Matrimonio e “seconde nozze” al Concilio di Trento

Il matrimonio sembra essere divenuto nella Chiesa un segno di contraddizione: se da un lato si esalta il valore del sacramento, la dignità dell’amore coniugale e la bellezza della famiglia, dall’altro si assiste alla drammatica realtà di famiglie distrutte, come pure alla sofferenza di chi vive un matrimonio fallito, spiritualmente e umanamente, che non può essere più ricomposto (1). Forse anche questo è uno dei segni dei tempi che san Giovanni XXIII esortava, oltre che a leggere e ad interpretare, anche ad avere a cuore. Proprio il discorso sui segni dei tempi terminava con una affermazione sorprendente: «La Chiesa non è un museo di archeologia» (2). Radicata nella fede ricevuta dagli apostoli, essa deve saper guardare il presente e proiettarsi nel futuro, per aggiornarsi, per essere vicina agli uomini e rinnovarsi sotto l’azione dello Spirito.

In tale prospettiva è singolare la storia di uno dei decreti più innovativi del Concilio di Trento: quello sul matrimonio, detto Tametsi. Il decreto vieta i matrimoni clandestini, sancisce la libertà del consenso, l’unità e l’indissolubilità del vincolo, la celebrazione del sacramento alla presenza del sacerdote e dei testimoni; impone, inoltre, la trascrizione dell’atto nei registri parrocchiali. Sulla novità e modernità del decreto si è scritto molto, soprattutto per quanto riguarda l’indissolubilità del matrimonio.

Non se ne vuole qui ripercorrere la storia, ma prestare attenzione a un quesito insolito che porta il Tridentino a esprimersi in una direzione inattesa. Nel dibattito sul vincolo matrimoniale, i padri si sono dovuti pronunciare sulla possibilità delle seconde nozze per i cattolici greci dei domini di Venezia, nelle isole del Mediterraneo. Questi avevano forme «singolari» di legami con la comunità degli orientali. All’epoca, i vescovi erano per lo più veneziani e seguivano il rito latino, mentre i sacerdoti del clero locale erano ortodossi. In tali comunità era invalso l’uso, da parte dei vescovi latini, di permettere che i fedeli vivessero secondo i riti ortodossi, salvo la dichiarazione di obbedienza al Papa, che si doveva rinnovare tre volte l’anno. Tra quei riti era in vigore una consuetudine che dava la possibilità di contrarre nuove nozze in caso di adulterio della moglie e che si fondava su una antichissima tradizione. La Chiesa orientale affermava e riconosceva rigorosamente l’indissolubilità del matrimonio; tuttavia, in qualche caso particolare, con il discernimento del vescovo, tollerava un rito penitenziale per coloro che, fallito il matrimonio e non avendo più la possibilità di ricostruirlo, passavano a nuove nozze. Del problema si era parlato al Concilio di Firenze, nel 1439, ma non era stata presa in proposito alcuna decisione (3).

Ecco le principali tappe della discussione tridentina.

 

Il Concilio di Trento (I periodo, 1545-47)

 

La questione appare la prima volta nella Congregazione generale del 15 ottobre 1547 (4). Alcuni teologi affrontano i punti che possono invalidare l’indissolubilità del matrimonio. Qui sorge un quesito, che si riferisce a un caso particolare: se l’infedeltà della moglie possa dare adito a nuove nozze del marito, oppure se chi si risposa dopo aver ripudiato la donna adultera venga a sua volta giudicato colpevole di adulterio (5). Il fondamento è dato dall’interpretazione di Mt 19,9 (la cosiddetta «eccezione», o «precisazione limitativa», qualora ci sia un caso di porneia) (6).

Occorre ricordare anche una Congregazione dei teologi, tenutasi nell’ottobre del 1547, dopo il trasferimento del Concilio a Bologna, dove si raggiunge un accordo generale nel ritenere che il matrimonio non si sciolga con l’adulterio di uno dei coniugi; tuttavia i padri conciliari non sono concordi nell’interpretazione di Mt 19,9 e nel condannare il marito che passi a nuove nozze, dopo aver ripudiato la moglie fornicaria (7).

