Prima lettura: Numeri 21,4b-9
In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita. |
La pericope giovannea ha fatto cenno al famoso episodio, verificatosi nel deserto e narrato in Nm 21. Non è un testo di facile comprensione, a causa di questa menzione dei serpenti e per il fatto che un serpente diventa poi il mezzo di salvezza dal morso velenoso. Seguendo il racconto, nel v. 4 si dice che gli ebrei partirono dal monte Cor e si diressero verso il Mar Rosso, per aggirare il paese di Edom: con questa traccia, possiamo dedurre che essi si trovassero nella regione settentrionale della penisola del Sinai, nella zona di Aqaba. Il popolo risentì della pesantezza del cammino, che fu all’origine della protesta riportata nel v. 5. In realtà, gli ebrei non erano nuovi al lamento e alla protesta, per cui Dio inviò dei serpenti velenosi (v. 6), che il testo ebraico chiama hannechashîm hasseraphîm, alla lettera «serpenti brucianti». In seguito al pentimento del popolo, Mosè s’interpose come intercessore (v. 7) tra esso e Dio, il quale ordinò al legislatore d’Israele il rimedio (vv. 8-9): neutralizzare i serpenti con l’immagine di un serpente.
La chiave del senso del racconto è certamente nel significato da dare alla figura del serpente, che poteva avere nell’antichità un valore apotropaico (di scongiuro del male), di culto dei serpenti (forse praticato anche nel tempio di Gerusalemme prima dell’esilio babilonese, cf. 2Re 18,4) o, persino, di divinazione (la radice della parola ebraica nachash, serpente, ha anche il senso di divinare). Un’interpretazione «spirituale» è quella che troviamo nel Libro della Sapienza: «Quando infatti li assalì il terribile furore delle bestie e perirono per i morsi di tortuosi serpenti, la tua collera non durò sino alla fine. Per correzione furono spaventati per breve tempo, avendo già avuto un pegno di salvezza a ricordare loro i decreti della tua legge. Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti. Anche con ciò convincesti i nostri nemici che tu sei colui che libera da ogni male […]. Invece contro i tuoi figli neppure i denti di serpenti velenosi prevalsero, perché intervenne la tua misericordia a guarirli. Perché ricordassero le tue parole, feriti dai morsi, erano subito guariti, per timore che, caduti in un profondo oblio, fossero esclusi dai tuoi benefici» (16,5-8.10-11).
Seconda lettura: Filippesi 2,6-11
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre. |
L’inno della lettera ai Filippesi è tra i più noti testi del Nuovo Testamento, e rappresenta un momento di alta comprensione del mistero di Cristo. Al centro dell’inno si trova la menzione della croce, la quale segna il passaggio alla glorificazione. Tuttavia, la croce non sarebbe stata possibile senza l’obbedienza del Figlio, che si manifesta, per così dire, per gradi. Infatti, il testo insiste molto sulla «provenienza» di Gesù, che scende dal cielo, ossia si distacca (prendiamo le parole nel loro senso «spaziale») dalla sfera trascendente e, pur conservando la sua personalità divina, assume la carne umana. Egli non ritenne, dunque, la propria uguaglianza con Dio un ostacolo alla sua incarnazione, la quale costituiva, comunque, un «impoverimento» per lui, ma un arricchimento per noi («Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà»; 2Cor 8,9). Gesù, poi, avendo spogliato se stesso per assumere la condizione umana, che l’apostolo chiama «servile», condusse fino alle estreme conseguenze la sua obbedienza, al punto da morire non con una morte qualsiasi, ma più infamante, ossia sulla croce.
Tale obbedienza, che sulla croce fa rifulgere il grande amore che il Figlio nutre per il Padre, viene da questi «ricompensata» con la glorificazione, l’esaltazione sopra tutti gli esseri celesti, terreni e sotterranei, sicché tutto e tutti devono piegare il ginocchio, sottomettersi, davanti al Cristo, che è testimone fedele della gloria rivelatrice e salvifica di Dio Padre.
Vangelo: Giovanni 3,13-17
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». |
Esegesi
Il testo evangelico di questa festa fa parte del dialogo svoltosi tra Gesù e Nicodemo. Quest’ultimo, al v. 9, chiede come sia possibile rinascere, così come dice il testo greco, anothen — avverbio che vuol dire «di nuovo» e «dall’alto» —, ricevendo da Gesù un rimprovero, perché non si vuole accogliere la sua testimonianza, che proviene da chi, quale unica persona vivente sulla terra, è disceso dal cielo. Bisogna ammettere che, per chiarire in maniera esaustiva il senso dei versetti del brano di questa festa, si rivela opportuno dare uno sguardo a quelli precedenti, a partire dal v. 11, dove Gesù sottolinea che il suo parlare deriva dall’aver veduto, azione per la quale diventa un testimone affidabile.
