identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale» (n. 117; Regno-doc. 21,2013,664). Qui, mi sembra, possiamo vedere un progresso anche rispetto alle posizioni di papa Ratzinger, il quale, nel suo discorso di Ratisbona, vedeva la metafisica greca come un passaggio imprescindibile e ormai definitivamente acquisito alla tradizione cristiana (l’avvicinamento tra fede biblica e pensiero greco è «un dato che ci obbliga anche oggi», diceva Benedetto XVI; Lezione di Ratisbona, 12.9.2006; EV 23/2107).
Naturalmente il tema della mediazione culturale è un problema su cui si riflette da più di un secolo, ma che rimane ancora attuale: per tutto il Novecento si è discusso il cosiddetto problema ermeneutico, presso i protestanti e presso i cattolici, e la cosiddetta tematica modernista, benché soffocata un secolo fa nell’ambito del cattolicesimo, non è mai stata veramente risolta.
Ma senza entrare in questioni così complesse, mi sembra che, se vogliamo seguire il papa in una certa «audacia» (parola che usa, pur associandola a «prudenza»), non dovremmo guardare al passato pensando all’umanesimo cristiano. Dobbiamo eliminare dal campo dei possibili, proprio per permettere un nuovo inizio, le guide intellettuali del Novecento, voglio dire i Mounier, Maritain, Blondel, Bernanos, i quali sono stati importanti in una fase che non è più la nostra.
Riproporre il linguaggio denso, aristocratico e sibillino di Blondel a dei poveri studenti (ricordo la battuta di Loisy, secondo il quale Laberthonnière avrebbe dato un contributo «traducendo» Blondel in francese) mi sembra un’inutile cattiveria, ancora praticata nel mondo. Per quanto riguarda il tomismo di Maritain, è chiaro che il suo grande ruolo non può essere prolungato fino al presente; la cultura storica ha sostituito la metafisica, lo abbiamo detto, per cui Étienne Gilson, oppure certi teologi che hanno contribuito al Concilio, come Chenu e Congar, possono risultare più interessanti dello stesso Maritain.
Il Vangelo
e la «notte oscura»
Paradossalmente, il problema di una nuova cultura ci chiede di tornare al Vangelo, cioè – come voleva S. Giovanni della Croce, citato qui implicitamente in una lode del «deserto» – di fare il vuoto dei nostri pensieri, delle nostre concezioni umane; sospendere la produzione di idee, fare silenzio e gettarci nel Vangelo come unica risorsa, unica tavola di salvezza.
È così che sorgerà una nuova cultura. È importante vedere che in questo senso il problema ermeneutico – il problema dell’interpretazione e della trasmissione del testo sacro – non è essenzialmente un problema tecnico; non è, prima di tutto e fondamentalmente, un problema di filologia, di filosofia, di storia. Esso richiede innanzitutto un affidamento allo Spirito di Dio, forse perfino una «notte oscura», un’immersione nel nulla, che rinnova la nostra vita e dunque anche i nostri strumenti critici.
«Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Evangelii gaudium, n. 11; Regno-doc. 21,2013,643).
È poi vero che, se s’intende il concetto di umanesimo con tutti gli arricchimenti che si sono accumulati nel corso della storia, e che sono anche valori cristiani, come la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, qualsiasi riflessione dovrebbe partire dallo scandalo della rovina materiale e morale di tanti popoli, fare di questo problema il centro di ogni discorso.
Da questo punto di vista il testo di papa Francesco mi sembra ancora insufficiente, poiché insiste molto sulla dimensione collettiva del cristianesimo, e sulla nozione di popolo; ma non avanza l’idea – a mio avviso necessaria in molte situazioni contemporanee – di una lotta di popolo, da condurre secondo i metodi della non-violenza.
Il problema di un nuovo umanesimo dovrebbe misurarsi con un cambiamento più o meno radicale dell’economia mondiale; ora, è evidente l’anticapitalismo di papa Francesco, e traspare qua e là anche la consapevolezza (espressa con citazioni di Benedetto XVI) che la critica morale o moralistica è impotente contro il predominio della finanza e della speculazione.
Occorre, egli dice, «eliminare le cause strutturali delle disfunzioni dell’economia mondiale» (Evangelii gaudium, n. 202, nota 173: cita Benedetto XVI, Discorso al corpo diplomatico, 8.1.2007; in AAS 99[2007], 73; EV 24/2), e comunque la Chiesa «non può e non deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia” (n. 183 che cita Benedetto XVI, Deus caritas est, 25.12.2005, n. 28; EV 23/1583). Però quali sono i soggetti che dovrebbero agire? Gli stati, i partiti, le Chiese, gli organismi internazionali (notoriamente impotenti in materia), oppure i singoli individui ai quali si attribuiscono compiti morali?
«L’etica – scrive Francesco – un’etica non ideologizzata, consente di creare un equilibrio e un ordine sociale più umano» (Evangelii gaudium, n. 57; Regno-doc. 21,2013,652). Non è possibile, ritengo, liberare questa nozione allargata di umanesimo dalla connessione storica – formatasi nella Rivoluzione francese, ma valida fino al Novecento – fra la lotta politica, comunque intesa, e la realizzazione di una società più giusta, che provveda ai bisogni fondamentali dell’essere umano.
Oppure vogliamo pensare che l’addestramento morale del finanziere, dello speculatore, del banchiere, i corsi per un’etica dell’impresa, potranno salvare l’umanità dal disastro?
 
1 Il prof. Forni Rosa ha pronunciato questo testo intitolato «Evangelii gaudium. Per un nuovo umanesimo» il 12.10.2014 all’interno dei «Dialoghi sulla fede» tenuti presso la Pieve di S. Pietro in Sylvis a Bagnacavallo (RA). Al testo sono allegati alcuni consigli di lettura dell’autore: G. Forni Rosa, La filosofia cristiana. Alla Società francese di filosofia (1927-1933), Marietti, Milano 2011; Id. «Karl Barth: dal Rousseau romantico alla teologia liberale», in Rivista di teologia dell’evangelizzazione, 17(2013) 33, gennaio-giugno, 241-258; Id., «Antimoderne: le saint Jean-Jacques du premier Maritain», in Rousseau Studies, 2(2013) 1, 115-130, il tema del fascicolo è Antirousseauismes; Id., «Una crisi della coscienza storica: 1896-1904», in Annali di storia dell’esegesi, 31(2014) 1, 115-145.
 
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