 

La conclusione del Concilio (1562-63)

Nel 1563, quando si redige il decreto Tametsi sul matrimonio, il caso si ripresenta. Nella Congregazione dei teologi si espongono le ragioni per cui debba ritenersi materia di fede che l’adulterio non sciolga il vincolo matrimoniale. Si alternano a parlare diversi teologi spagnoli e francesi, i quali sostengono unanimemente che, per quanto da Mt 19,9 non si evinca che il Signore abbia vietato le seconde nozze dopo l’abbandono della donna adultera, non è lecito dubitare di ciò che anticamente la Chiesa ha determinato.

Il 20 luglio, nella fase definitiva della formulazione del decreto, vengono distribuiti ai padri conciliari i canoni da approvare, tra cui uno (il sesto, divenuto poi settimo nella redazione finale) che afferma: «Sia anatema chi dice che il matrimonio si può sciogliere per l’adulterio dell’altro coniuge, e che ad ambedue i coniugi o almeno a quello innocente, che non ha causato l’adulterio, sia lecito contrarre nuove nozze, e non commette adulterio chi si risposa dopo aver ripudiato la donna adultera, né la donna che, ripudiato l’uomo adultero, ne sposi un altro» (8).

Nella Congregazione generale si dichiarano contrari al canone alcuni padri; in particolare, gli arcivescovi di Creta e Braga, i vescovi di Genova, Castellaneta e Fünfkirchen adducono la ragione che esso è contro gli orientali e contro l’opinione di Ambrogio (9). Il vescovo di Segovia rileva che alcuni antichi Padri hanno asserito che l’uomo possa risposarsi, in caso di adulterio della donna, dopo aver sciolto il matrimonio (10). Lo ribadisce il vescovo di Alife, che menziona anche sant’Agostino, per il quale è colpa veniale se l’uomo si risposa dopo essere stato abbandonato dalla moglie per adulterio (11). Altri arcivescovi, tra cui quelli di Rossano, di Palermo e di Taranto, si dichiarano favorevoli al canone, ma contrari all’anatema, per rispetto ai Padri, in particolare ad Ambrogio, il quale ovviamente non può essere «scomunicato». Qualche prelato, invece, non dà importanza al fatto che si colpisca Ambrogio, poiché anche un dottore della Chiesa può errare in un caso particolare (12).

 

La richiesta degli ambasciatori veneziani 

Una novità appare nella Congregazione dell’11 agosto, quando viene data lettura di una richiesta degli ambasciatori veneziani (13). L’esordio dichiara solennemente la fedeltà della Serenissima alla Sede Apostolica e la sincera devozione all’autorità del Concilio. Poi una istanza: è inaccettabile la formulazione del canone settimo dell’ultima redazione. Esso crea preoccupazione per i cattolici del regno di Venezia, situati in Grecia e nelle isole di Creta, Cipro, Corcira, Zacinto e Cefalonia, e reca un danno gravissimo, non solo per la pace della comunità cristiana, ma anche per la Chiesa d’Oriente, in particolare per quella dei greci  (Graecorum ecclesia). Questa, benché dissenta in qualche punto dalla Chiesa di Roma, obbedisce ai presuli nominati dalla Sede Apostolica. Ora, per gli orientali è consuetudine, nel caso di adulterio della moglie, sciogliere il matrimonio e risposarsi (fornicariam uxorem dimittere et aliam ducere), ed esiste anche un rito antichissimo dei loro Padri per la celebrazione delle nuove nozze. Tale consuetudine non è stata mai condannata da nessun Concilio ecumenico, né essi sono stati colpiti da alcun anatema, benché quel rito sia stato sempre ben noto alla Chiesa cattolica romana (Romanae et catholicae ecclesiae notissimus). Gli ambasciatori chiedono pertanto che il canone sia modificato, là dove si scomunica chi dice che la Chiesa insegna che il matrimonio non si può sciogliere per l’adulterio di un coniuge e che neppure il coniuge innocente può risposarsi. La richiesta si conclude facendo notare che si va anche contro l’opinione di venerabili dottori.

I Padri a cui ci si riferisce sono almeno tre, che poi vengono citati nella discussione. Innanzitutto Cirillo di Alessandria, il quale, a proposito delle cause di divorzio, afferma che «non sono le lettere di divorzio che sciolgono il matrimonio di fronte a Dio, ma la cattiva condotta dell’uomo» (14). Poi Giovanni Crisostomo, che ritiene essere l’adulterio la ragione della morte reale del matrimonio (15). Infine Basilio, quando parla del marito abbandonato dalla moglie, riconosce che egli può essere in comunione con la Chiesa (il testo presuppone che il marito si sia risposato) (16). 