Purtroppo, la sua testimonianza non è accetta, al punto tale da non volerlo ascoltare nemmeno se parla di cose della terra. Il passaggio logico del v. 12, infatti, è importante: come può Gesù parlare di cose del cielo, dal momento che gli si nega credibilità se si riferisce alle cose della terra, che di quelle del cielo sono «segno»?
Dunque, il punto di partenza sta in questa sorta di parallelismo tra la terra e il cielo, che esprime la condiscendenza divina nella rivelazione: si parla delle cose della terra «per analogia» a quelle del cielo, affinché quest’ultime siano più chiare. Un ultimo particolare richiama la nostra attenzione: nel v. 11 Gesù usa il plurale «noi parliamo», contrapposto a un «ma voi non accogliete». Nel «noi» è da vedere Gesù che associa anche la comunità dei credenti alla sua testimonianza, rispetto al «voi» di coloro che rifiutano oltre alla sua rivelazione, anche la testimonianza dei credenti.
Tale rapporto prosegue nei vv. 13-15: da una parte c’è la terra, rappresentata dall’avvenimento del «salire al cielo» e da quanto Mosè fece nel deserto, quando innalzò il serpente; dall’altra il cielo, richiamato dal «discendere dal cielo» e dal Figlio dell’uomo che è innalzato. La sottigliezza del ragionamento giovanneo non ci deve sfuggire: Gesù allude ad un fatto non ancora avvenuto, ossia l’ascensione, come se già fosse stato realizzato, perché la comunità «post-pasquale» rilegga insieme all’evangelista l’insegnamento della sua vita pubblica alla luce del mistero di Pasqua, per cui nessuno, al di fuori del Figlio dell’uomo, può «ascendere» al cielo se non vi è disceso per incarnarsi; allo stesso modo, un fatto già avvenuto, Mosè che innalza il serpente nel deserto, ne richiama un altro, già presente alla mente dei credenti, ma non realizzato ancora da un Gesù durante la sua vita pubblica, ossia il Figlio dell’uomo innalzato. Benché la sua esperienza sia irripetibile e non confrontabile con alcun’altra, in tutto questo complesso di avvenimenti è coinvolto anche il popolo dei credenti, venuti dopo di lui ma anche prima di lui, come l’accenno a Mosè lascia presagire.
Se i vv. 13-14 hanno in estrema sintesi colto il nocciolo del rapporto tra terra e cielo, per cui Gesù, il Figlio dell’uomo, emerge ancora di più quale centro della creazione (Gv 1,3: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui») e della storia (il mistero pasquale), a maggior ragione questo si manifesta nel giudizio, che il v. 15 accenna: «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». La parola «giudizio», per la verità, fa parte di quei vocaboli che poco piace alla nostra mentalità moderna, ma quello che ci consola è che il Vangelo insiste primariamente sulla dimensione positiva, il dono della vita eterna, come frutto della salvezza. Perciò, l’evangelista riprende quella che potrebbe essere una formula kerigmatica molto efficace, dove si riassume il traboccante amore di Dio Padre per l’umanità, che si spinge al punto da «dare» il suo Figlio unigenito, per chiamare alla fede e alla salvezza gli uomini e, così, farli entrare nella pienezza della vita, quella eterna.
Anche se finora non abbiamo mai pronunciato la parola «croce», tuttavia essa fa da sfondo a tutto quanto è stato detto: che cosa prefigura il serpente innalzato su di un’asta da Mosè nel deserto? A che tipo di morte si riferisce Gesù quando pronuncia il verbo «innalzare» (Gv 12,32-33: «“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. Questo diceva per indicare di quale morte doveva morire»)?».
Infine, che cosa vuol dire il verbo «dare» nel v. 16? A quest’ultimo proposito, non si può trascurare di ricordare come questa fugace quanto profonda allusione chiami in causa Gen 22, il celebre racconto della legatura (in ebraico, aqedah) d’Isacco, pronto per essere sacrificato dal padre Abramo. È al cospetto del Figlio dell’uomo innalzato sulla croce che ciascun essere umano viene posto davanti alla scelta di credere o non credere, di preferire la luce o la tenebra, di compiere le opere buone o quelle malvage. In definitiva, è di fronte al Figlio di Dio consegnato per noi che siamo invitati a optare per la vita o per la morte: in questo consiste il giudizio.
