COMMEMORAZIONE DI TUTTI I DEFUNTI

Prima lettura: Giobbe 19,1.23-27a

Rispondendo Giobbe prese a dire: «Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia! Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro». 

 

Nella struttura generale del libro di Giobbe il breve tratto della lettura appartiene ai dialoghi tra Giobbe e i suoi amici e forma una parte del sesto poema di Giobbe in cui egli esprime la fede nel Redentore.

     Queste parole, destinate ad essere incise sulla roccia, costituiscono uno dei vertici di tutto il libro. Giobbe esprime la speranza che contraddice tutto ciò che egli ha appreso di Dio come suo accusatore e nemico, e che appare qui quale speranza contro ogni speranza. Giobbe esprime la convinzione ferma, la fede che l’atto finale della dolorosa vicenda che sta sperimentando sarà l’incontro con Dio che starà dalla sua parte.

     Il pensiero è presentato in modo enigmatico con uno stile misterioso, caratteristico dello stile e del vocabolario profetico. Questo testo, che dal punto di vista della critica testuale, della grammatica, della sintassi è uno dei più difficili e oscuri dell’antico testamento, poiché in esso vari termini hanno polivalenza semantica, che può dare luogo a grande diversità di interpretazioni, è famoso nella letteratura religiosa come espressione di fede.

     Diamo alcuni cenni: «il mio redentore è vivo». Il termine redentore indica una situazione giuridica di Israele: essa stabiliva che un membro della famiglia o della tribù era obbligato a rivendicare il diritto di un suo congiunto, pagando una somma per liberare uno schiavo, riscattando un terreno in vendita, uccidendo l’omicida del parente, la legislazione antica non ammetteva compensazione. L’obbligo della vendetta si basava sul legame di solidarietà. Il termine «redentore-goel» fu applicato anche a Dio in quanto vendicatore e difensore del suo popolo, di tutti i suoi membri, specialmente dei piccoli e degli oppressi.

     Giobbe è convinto che Dio o un suo rappresentante gli restituirà i diritti che egli aveva per la sua vita innocente. Il redentore è vivo, cioè possiede la vita come proprietà essenziale, vive e vivrà anche quando Giobbe sarà morto e avrà l’ultima parola, chiuderà la discussione circa la consapevolezza di Giobbe della propria innocenza. Negli ultimi giorni tale redentore si ergerà per pronunciare la sentenza come giudice supremo, come difensore e salvatore. È l’espressione della fede nel Dio vivente che apparirà alla fine dei tempi, libererà dalla morte e manifesterà la sua giustizia. È, in Giobbe, l’attesa della teofania finale.

     L’espressione: «Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro», vera croce degli interpreti, descrivono l’atto decisivo dello sperato esaudimento della preghiera e della giustificazione: essa è come un incontro di Giobbe con Dio cioè una nuova conoscenza di Dio da parte di Giobbe. «Senza la mia carne, vedrò Dio » è affermazione che può avere significato cultuale, equivalente a visitare il tempio, può indicare una teofania o una esperienza del favore divino, il godimento della pienezza della vita nella gioia dell’esaudimento e del ringraziamento. Giobbe è convinto che Dio lo dichiarerà giusto e sarà pienamente riconciliato con lui.

     Riletto alla luce della rivelazione cristiana questo testo esprime la fede e speranza della gioia della vita con Dio nella esistenza risorta. Perciò è stato scelto come lettura per la commemorazione dei defunti.

 

Seconda lettura: Romani 5,5-11

Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

       A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.

 

Il brano della lettera appartiene alla sua prima parte, dottrinale in cui l’apostolo espone il tema della salvezza mediante la fede. Il testo partendo dal suo inizio che tratta della speranza e della carità, indica il fondamento della fede nella salvezza definitiva, che ancora non possediamo.                                                    

     La speranza e la carità: «La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).

     La speranza, che ha origine dalla prova vissuta dai credenti nelle sofferenze, non inganna, perché la certezza di trovarsi ora e per l’avvenire nelle mani di Dio è tale che si distingue radicalmente dalla certezza terrena: questa non è altro che una incertezza mitigata; la speranza invece si fonda sulla fede sicura, quella fede nella realtà inattesa dell’amore di Dio che determina il presente e l’avvenire dei credenti; tale amore di Dio è quello con cui Dio ci ama, e di cui è pegno lo Spirito Santo con la sua attiva presenza nei credenti; in lui Dio ci ama, noi amiamo Dio e amiamo anche i nostri fratelli con lo stesso amore con cui Dio Padre ama il suo Figlio e noi; lo Spirito santo è principio dello stesso amore con cui Dio Padre ama il suo Figlio e noi; lo Spirito santo è principio di vita nuova che Dio ci dona. Con lo Spirito santo Dio ci dona il suo amore per noi e rende possibile il nostro amore per lui e per i fratelli.