Si ripropone quindi una nuova formulazione del canone (17): il Concilio rinunci alla condanna della prassi orientale delle nuove nozze per adulterio mediante una norma che per di più è accompagnata dalla scomunica (18).

 

L’argomentazione dei veneziani

Dalla proposta degli ambasciatori veneziani i padri conciliari traggono l’impressione che nei territori greci di Venezia si sia raggiunta una qualche comunione ecclesiale degli orientali con Roma e che i cattolici greci si distinguano solo per alcuni loro riti. Per essi il termine ritus presenta un’accezione più ampia di quella che si dà in Occidente, in quanto comprende anche la celebrazione di nuove nozze in seguito ad adulterio (sempre dopo il discernimento del caso da parte del vescovo e in determinate situazioni). Di qui la richiesta degli ambasciatori.

Si vuole evitare, insomma, che i cattolici presenti nei domini veneziani, che dipendono dai vescovi in comunione con Roma, sia­no colpiti dalla condanna per una prassi antichissima circa il matrimonio: un «rito greco» particolare (19), che però contrasta con l’indissolubilità del matrimonio sancita dal Concilio. Poiché si teme uno scisma, si propone di modificare il canone, in modo che non vengano scomunicati coloro che accettano il rito orientale, ma solo quelli che rifiutano la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio. In tal modo vengono colpiti quanti negano l’autorità del Papa o il magistero della Chiesa, ma non i cattolici greci che li riconoscono.

 

La discussione conciliare

Il dibattito conciliare non è breve e si protrae, con varie tappe, da agosto a novembre. Nella discussione interviene il cardinale di Lorena, Charles de Guisa, che introduce, nella formulazione dei veneziani, un particolare importante: «secondo le Scritture» (iuxta Scripturas), nel senso che, per la Chiesa, la dottrina della indissolubilità del matrimonio si fonda sulla rivelazione (20). Altri interventi palesano che la maggior parte dei padri conciliari è d’accordo sul non censurare la prassi della Chiesa greca. Si tratta di una antica tradizione locale.

Il vescovo di Ostuni sostiene chiaramente che si dovrebbe esplicitare meglio la particolarità della consuetudine, e che comunque non era, e non è, tradizione comune a tutta la Chiesa (21).

Interessante, a tale proposito, è l’intervento dell’arcivescovo Pedro Guerrero di Granada: è chiaro che sono proibiti dalla Bibbia sia il divorzio, sia le seconde nozze per adulterio dell’altro coniuge, ma non si evince dalla Scrittura che il matrimonio così contratto sia invalido. Egli porta l’esempio dei voti semplici, i quali rendono illecito contrarre matrimonio, ma non lo invalidano. Del resto, come avrebbero potuto i Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, nonché i sinodi di Elvira, di Arles e di Toledo, tollerare un nuovo matrimonio del marito dovuto all’adulterio della moglie? Il prelato andaluso accetta la proposta degli ambasciatori veneziani circa la stesura del canone, è contrario all’aggiunta del cardinale di Lorena (22) e propone anche altre due formulazioni del canone settimo, la seconda delle quali afferma: «Se uno dice che la chiesa ha errato quando proibisce di sposare un’altra donna a causa della fornicazione (propter fornicationem), sia scomunicato». Tra le varie testimonianze patristiche egli adduce Ambrogio, Teofilatto, Epifanio, Cromazio, Crisostomo, Ilario, Tertulliano, Basilio e Gregorio. Il Concilio deve quindi parlare chiaramente di indissolubilità del matrimonio, ma pure affermare che questa non può essere ritenuta parte costitutiva della rivelazione (23).

Anche il vescovo di Segovia interviene per documentare come nella Chiesa antica si fosse diffusa la pratica di nuove nozze in caso di adulterio. Per esempio, in Africa al tempo di Tertulliano, nella Gallia con Ilario di Poitiers, in Spagna ai Concili di Toledo. Anzi, allora alcuni dottori della Chiesa ritenevano che il divorzio fosse concesso per cause meno rilevanti dell’adulterio (24). Si noti, tuttavia, la ragione di fondo che anima questi prelati: lungi dal voler introdurre il divorzio, essi desiderano che si definisca l’indissolubilità del matrimonio e si censuri con la scomunica la sua negazione.