Meditazione
La celebrazione odierna, che affonda le sue radici a Gerusalemme nel IV secolo, è occasione per meditare sul paradosso della salvezza cristiana: uno strumento di morte diviene strumento di vita, «simbolo della salvezza» (Sap 16,6); la morte ignominiosa di uno solo diviene causa di salvezza per tutti (Mc 10,45; cfr. Ad Gentes 3: «Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la sua vita in riscatto di molti, cioè di tutti»; «pro multis, id est pro omnibus»); l’evento storico preciso, datato, della crocifissione di Gesù, diviene portatore di una salvezza che si estende a ogni tempo passato e futuro.
Venerare la croce non significa adorare uno strumento di morte quale essa è, ma porsi al cospetto del mistero di amore che sulla croce si è manifestato e riconoscere che l’amore del Padre che ha donato il Figlio per la vita del mondo (Gv 3,16) e l’amore del Figlio che ha consegnato se stesso per gli uomini è ciò che opera la redenzione e la salvezza. L’amore divino e trinitario, trasmesso ai credenti mediante il dono dello Spirito (cfr. Rm 5,5), è al cuore della celebrazione odierna.
La prima lettura mostra che l’immagine bronzea del serpente, dunque di ciò che morde e da la morte, innalzata da Mosè e guardata dai figli d’Israele, dona vita e guarigione (Nm 21,8-9). Guardare in faccia il nostro male, ciò che ci avvelena, il mostro interiore che ci abita (i serpenti di Nm 21,6 e 8 sono chiamati «serpenti brucianti» e in Is 30,6 appaiono come «draghi volanti») è operazione dolorosa, ma che rientra nel cammino spirituale di trasformazione della sofferenza mortifera in sofferenza vitale.
Giovanni pone in rapporto di continuità l’innalzamento del serpente nel deserto a opera di Mosè e l’innalzamento di Gesù sulla croce (Gv 3,14-15). Nel passo di Numeri colpisce la somiglianza fra ciò che fa perire e ciò che salva. Ma anche il crocifisso è somigliante in tutto a un peccatore, è il peccato personificato (2Cor 5,21): vedere l’innalzato crocifisso e credere in lui, significa vedere un somigliante ai peccatori, ma anche il Dio che assume e porta il peccato del mondo; significa essere svegliati alla coscienza del proprio essere peccatori e alla confessione di fede in Colui che è venuto non per condannare, ma per salvare (Gv 3,17).
La specificazione paolina contenuta nella seconda lettura per cui la morte di Gesù è stata una «morte di croce» (Fil 2,8), ne sottolinea l’aspetto di scandalo. Questo è «lo scandalo della croce» (Gal 5,11 ). La morte in croce del Messia lo proclama maledetto da Dio (Gal 3,13), scomunicato dal suo gruppo religioso, bandito dalla società civile. Croce dice infamia, disonore, ignominia. La morte di croce poteva essere augurata come macabra e somma ingiuria per i nemici, come mostra un graffito trovato sui muri di Pompei: «Che tu sia crocifisso». Dire morte di croce, significa dunque anche dire traversata degli inferi, raggiungimento del punto più basso nella scala dei valori umani e religiosi. È proprio questa discesa negli abissi dell’Ade simbolizzata dalla croce che evoca al meglio il carattere universale della salvezza di Dio. La croce, da simbolo disgraziato e tragico, diviene apertura alla più sconfinata speranza: il cielo non abita solo sulla terra, ma anche negli inferi. Questa è la croce a cui il cristiano può rivolgersi cantando: Ave crux, spes unica!
Nella celebrazione odierna può trovare spazio anche una meditazione sul simbolo della croce. Diffuso in molte culture ben prima che nel cristianesimo, il simbolo cruciforme, con l’intersecarsi delle due linee rette che si estendono in quattro direzioni e partono da un punto centrale, è simbolo di orientamento nel mondo. Spesso associato all’albero, il simbolo della croce evoca la dimensione ascensionale verso l’invisibile, il celeste, il divino. L’uomo ritto in piedi con le braccia aperte disegna la figura della croce è fa sì che il simbolo della croce sia chiave ermeneutica che consente all’uomo di decifrare se stesso e il mondo e di situare se stesso nel mondo. Tutti questi significati, nella croce cristiana, sono assunti in Cristo e la rendono la realtà che è «veramente capace di farci conoscere Dio» (Lutero).