     «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,6-10).

     Si ha qui una argomentazione che è anche una spiegazione di quanto è stato detto nel v. 5 sull’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo. L’idea è questa: la speranza non inganna perché lo Spirito di Dio, dato da Dio, produce nei nostri cuori, con la fede, una sovrabbondante certezza di essere amati da Dio; l’amore di Dio si mostra paragonandolo con l’amore che si osserva nei rapporti umani. Ora, nei rapporti umani: «a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto: forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene», mentre «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori. Cristo è morto per noi». Tale argomentazione viene ripetuta sinteticamente: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita». Viene così introdotto l’inno finale.

     Dossologia: «Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione» (Rm 5,11).

     Ciò che è stato detto fin qui ci spinge a ringraziare calorosamente Dio fin da ora. Gloriarsi è un atto che se viene compiuto rettamente, equivale a gloriarsi di Dio, a riconoscere e lodare Dio come causa unica di ogni salvezza; tale vanto può esserci attribuito soltanto «per il Signore nostro Gesù Cristo», cioè attraverso la mediazione del Signore glorificato.

 

Vangelo: Giovanni 6,37-40

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

 

Esegesi

     La lettura evangelica si trova nel capitolo sesto del vangelo di Giovanni. Tale capitolo appare come un dramma in quattro atti. Il primo atto è costituito dal racconto della moltiplicazione del pane (Gv 6,1-15); il secondo dalla venuta di Gesù sulle acque del lago verso i suoi discepoli (Gv 6,16-21); il terzo è il discorso di rivelazione (Gv 6,22-59); il quarto, attraverso la ripresa del parlare di Gesù, presenta l’effetto del suo precedente discorso sugli ascoltatori (Gv 6,60-71). Ciascuna di queste parti può a sua volta venire suddivisa.

     L’articolazione del grande discorso Gv 6,22-58 che occupa il posto centrale nel capitolo si svolge in sette sezioni; la prima introduce l’intero discorso (Gv 6,22-25); la seconda esprime l’esigenza da parte di Gesù di una comprensione più profonda dell’evento della moltiplicazione del pane e manifesta la richiesta da parte dei Giudei di un segno (Gv 6,26-30); la terza è la rivelazione sul pane del cielo, con citazione della scrittura e la interpretazione da parte di Gesù (Gv 6,31-35); la quarta espone la necessità della fede nella rivelazione (Gv 6,36-40); la quinta descrive il mormorare dei Giudei e propone il discorso di Gesù sulla incredulità e sulla fede (Gv 6,41-47); la sesta presenta l’autorivelazione del Signore come pane della vita disceso dal cielo (Gv 6,48-51 ab); la settima contiene le parole sulla carne e sul sangue di Gesù e conclude il discorso (Gv 6,51c-59).

     In questa composizione la quarta sezione, centrale 6,36-40, che costituisce la lettura, presenta una concentrazione di temi sparsi nelle altre sezioni e può essere vista come punto di riferimento sintetico dell’intero discorso.

            «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,37-40).

     Dopo di aver rivelato se stesso come pane della vita disceso dal cielo. Il discorso continua descrivendo e svolgendo il mistero della salvezza nel rapporto tra se stesso, il Padre e gli uomini, che della salvezza sono i destinatari «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori» (6,37). Ecco il concetto di dono espresso con il verbo dare; tale verbo prima di rivelare il rapporto tra Dio Padre e gli uomini, tra Gesù e gli uomini, rivela il rapporto tra il Padre e il Figlio. Il dare del Padre a Gesù è totale e Gesù ne ha piena consapevolezza.

     Il primo dei doni del Padre al Figlio, quello che li inaugura, li preannuncia, li precontiene è il dono dello Spirito (1,32-33), che viene dato senza misura (3,34). I singoli doni sono realtà salvifiche: il dono di essere fonte della vita e di giudicare (5,26-27), il dono delle opere e dell’opera (5,35; 17,4) il dono del comandamento (12,49) e del calice (18,11); il dono di tutto ciò che Gesù chiede al Padre nella preghiera (11,22), infine il dono della gloria (17,24). Il dono più caratteristico del Padre al Figlio è costituito dalle persone da salvare (17,2.6.9.24; 18,11).