Contro di loro si solleva un piccolo gruppo che non riconosce la validità delle testimonianze addotte per una nuova formulazione del canone settimo e vuole mantenerlo tale e quale, perché non si pensi che sia solo di diritto canonico e non di diritto divino (25). Il vescovo di Barcellona afferma che, se si vuole andare incontro ai greci, non si deve però nascondere in nessun modo la verità, e cioè l’indissolubilità del matrimonio (26). Il vescovo di León cita testi di Clemente Alessandrino e di Basilio contro la tradizione greca: la donna, allontanata per fornicazione, deve riconciliarsi con il marito; e la testimonianza di Ambrogio sembra essere falsa (27). Il passo di Gregorio poi va inteso bene, perché si riferisce alla moglie malata, che era tale anche prima di contrarre il matrimonio; altrimenti sarebbero in molti a poter chiedere questo tipo di annullamento (28). Il vescovo di León era stato professore all’università di Alcalá e nelle sue memorie annota che, nell’università di Parigi, un decano era stato costretto a ritrattare «la tesi della dissoluzione del matrimonio per causa di adulterio» (29).

Alla fine, sono 97 i voti che esprimono il consenso agli ambasciatori veneziani e ne approvano la petizione, contro gli 80 contrari alla prassi orientale, ma divisi nelle loro ragioni (30). Ciò non significa che la maggioranza dei padri voglia mettere in questione l’indissolubilità del matrimonio: si intende solo discutere la forma della condanna. Rimane fermo il canone quinto, con le ragioni contro il divorzio.

Nella sessione solenne dell’11 novembre, tuttavia, il primate di Cipro, l’arcivescovo Filippo Mocenigo, fa mettere agli atti del Concilio la professione di fede di un sinodo provinciale del 1340, in cui i vescovi orientali, con le loro comunità, accettano il primato del Papa, confessano la Chiesa di Roma quale mater omnium fidelium et magistra e chiedono umilmente che sia «loro permesso di continuare a vivere secondo i loro riti, che non si scostano dalla fede» (31). Tali «riti» comprendono anche la concessione delle seconde nozze in seguito ad adulterio. Queste ultime parole si ritrovano nella proposta degli ambasciatori veneziani di riformulazione del canone

 

La prassi orientale e l’eccezione del Vangelo di Matteo 

La prassi orientale si fonda sulla precisazione limitativa di Mt 5,32 e 19,9: «eccetto in caso di porneia»: ad essa si riferiscono implicitamente gli ambasciatori veneziani.

A questo punto occorre chiedersi che cosa intendano i veneziani e i padri conciliari per porneia, e poi quale sia il significato della traduzione latina, fornicatio e uxor fornicaria.

Sul significato di porneia si sono versati fiumi d’inchiostro. Si è data al termine una gamma di significati vastissima che va da fornicazione, prostituzione, concubinato, adulterio, impudicizia, fino a impedimento matrimoniale, incesto, omosessualità, sodomia ed altro ancora (32). Al Concilio i padri sostengono l’interpretazione rigorosa data da Agostino di Mt 5,32 e 19,9: in caso di adulterio è ammessa solo la separazione dei coniugi. Altri padri conciliari, invece, affermano che i testi di Matteo non sono chiarissimi e si possono interpretare diversamente. Tuttavia, in Occidente si è formata una tradizione giuridica che rifiuta qualsiasi dissolvimento del vincolo matrimoniale: al Concilio, il teologo Pedro de Soto ne riassume la storia in modo eccellente (33). In ogni caso, porneia è in relazione con porn?, che significa «prostituta», e con porneu?, cioè «prostituir­si», «esercitare la prostituzione», e quindi il nome indica propriamente «prostituzione», e più in generale «fornicazione, impudicizia, lussuria» (34). Quanto al passo di Matteo, va tenuto presente che il suo autore scrive il Vangelo per gli ebrei che conoscono la Torah, e quindi la resa in greco del termine ebraico è verosimilmente attendibile. Che porneia traduca l’ebraico z?nût, cioè «prostituzione», ha più conferme: un frammento del libro di Tobia (in particolare 8,7) ritrovato a Qumran e il Codice di Damasco VIII,5 e XIX,17, dove z?nût è tradotto in greco porneia (35). Si tratterebbe di una trasgressione delle leggi del matrimonio, nel senso che un matrimonio viene giudicato illegittimo per ragioni antecedenti o successive alla sua stipulazione (per esempio, l’unione con una prostituta, con una donna straniera, con un’adultera ecc.), e quindi i rapporti coniugali sono dichiarati reato e perciò illegittimi.

Va tenuto presente che in greco «adulterio» si dice moicheia, e che alcuni termini che si possono tradurre materialmente nelle lingue moderne vanno riferiti al loro contesto storico. Per esempio, pallakeia, che si traduce con «concubinato», indica «piaceri sessuali» non meglio specificati; in ogni caso, tali significati non sarebbero inclusi in porneia. Scrive un esegeta odierno: «Dovrebbe essere ormai chiaro che, in questo ambito linguistico tecnico-giuridico, una cosa è “adulterio” (ni’?pîm/moicheia), altra cosa “prostituzione” (z?nût/porneia). Queste due coppie di termini designano entrambe rapporti sessuali illegittimi; ma la prima quelli avuti con la moglie altrui, la seconda quelli avuti con la moglie propria “che non è secondo la Legge”. Tra i due reati esiste un punto di connessione: l’“adulterio” (reale o presunto) della propria moglie legittima trasforma costei in moglie illegittima e rende “prostituzione” i rapporti sessuali che suo marito intrattenga con lei» (36). Si noti pure che con il termine porneia non si intende una trasgressione avvenuta occasionalmente, ma reiterata con frequenza. Quindi l’eccezione di Matteo riguarderebbe un matrimonio che non è secondo la Legge (37). 

Ma nel contesto specifico di Trento, che cosa comprendono i Padri conciliari per uxor fornicaria? E in particolare, che cosa chiedono i greci che reclamano il mantenimento delle loro tradizioni e del rito delle seconde nozze? Al Concilio, per il teologo Pedro de Soto il concetto di fornicatio è parallelo a quello di adulterio, ed egli lo conferma citando Origene, secondo cui alcuni vescovi hanno permesso – permiserunt – nuove nozze in seguito ad un adulterio, benché nella Chiesa agli adulteri non fosse consentito in nessun modo di risposarsi (38). Il Demochares, già rettore della Sorbona, per porneia intende «fornicazione e adulterio». Anche gli ambasciatori veneziani, nel riformulare il canone, parlano più volte di adulterio. L’arcivescovo di Granada, invece, intende «fornicazione».

Qui entra in gioco il citato canone settimo: «Se qualcuno dirà che la Chiesa sbaglia quando ha insegnato e insegna, secondo la dottrina del Vangelo e degli apostoli, che il vincolo (39) del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio di uno dei coniugi; che nessuno dei due, nemmeno l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio, può contrarre un altro matrimonio, vivente l’altro coniuge; che commette adulterio il marito che, cacciata l’adultera, ne sposi un’altra, e la moglie  che, cacciato l’adultero, ne sposi un altro, sia anatema» (40). La formulazione è singolare, in quanto da un lato condanna la dottrina di Lutero e dei riformatori che disprezzavano la prassi della Chiesa sul matrimonio (41), dall’altro lascia impregiudicate le tradizioni dei greci che, nel caso specifico, tollerano le nuove nozze. Qui appare una correzione importante rispetto alla precedente stesura: non si dice «il matrimonio», ma «il vincolo del matrimonio». Il canone tratta solo della indissolubilità interna del matrimonio, cioè del fatto che il matrimonio non si scioglie ipso facto, né per l’adulterio di uno dei coniugi, e nemmeno quando i coniugi decidono in merito a questo, secondo la propria coscienza. Inoltre, il Concilio non dice nulla circa la questione se la Chiesa abbia o meno la possibilità di pronunciare una sentenza di scioglimento del vincolo (si tratterebbe della «indissolubilità esterna» del matrimonio). In tal modo il canone rispetta la prassi degli orientali, i quali, pur affermando e riconoscendo l’indissolubilità del matrimonio, non ammettono che siano i coniugi a decidere personalmente del loro vincolo matrimoniale; gli orientali, tuttavia, dopo un discernimento da parte della Chiesa e una pratica penitenziale, consentono le nuove nozze (42).

È chiaro che nel linguaggio del Concilio il significato di uxor fornicaria va oltre quanto detto nell’«eccezione» matteana, ma i padri conciliari non si impegnano nella questione esegetica, lasciandola aperta. Va notato invece che essi sostengono una parità di trattamento per l’infedeltà dell’uomo e della donna, contro il costume antico che era più tollerante verso l’uomo che verso la donna.

 

La Chiesa antica

Ma che cosa si intendeva nella Chiesa antica per «indissolubilità»? Nei primi secoli essa contrapponeva alla legge civile, che considerava legittimo il ripudio e il divorzio, l’esigenza evangelica di non infrangere il matrimonio e di osservare il precetto del Signore «di non dividere ciò che Dio ha unito». Tuttavia anche al cristiano poteva accadere di fallire nel proprio matrimonio e di passare a una nuova unione; questo peccato, come ogni peccato, non era escluso dalla misericordia di Dio, e la Chiesa aveva e rivendicava il potere di assolverlo. Si trattava proprio dell’applicazione della misericordia e della condiscendenza pastorale, che tiene conto della fragilità e peccaminosità dell’uomo. Tale misericordia è rimasta nella tradizione orientale sotto il nome di oikonomia (43): pur riconoscendo l’indissolubilità del matrimonio proclamata dal Signore, in quanto icona dell’unione di Cristo con la Chiesa, sua sposa, la prassi pastorale viene incontro ai problemi degli sposi che vivono situazioni matrimoniali irrecuperabili. Dopo un discernimento da parte del vescovo e dopo una penitenza, si possono riconciliare i fedeli, dichiarare valide le nuove nozze e riammetterli alla comunione (44).

Forse potrebbe aver contribuito a una tradizione così tollerante l’interpretazione del comando del Signore sulla indissolubilità (Mt 19,4-6), intesa come una norma etica ideale verso cui il cristiano deve continuamente tendere e non come una norma giuridica (45). Del resto nella Chiesa dei primi secoli, che considerava l’adulterio uno dei peccati più gravi insieme all’apostasia e all’omicidio, i vescovi avevano il potere di assolvere tutti i peccati, anche quelli relativi all’infedeltà coniugale e alla conclusione di una nuova unione (46).

La Chiesa sembra non essere mai intervenuta esplicitamente contro la prassi degli orientali. In verità, nel Concilio di Firenze, la questione venne sollevata dal Papa Eugenio IV, dopo che, il 6 luglio 1439, era stato firmato il decreto di unione con gli orientali. Egli voleva precisare con i vescovi che non erano ancora andati via alcuni punti, uno dei quali riguardava la prassi dello scioglimento del matrimonio e delle nuove nozze. I padri orientali si dichiararono incompetenti a rispondere e non autorizzati a precisare alcunché, senza prima aver consultato l’imperatore e gli altri vescovi. Per quel che concerneva la loro opinione, tali quesiti erano in quel momento inopportuni, perciò essi avrebbero continuato a fare ciò che era giusto, poiché non si dirimevano matrimoni senza una valida ragione (47).

 

Conclusione

La pagina del Concilio di Trento che si è illustrata sembra essere stata dimenticata dalla storia. Di solito non viene menzionata. Ed è eloquente, nei diari del Concilio pubblicati accanto agli Acta, il silenzio degli stessi segretari, sempre presenti, scrupolosi, rigorosi nel documentare ogni episodio. Questa pagina tuttavia manca. Una damnatio memoriae? Oggi appare singolare che al Concilio in cui si afferma l’indissolubilità del matrimonio non si condannino le nuove nozze per i cattolici della tradizione orientale. Eppure questa è la storia: una pagina di misericordia evangelica per quei cristiani che vivono con sofferenza un rapporto coniugale fallito che non si può più ricomporre; ma anche una vicenda storica che ha palesi implicazioni ecumeniche.

 Giancarlo Pani S.I.

Note

1 Cfr W. Kasper, Il vangelo della famiglia, Brescia, Queriniana, 2014; A. Grillo, Indissolubile? Contributo al dibattito dei divorziati risposati, Assisi, Cittadella, 2014; Congregazione per la dottrina della fede, Sulla pastorale dei divorziati risposati, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1998; P. Fransen, «Divorzio in seguito ad adulterio nel Concilio di Trento (1563)», in Concilium 5 (1970) 113-125.   

2 Omelia di Giovanni XXIII, il 13 novembre 1960, nella basilica di San Pietro, nella solenne liturgia in rito bizantino-slavo, in onore di san Giovanni Crisostomo.

3 J. Gill, Il Concilio di Firenze, Firenze, Sansoni, 1967, 353 s.

4 Concilii Tridentini (= CT) diariorum, actorum, etc. VI, Friburgi Br., Herder & Co., 1950, 534.

5 An qui aliam duxerit dimissa fornicaria meccetur (CT VI, cit., 534); cfr A. C. Jemolo, Il matrimonio nel diritto canonico. Dal Concilio di Trento al Codice del 1917, Bologna, il Mulino, 1993 (or. 1941), 48.

6 Patres non convenerunt ob varios intellectus cap 19,9 Matthei, quia, licet omnes assererunt matrimonii vinculum non dissolvi, tamen, an qui aliam duxerit dimissa fornicaria meccetur, patres fuerunt varii propter verba Christi in supradicto loco et multas doctorum auctoritates. Res indecisa relinquitur (CT VI, cit., 534). Nel dibattito del 7 novembre si nominano esplicitamente il rito dei Greci, degli Armeni e le opinioni di alcuni Padri, qui propter dictas causas etc. permissive enim intelliguntur at per consequens non videntur anathemate feriendi, cum non dicant ea esse licita, sed permissa (ivi, 537 s).

7 CT I, Friburgi Br., B. Herder, 1901, 710.

8 CT IX, Friburgi Br., Herder & Co., 1924, 640.

9 Si tratta in realtà dell’Ambrosiaster, il commento all’epistolario paolino, una volta attribuito ad Ambrogio; da Erasmo in poi se ne è scoperta la falsa attribuzione.

10 CT IX, cit., 644; 650; 652; 656 s; 665; CT III/1, Acta del cardinal G. Paleotti, Freiburgi Br., Herder & Co., 1931, 696 s.

11 CT IX, cit., 675: Agostino, s., De fide et operibus 19. Ma l’arcivescovo di Rossano ha mostrato che il passo di Agostino si può interpretare anche in modo opposto sulla base di altre opere (ivi, 646).  

12 CT IX, cit., 645 s; 651; 656 s; 664; CT III/1, cit., 696 s; 702.

13 CT IX, cit., 686.

14 PG 72, 380D: Non enim repudii libellus apud Deum matrimonium solvit, sed mala agendi ratio; cfr B. Petrà, Divorzio e nuove nozze nella tradizione greca. Un’altra via, Assisi, Cittadella, 2014, 113-115.

15 PG 61, 154 s; cfr H. Crouzel, L’église primitive face au divorce. Du premier au cinquième siècle, Paris, Beauchesne, 1971, 195-201.

16 PG  32, 727 e 732: Ep. 2 ad Anfilochio, cap. 35 e 48; il termine è syngn?m? [dignus venia], perché possa comunicarsi nella Chiesa; cfr C. Vogel, «La législation actuelle sur le fiançailles, le mariage et le divorce dans le royaume de Grèce», in Istina 7 (1961-1962) 174, nota 148, per il quale il passo di Basilio non è così chiaro da fondare una ragione di divorzio.

17 «Se qualcuno dirà che la sacrosanta romana Chiesa cattolica e apostolica, che è maestra di tutte le altre, ha sbagliato o sbaglia quando ha insegnato e insegna che il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio dell’altro coniuge, e che l’uno e l’altro coniuge, o almeno quello innocente, che non ha causato l’adulterio, non possa contrarre un nuovo matrimonio, vivente l’altro coniuge, e che commette adulterio chi, dopo il ripudio dell’adultera, sposi un’altra, e così pure la donna che, dopo il ripudio del marito adultero, sposi un altro, sia anatema» (CT IX, cit., 686).

18 Ivi; S. Ehses, nell’edizione critica, nota che nei diari del Massarelli, il meticoloso segretario del Concilio, non si fa parola della petizione e, a suo parere, intenzionalmente (ivi, nota 3).

19 Cfr A. Palmieri, Il rito per le seconde nozze nella Chiesa Greco-Ortodossa, Bari, Ecumenica, 2007.

20 CT IX, cit., 687.

21 Ivi, 790.

22 Ivi, 688.

23 Ivi, 689: nell’edizione critica si danno in nota i testi dei Padri.

24 Ivi, 709.

25 Ivi, 721 s.

26 Ivi, 731: absque occultatione veritatis.

27 Ivi: falsa, in quanto si tratta dell’Ambrosiaster.

28 Ivi, 721.

29 H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, IV/2, Il terzo periodo e la conclusione. Superamento della crisi per opera del Morone, chiusura e conferma, Brescia, Morcelliana, 20102, 160.