Preghiere e racconti
Guardare in faccia la croce
«La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?
Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.
Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.
Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.
Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.
(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 29).
La croce, volto dell’amore
Innanzitutto, si rimane colpiti dal fatto che, nel Vangelo di Marco, la descrizione dei miracoli compiuti da Cristo sfuma, fino a scomparire del tutto, quanto più ci si avvicina alla Croce: è qui, dove Gesù non salva se stesso, che anche i miracoli muoiono. Se i miracoli sono i segni tangibili della potenza di Dio, la Croce ci dice in modo chiaro che questa potenza si manifesta soprattutto nell’amore e nel dono che Cristo fa di sé. Per Marco, il vero discepolo è colui che sa riconoscere il Figlio di Dio inchiodato sulla croce per la nostra salvezza (15,39).
La croce è diventata la suprema cattedra per la rivelazione della sua nascosta e imprevedibile identità; il volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto la condizione, escluso il peccato (Ebrei 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della rivelazione di Dio agli uomini.
(CVMC, 14).
La croce, gonfalone di Cristo
Le quattro estremità della croce:
una tende verso il firmamento,
l’altra verso l’abisso,
la terza verso Oriente,
e l’altra verso Occidente.
E così, è davvero il segno
che Cristo tiene tutto in suo potere.
La croce è il vero gonfalone
del solo re da cui tutto dipende,
che bisogna a ragione seguire,
facendo la sua volontà,
più ci si dà da fare e più si ha.
E ogni uomo che voglia seguirlo
è sicuro di aver scelto la parte migliore.
(Peire Carena).
Il piccolo seme
“La croce -scriveva Simone Weil- è la nostra patria…nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme… Se noi acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. In quel momento Dio non ha più niente da fare e neppure noi, se non attendere. Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso nuziale, che gli abbiamo accordato”.
La via maestra della santa croce
Per molti è questa una parola dura: rinnega te stesso, prendi la tua croce e segui Gesù. Ma sarà molto più duro sentire, alla fine, questa parola: «Allontanatevi da me maledetti, nel fuoco eterno». In verità coloro che ora accolgono volenterosamente la parola della croce non avranno timore di sentire, in quel momento la condanna eterna.
Ci sarà nel cielo questo segno della croce, quando il Signore verrà a giudicare. In quel momento si avvicineranno, con grande fiducia, a Cristo giudice di tutti i servi della croce, quelli che in vita si conformarono al Crocifisso. Perché, dunque, hai paura di prendere la croce, che è la via per il regno?
Nella croce è la salvezza; nella croce è la vita; nella croce è la difesa dal nemico; nella croce è il dono soprannaturale delle dolcezze del cielo; nella croce sta la forza della mente e la letizia dello spirito; nella croce si assommano le virtù e si fa perfetta la santità. Soltanto nella croce si ha la salvezza dell’anima e la speranza della vita eterna.
Prendi, dunque, la tua croce, e segui Gesù; così entrerai nella vita eterna. Ti ha preceduto lui stesso, portando la sua croce ed è morto in croce per te, affinché tu portassi la sua croce, e desiderassi di essere anche tu crocifisso. Infatti, se sarai morto per lui, con lui e come lui vivrai. Se gli sarai stato compagno nella sofferenza, gli sarai compagno anche nella gloria. Ecco, tutto dipende dalla croce, tutto è definito con la morte. La sola strada che porti alla vita e alla vera pace interiore è quella della santa croce e della mortificazione quotidiana. Va’ pure dove vuoi, cerca quel che ti piace, ma non troverai, di qua o di là, una strada più alta e più sicura della via della santa croce. Predisponi pure e ordina ogni cosa, secondo il tuo piacimento e il tuo gusto; ma altro non troverai che dover sopportare qualcosa, o di buona o di cattiva voglia: troverai cioè sempre la croce.
(Imitazione di Cristo).