     Nel nostro testo l’espressione «tutto ciò che il Padre mi dà», indica gli uomini nell’aspetto di collettività: è l’immagine del gregge dei credenti. L’espressione: «colui che viene a me» è designazione di chi crede in Gesù. Il Signore descrive la propria azione nei confronti del credente in lui con una espressione negativa: «io non lo caccerò fuori»; cacciare indica una esclusione dolorosa di qualcuno da una comunità; Gesù accoglie chi crede in lui e lo salva.

     Gli aspetti positivi dell’accoglienza da parte di Gesù qui non sono esplicitati, essi saranno descritti nel discorso sul rapporto tra il pastore e le pecore e nella preghiera sacerdotale: quelli che vanno a Gesù sono infatti mossi verso il Figlio dal Padre; perciò il Figlio non li respinge ma li accoglie e li custodisce (17,6-15). Osserviamo in questa rivelazione l’uso di una terminologia di movimento spaziale: venire a me, gettare o cacciare fuori, allontanare. Il significato è sempre in relazione a Gesù. Gesù è il centro verso cui tutti devono convergere per ottenere la salvezza.

     Nel mezzo di tutto questo sviluppo sta l’affermazione: «sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (6,38). Vi è rivelata l’origine di Gesù come discesa dal cielo, vi è rivelato lo scopo di tale discesa attraverso la negazione della propria volontà e l’affermazione del compimento della volontà del Padre. Il verbo discendere nel vangelo ha come soggetti principali lo Spirito e Gesù; il cielo, da cui proviene il movimento significato dal verbo «discendere» designa l’ambito di Dio; infatti dopo la preghiera che Gesù rivolge a Dio: «Padre glorifica il tuo nome» (12,28) accade questa risposta: «Venne una voce dal cielo: l’ho glorificato e lo glorificherò di nuovo» (12,28). La voce dal cielo appartiene al Padre. All’inizio del vangelo Giovanni vede «lo spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su Gesù» (1,32-33). Tale provenienza dal cielo dello Spirito manifesta la sua origine dal Padre. Il medesimo verbo designa Gesù; anzitutto come Figlio dell’uomo (3,13), poi come pane vivente (6,33.41.50.51.58). In intimo legame con queste affermazioni su se stesso pane vivente sta la rivelazione assoluta: «Sono disceso dal cielo» (6,42). Il cielo indicando il luogo di origine di Gesù donde egli viene e anche il suo punto di arrivo dove egli va è la designazione concreta di Dio Padre. I due verbi correlativi: discendere-salire sono una forma di manifestazione del mistero del Signore. L’espressione «discendere dal cielo» usata da Gesù per sé rivela il mistero dell’incarnazione del Figlio. La discesa dal cielo di Gesù è il farsi uomo del Figlio di Dio, che in quanto Verbo del Padre, Parola di Dio, è il pane che nutre coloro che lo accolgono con fede.

     Lo scopo dell’incarnazione viene indicato in modo duplice: negando di «fare la mia volontà» e affermando di fare la volontà del Padre. Quale sia la volontà del Padre nel presente testo viene ora dichiarato nelle due affermazioni che seguono le quali si completano a vicenda.

     «E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (6,39-40).

     Dio vi è designato come «colui che mi ha mandato» (6,39) e come «il Padre mio» (6,40). Il verbo «mandare» per lo più ha come soggetto Dio Padre in relazione a Gesù; vi sono due appellativi di Dio, uno completo: «il Padre che mi ha mandato», l’altro che omette il nome Padre: «colui che mi ha mandato». Questa formula della missione rivela l’unione intima tra Gesù e il Padre che lo invia, unione che sta al di sopra di ogni immaginazione umana e mostra Gesù e il Padre collocati in parità nella stessa sfera divina.

     All’espressione negativa: «non perda nulla di quanto egli mi ha dato» (6,39) corrisponde quella positiva: «chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (6,40). Da parte di Gesù «non perdere nulla o nessuno» di quelli che il Padre gli ha dato significa in forma negativa, il valore positivo della salvezza esplicitato con il possesso della vita eterna in 6,40.

La formula «lo risusciterò nell’ultimo giorno» (6,39.40), che conclude ambedue i versetti in modo eguale, manifesta l’aspetto futuro della vita eterna, sono così significati i due momenti dell’escatologia, attualità della salvezza nel presente della vita, compimento e pienezza nel futuro, a partire dall’ultimo giorno.

     Tale è il contenuto della volontà del Padre rivelato qui da Gesù: la salvezza mediante la fede degli uomini nel Figlio, l’accoglienza da parte di Gesù dei credenti in lui, il dono della vita eterna, la risurrezione finale. Tutto questo implica per Gesù l’ora del sacrificio, implica di bere il calice doloroso della passione.

     Questo tratto di vangelo, letto nella commemorazione dei defunti, rivolge il pensiero di fede alla certezza della risurrezione già presente in questa vita con la fede in Gesù, e pienamente compiuta nella vita futura con la partecipazione alla gloria della sua risurrezione. 

                      Meditazione                     

     La speranza e l’invocazione di Giobbe di una comunione con Dio dopo la morte (prima lettura) trova eco nella promessa di Gesù di risuscitare coloro che il Padre gli ha affidato (vangelo). La stessa morte di Gesù, vivificata dall’amore di Dio, è stata fattore di riconciliazione, di vittoria sul peccato, di vittoria della vita sulla morte (seconda lettura).

     «Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi uomini abitiamo una città senza mura». La morte, ricorda Epicuro, pone un sigillo di precarietà e di insicurezza sulla vita umana. E l’insicurezza produce la paura, e la paura schiavizza. Gli uomini, ricorda la lettera agli Ebrei, sono schiavi tutta la vita a causa della paura della morte (Eb 2,15). E sentendoci città senza mura, cerchiamo di costruirci protezioni e difese che, mentre vogliono preservarci da morte in realtà ci allontanano dalla vita. E tanta parte della nostra vita passa in questo inganno. Le parole di Gesù nel vangelo non invitano ad atteggiamenti difensivi e di paura, ma alla fede, ad affidarsi al Signore, a credere in lui. «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (Gv 6,40); e ancora: «Chi crede in me, fosse anche morto, vivrà» ( Gv 11,25); «Chi crede ha la vita eterna» ( Gv 6,47). La fede in Cristo è il luogo della resurrezione.

     Quando la nostra persona si decide a un affidamento al Signore senza riserve, senza nulla da difendere, senza mura e baluardi, allora essa abita lo spazio della resurrezione e conosce l’amore e la speranza, l’audacia e la libertà che Gesù stesso ha vissuto. E Gesù ha vissuto le sue relazioni con gli altri sotto il segno del dono del Padre e del suo personale affidamento al Padre che è divenuto la sua consegna ai fratelli: gli altri sono ciò che il Padre gli ha dato (Gv 6,37.39) e di cui lui assume la responsabilità fino in fondo (Gv 13,1). Affidandosi al Padre egli non respinge da sé chi viene a lui, non rigetta, non si difende dagli altri, ma accoglie. Vivendo il primato della fede nel Padre che l’ha mandato, Gesù vive non per fare la sua volontà, ma la volontà del Padre, che è volontà di vita piena per ogni uomo. Una vita così vissuta, è una vita che integra la morte e la trasforma in amore, che è forza di resurrezione. Se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore è la forza della resurrezione.

     Non vi è solo la paura della morte che ci porta a difenderci, ma anche e soprattutto la paura della vita, delle perdite che il vivere comporta, dei confronti impietosi con gli altri che ci conducono a chiuderci in noi e a vivere nel risentimento, nel timore che gli altri ci possano sottrarre qualcosa. Aver fede in Gesù Cristo significa fare dell’amore il luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita, e anzitutto della vita degli altri. In tutto questo ci vengono in aiuto le esperienze di morte che la vita ci fa fare. L’esperienza del lutto segna lo scacco del narcisismo e rivela la vanità del perseguire la volontà propria, del costruire barriere per difenderci dalla morte che la vita ci potrebbe recare. E ci può aprire, con la sua muta lezione, all’unica cosa necessaria e vitale: credere l’amore, vivere l’amore, fare della vita un atto di amore.

     La logica della resurrezione, espressa nei termini di non perdere nulla e nessuno di quanto il Padre ha dato al Figlio (Gv 6,39), è la logica dell’amore. Quella logica che spesso non è nostra perché noi sappiamo perdere l’altro, le relazioni, i doni ricevuti.

     Una comunità cristiana è fatta anche di una memoria condivisa e le persone che sono morte e che abitano la memoria di ciascuno, e che ciascuno coglie oggettivamente nella fede nel Cristo morto e risorto e porta nell’eucaristia, chiedono di rendere sempre più armonici i rapporti tra le membra del corpo affinché sia l’agape la linfa vitale che percorre e unifica il corpo comunitario e sia la gratitudine l’alveo in cui essa vive. Allora potrà avvenire forse anche a noi di morire nella gratitudine e nella benedizione, dando sostanza cristiana alla bella e antica immagine formulata dall’imperatore filosofo: «L’oliva matura cade benedicendo la terra che l’ha portata in sé e rendendo grazie all’albero che l’ha fatta crescere» (Marco Aurelio).

Preghiere e racconti

La morte non è la conclusione, ma un passaggio

Non dobbiamo rattristarci perché il Signore ha chiamato i nostri fratelli liberandoli da questo mondo; sappiamo infatti che non sono perduti, ma che ci hanno preceduto come usano fare quelli che partono in viaggio per terra o per mare. Dobbiamo provarne nostalgia, non piangere né vestirci con abiti neri dal momento che quelli che sono morti già hanno ricevuto vesti bianche. Non dobbiamo offrire ai non credenti l’occasione di rimproverarci meritatamente, a buon diritto, perché piangiamo come scomparsi e perduti quelli di cui diciamo che vivono presso Dio e non confermiamo con la testimonianza dei sentimenti del nostro cuore quella fede che proferiamo a parole, con la nostra voce. Tradiamo la nostra speranza e la nostra fede; quel che diciamo risulta falsità, finzione, artificio. Non serve a niente mostrare la virtù a parole e con i fatti demolire la verità. […] La morte non è la conclusione, ma un passaggio, un cammino temporaneo verso le realtà eterne.

      Chi non si affretta verso il meglio? Chi non desidererebbe essere trasformato, conformato a Cristo e ammesso alla dignità della grazia celeste? L’apostolo Paolo proclama: «La nostra cittadinanza è nei cieli da dove aspettiamo anche il Signore nostro Gesù Cristo che trasfigurerà il nostro misero corpo conformandolo al suo corpo glorioso» (Fil 3,20-21). E il Signore Cristo promette che questo avverrà anche a noi quando prega il Padre per noi affinché siamo con lui e viviamo nella gioia con lui nelle dimore eterne e nei regni celesti: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano con me dove sarò io e vedano la gloria che mi hai dato prima che il mondo fosse» (Gv 17,24). Chi deve andare nella dimora di Cristo, alla gloria celeste del regno, non deve rattristarsi e piangere ma piuttosto, secondo la promessa del Signore, forte della sua fede nella verità, deve gioire della sua partenza e del suo transito.

(CIPRIANO DI CARTAGINE, La morte 20.22, CCL III A, pp. 27-29).

L’albero generoso

C’era una volta un albero che amava un bambino. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni.

Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arrampicava sul suo tronco e dondolava attaccalo ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti eppoi, insieme, giocavano a nascondino.

Quando era stanco, il bambino si addormentava all’ombra dell’albero, mentre le fronde gli cantavano la ninna-nanna.

Il bambino amava l’albero con tutto il suo piccolo cuore.

E l’albero era felice.

Ma il tempo passò e il bambino crebbe.

Ora che il bambino era grande, l’albero rimaneva spesso solo.

Un giorno il bambino venne a vedere l’albero e l’albero gli disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice».

«Sono troppo grande ormai per arrampicarmi sugli alberi e per giocare», disse il bambino, «io voglio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?».

«Mi dispiace, rispose l’albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio. e va’ a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice».

Allora il bambino si arrampicò sull’albero, raccolse tutti i frutti e li portò via.

E l’albero fu felice.

Ma il bambino rimase molto tempo senza ritornare… E l’albero divenne triste.

Poi un giorno il bambino tornò; l’albero tremò di gioia e disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami e sii felice».

«Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampicarmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa.

Puoi darmi una casa?».

«Io non ho una casa» disse l’albero. «La mia casa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e costruirti una casa. Allora sarai felice».

Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per costruirsi una casa. E l’albero fu felice.

Per molto tempo il bambino non venne. Quando ritornò, l’albero era così felice che riusciva a malapena a parlare.

«Avvicinati, bambino mio», mormorò «vieni a giocare».

«Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare», disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?».

«Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l’albero. «Così potrai andartene ed essere felice».

Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una barca per fuggire. E l’albero fu felice… ma non del tutto.

Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora.

«Mi dispiace, bambino mio», disse l’albero «ma non resta più niente da donarti… Non ho più frutti».

«I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino.

«Non ho più rami», continuò l’albero «non puoi più dondolarti».

«Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami»,disse il bambino.

«Non ho più il tronco», disse l’albero. «Non puoi più arrampicarti».

«Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.

«Sono desolato», sospirò l’albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa… ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto…».

«Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco».

«Ebbene», disse l’albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuole per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».

Così fece il bambino.

E l’albero fu felice.

(Shel Silverstein)

La morte

Il grande esegeta Riesenfeld ha scritto: «Dobbiamo considerare la morte come un tutto suddiviso in diversi momenti; ciò che accade al termine della vita terrena non è che il compimento finale di quanto abbiamo già subito in parte al momento del battesimo. Così, quando un giorno dovremo morire, quel fatto non conterrà niente di veramente nuovo per noi. Per analogia con la vita eterna, la morte, sia quella che è dietro di noi che quella che aspettiamo, riceve la sua impronta da ciò che accade sul Golgota. La morte appare in tutto il suo orrore in quanto giudizio dell’esistenza umana decaduta (cfr. Gv 12,31). Ma proprio allora la morte cessa una volta per tutte di presentarsi come qualcosa di definitivo e senza speranza (cfr. 1 Cor 15,55)» 

Io sono la risurrezione

Trovare una nuova vita attraverso la sofferenza e la morte: è questo il cuore della buona notizia. Gesù ha vissuto questa via di liberazione prima di noi e ne ha fatto il grande segno. Gli esseri umani hanno sempre la smania di vedere segni: eventi meravigliosi, straordinari, sensazionali che li possano distrarre un poco dalla dura realtà… Ci piacerebbe vedere qualcosa di meraviglioso, di eccezionale, che interrompa la vita ordinaria di tutti i giorni. In questo modo, anche se per un solo momento, possiamo giocare a nascondino. Ma a coloro che dicono: «Signore… vorremmo che tu ci facessi vedere un segno», Gesù risponde: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Da tutto questo, si può vedere quale sia il segno autentico: non un miracolo sensazionale ma la sofferenza, la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù. Il grande segno, che può essere compreso solo da coloro che sono disposti a seguire Gesù, è il segno di Giona, il quale volle anche lui fuggire dalla realtà, ma fu richiamato indietro da Dio perché adempisse il suo arduo compito fino in fondo. Guardare la sofferenza e la morte dritto in faccia e attraversarle con la speranza di una nuova vita data da Dio: è questo il segno di Gesù e di ogni essere umano che desidera vivere una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: il segno della sofferenza e della morte, ma anche della speranza di un totale rinnovamento.

(H.J.M. Nouwen, Lettere a un giovane, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 117).

L’amore di Dio è più forte della morte

Anche se Gesù ha contrastato direttamente l’inclinazione umana a evitare la sofferenza e la morte, i suoi discepoli si resero conto che era meglio vivere la verità con occhi aperti che non vivere la loro vita nell’illusione.

La sofferenza e la morte appartengono alla via stretta di Gesù. Gesù non le glorifica, né le dichiara belle, buone o qualcosa da desiderare. Gesù non chiama all’eroismo o al sacrificio suicida. No, Gesù ci invita a guardare la realtà della nostra esistenza, e ci rivela che questa dura realtà è la strada da percorrere per arrivare a una nuova vita. Il nucleo del messaggio di Gesù è che la gioia e la pace non si possono mai raggiungere aggirando la sofferenza e la morte, ma soltanto affrontandole con coraggio.

Potremmo dire che in realtà, non abbiamo alcuna possibilità di scelta. Chi, infatti, sfugge alla sofferenza e alla morte? Eppure c’è ancora una scelta.

Possiamo negare la realtà della vita, o possiamo affrontarla. Se la affrontiamo non da disperati, ma con gli occhi di Gesù, scopriamo che dove meno ce l’aspettiamo, è nascosto qualcosa che sostiene una promessa più forte della morte stessa. Gesù ha vissuto la sua vita con la sicurezza che l’amore di Dio è più forte della morte e che la morte non ha, quindi, l’ultima parola. Egli ci invita ad affrontare la realtà dolorosa della nostra esistenza con la stessa fiducia.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 118).

Preghiera           

Vieni tu da me, Signore,

e allora io potrò venire da te.

Portami a te

e solo allora potrò seguirti.

Donami il tuo cuore

e solo così potrò amarti.

Dammi la tua vita

e allora potrò morire per te.

Prendi nella tua risurrezione

tutta la mia morte

e sii mio,Signore, sii mio

affinché io sia tua in eterno.

(Silja Walter)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

 XXXI COMM. DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI (A)