30 CT IX, cit., 747; cfr A. C. Jemolo, Il matrimonio nel diritto canonico, cit., 50.

31 CT IX, cit., 973: Petentes humiliter, quod eis liceret, in suis ritibus, fidei non contrariis, permanere. 

32 Cfr C. Marucci, Parole di Gesù sul divorzio. Ricerche scritturistiche previe ad un ripensamento teologico, canonistico e pastorale della dottrina cattolica della indissolubilità del matrimonio, Brescia, Morcelliana, 1982.

33 CT IX, cit., 409 s.

34 F. Hauck – S. Schulz, πóρνη, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, X, Brescia, Paideia, 1447-1488.

35 Cfr Tb 8,7: «Non per prostituzione io prendo questa mia sorella, ma secondo verità»; si veda il commento del testo in A. Tosato, «Su di una norma matrimoniale 4QD», in Id., Matrimonio e famiglia nell’antico Israele e nella Chiesa primitiva, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2013, 203 s. La porneia che Tobia dice di evitare non è una generica «lussuria», ma l’insieme delle trasgressioni della legge matrimoniale. Perciò egli dice di sposarla «secondo verità», e non per «prostituzione  [= z?nût/porneia]». 

36 A. Tosato, «Su di una norma matrimoniale 4QD», cit., 206, nota 39.

37 La traduzione Cei del 2008 riporta in modo preciso l’eccezione sia in Mt 5,32 sia in 19,9: «… eccetto in caso di unione illegittima».

38 CT IX, cit., 409. Cfr Origene, In Matth 19,23: Iam vero contra Scripturae legem, mulieri vivente viro nubere quidam Ecclesiae rectores permiserunt, agentes contra id, quod scriptum est: «Mulier alligata est» etc. [1 Cor 7,39] (PG 13,1246).

39 Corsivo nostro.

40 CT IX, cit., 760; H. Denzinger – P. Hünermann, Enchiridion Symbolorum, Bologna, Edb, 200940, 738; si veda in loco la nota 1 al n. 1807. Vi allude Pio XI nell’enciclica Casti Connubii del 31 dicembre 1930.

41 Lutero sosteneva che né il Papa né i vescovi erano competenti in materia di matrimonio: cfr De captivitate Babylonica Ecclesiae praeludium, Weimar, Hermann Böhlau, 1888, 550-560.

42 In Oriente, in linea di principio, le seconde nozze sono concesse dal vescovo solo al coniuge che non è responsabile del fallimento del matrimonio, dopo un processo canonico o civile e un lasso di tempo di almeno un anno. Va detto che il rito per le seconde e terze nozze è più un rito penitenziale che una benedizione, ma consente in seguito di ricevere l’Eucaristia. Occorre ricordare che la Chiesa ortodossa è sempre stata severissima nei confronti delle quarte nozze. La condanna si basa su un’omelia di san Gregorio di Nazianzo, che dichiara lecite le prime nozze, tollerate le seconde, illegali le terze, «costume da porci» le altre (cfr PG 36,292). 

43 Per oikonomia si intende l’ordine salvifico di Dio, il Padre che ha a cuore i suoi figli, e insieme una pastorale che si modelli sulla lode resa all’amministratore (oikonomos) della Chiesa pieno di misericordia (cfr Lc 16,8), che incarna lo spirito del vero Pastore, il quale conosce e chiama ciascuno per nome e, se una pecora si smarrisce, lascia le novantanove nell’ovile in cerca dell’unica pecora smarrita, finché non la ritrovi (Mt 18,12-13; Lc 15,4-6). Cfr B. Häring, Pastorale dei divorziati, Bologna, Edb, 2013 (or. 1989), 51-63.

44 Cfr B. Petrà, Divorzio e nuove nozze nella tradizione greca. Un’altra via, cit., 129-135.

45 Cfr N. Van Der Wal, «Aspetti dell’evoluzione storica nel diritto e nella dottrina. L’influenza del diritto profano sulla concezione ecclesiastica del matrimonio nell’oriente», in Concilium 6 (1970) 869-875, in particolare 874.

46 Cfr G. Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Roma, Aracne, 2013 (or. 1977), 265-361.

47 Cfr I. Gill, Concilium Florentinum. Documenta et Scriptores, V/2, Roma, PIO, 1953, 468-471.

 

© Civiltà Cattolica pag.19-32