Perché sia resa gloria a Dio
La croce è innalzata sulla terra non perché le si dia gloria; da che cosa potrebbe essere accresciuta la sua gloria dal momento che essa porta su di sé il Cristo crocifisso? La croce è innalzata perché sia resa gloria a Dio che su di essa è adorato e attraverso di essa è an-nunziato. […] Giustamente la chiesa, trovando la sua gioia nella croce del Signore riveste il suo abito di festa e appare in tutta la sua bellezza nuziale per onorare questo giorno. Giustamente questa grande folla è oggi radunata per vedere la croce e adorare Cristo che essa contempla innalzato sulla croce. Essa è offerta agli sguardi per essere esaltata ed è innalzata per essere rivelata. Qual è dunque questa croce? È quella che fino a poco fa era nascosta sul Calvario e ora è adorata in ogni luogo. Essa è causa della nostra gioia e noi la celebriamo; questo è il senso di questa festa. Era necessario, era necessario che questo legno che era nascosto e che ha dato la vita, diventasse visibile e fosse mostrato all’universo intero come una città collocata su un monte o una lampada posta sul candelabro (cfr. Mt 5,14-15). […] Quando adoriamo Cristo sulla croce, comprendiamo la grandezza della sua potenza e quante meraviglie ha operato per noi, come dice il divinissimo David: «Il nostro Dio, re eterno, ha operato la salvezza sulla faccia della terra» (Sal 73 [74], 12). […] Con la croce i discepoli di Cristo hanno lavorato la natura umana infeconda, come con un aratro. Hanno reso fertili e verdeggianti i campi della chiesa, hanno mietuto la messe di coloro che hanno creduto in Cristo. Dalla croce sono stati fortificati i martiri e con la loro morte hanno vinto quelli che li colpivano. Dalla croce Cristo è stato riconosciuto e la chiesa dei credenti, tenendo sempre aperte le Scritture, ci presenta Cristo, il Figlio di Dio, Dio in se stesso che proclama a gran voce: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Lc 9,23).
(ANDREA DI CRETA, Omelia 11 per L’Esaltazione della santa Croce, PG 97,1036-1045 passim).
Porta ogni giorno la croce del Signore
Se anche tu fossi
così sottile e sapiente
da possedere ogni scienza
e interpretare ogni lingua
e scrutare i segreti del cielo,
di tutto ciò non potresti gloriarti,
perché un dèmone, da solo,
seppe delle cose celesti,
e ora sa delle terrene,
più di tutti gli uomini.
E se anche tu fossi il più bello
e il più ricco tra tutti gli uomini
e facessi cose mirabili,
come mettere in fuga i dèmoni,
tutto ciò non ti appartiene,
e non puoi affatto gloriartene.
Solo delle nostre infermità,
di questo solo possiamo gloriarci,
portando ogni giorno
la santa croce del nostro Signore Gesù Cristo.
(San Francesco D’Assisi).
Per crucem ad lucem
Io non vedo, Signore, la tua faccia;
e, neppure, più su delle stelle,
la tua Santa Casa inviolabile
posata sulle palme degli Angeli.
Ma vedo lassù, in questa notte,
con gli occhi infantili d’una volta,
lo stesso giardino azzurro,
tutto fiori d’oro,
dal quale Tu, Cuore dei Cieli,
sei circondato e nascosto,
Quaggiù, tra veli d’ombra,
la terra s’è coricata;
e mentre respira nel sonno,
parlotta come chi sogna,
sopra le scintillano, a miriadi,
le sue lontanissime sorelle.
Ti adoro dunque, Signore,
per quel tuo gran giardino capovolto,
le cui tante rame fiorite
sono costellazioni e sistemi di mondi.
Anche noi, Signore,
tuoi ultimi angeli senz’ali,
impastati di fango
e anneriti di peccato,
abbiamo per luogo d’esilio
una sanguigna stella.
Ma vi s’incarnò il tuo Verbo;
e sull’orme della morte
rintracciata l’erta via della Vita,
con Lui, vacillando sotto la Croce,
possiamo ascendere fino a Te.
(D. Giuliotti).
Salve, o Croce, speranza di salvezza
Salve, o croce, segno indelebile
che sei nelle mani dell’Altissimo.
Salve, o croce, spirito di vita,
che sei nel cuore di quelli che in Te credono.
Salve, o croce, scettro degli angeli,
che doni la vita a ogni uomo.
Salve, o croce, arma potente
donata a noi cristiani.
Salve, o croce, segno sacro
che scacci gli spiriti maligni.
Ci prostriamo davanti alla croce
del nostro Signore Gesù;
Croce, arma potente di Dio Padre.
Ci prostriamo davanti alla croce
del nostro Salvatore;
Croce, segno di salvezza che Egli ha portato.
Salve, o croce, segno della fede
donato alla Chiesa.
Salve, o croce, legno immortale
che doni la Vita,
Croce, su cui il Signore è stato inchiodato.
Salve, o croce, speranza di salvezza.
(Preghiera copta).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 95 (2014) 5, pp. 36.
– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.
– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
PER L’APPROFONDIMENTO: