PASSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Isaia 52,13-53,12

Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito. Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.

  Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

Il brano di Isaia che leggiamo oggi è uno dei brani scritturistici a cui la tradizione cristiana si è rivolta per tentare di capire più a fondo il mistero di Gesù che muore in croce.

     Esso è denominato come il quarto carme del Servo del Signore (cf. Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12).

     Questi carmi sono una delle diverse riflessioni teologiche della Bibbia di fronte al problema tremendo della sofferenza del giusto, che mette in causa direttamente Dio.

     «Il vocabolario (quarantasei hapax legomena [vocaboli che si incontrano soltanto in questo testo] del Deuteroisaia) lo stile, la veemenza dei contrasti e dei sentimenti fanno di questo carme, anche dal punto di vista letterario — nonostante le difficoltà testuali ed esegetiche — un gioiello dell’Antico Testamento. La figura del Servo, che rappresenta il popolo di Israele in esilio, ricapitola in sé i tratti più caratteristici degli eroi e profeti dell’Antico Testamento: Mosè, Geremia, Giobbe, però sorpassa tutti questi personaggi, divenendo una figura escatologica». (S. VIRGULIN, Isaia, Nuovissima versione della Bibbia, Ed. Paoline, 1968, 344). Gli evangelisti e più esplicitamente la tradizione cristiana interpretarono l’opera e la morte di Gesù alla luce di questo carme.

     – 52,13-15. Il Signore presenta il servo trionfante. Dall’umiliazione assoluta egli è chiamato all’esaltazione così da stupire i re e le nazioni.

     – 53,1-9. La sezione comincia con un interrogativo retorico per attirare l’attenzione. Le sofferenze del servo sono descritte nei particolari con grande efficacia. La sua sofferenza lo faceva ritenere un castigato da Dio, percosso e umiliato. Egli non è stato colpito per essere castigato, ma per la salvezza degli altri: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti…. il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti».

     – 10-12. «Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori». Si ribadisce di nuovo che quanto è avvenuto al servo è stato voluto da Dio, ma si aggiunge che Dio stesso riabiliterà ed esalterà il suo servo, che ha espiato i peccati altrui: «il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli».

 

Seconda lettura: Ebrei 4,14-16; 5,7-9

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno. [Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono. 

 

I due brani della lettera agli Ebrei scelti dalla liturgia di oggi presentano Gesù come sommo sacerdote, mediatore compassionevole per i nostri peccati. Non dobbiamo temere il giudizio divino, ci dice l’autore della lettera, stiamo saldi nella confessione della nostra fede e abbiamo fiducia in Gesù Cristo. Egli può capire la nostra debolezza avendo anche lui subito la prova della sofferenza.

     Dobbiamo quindi avere piena fiducia che avremo un aiuto opportuno per essere ascoltati da un giudice già propenso alla misericordia, presso il quale troveremo grazia. Assai efficace è l’immagine di accostarsi «al trono della grazia». Essa mi fa venire in mente una tradizione midrashica ebraica che narra che Dio per creare gli uomini si è alzato dal trono della giustizia per sedersi su quello della misericordia.

     Nei versetti 7-9 del capitolo 5, accostati direttamente dalla liturgia a 4,14-16 Gesù è presentato nel mistero della sua umanità e dell’abbassamento fino alla morte accettata in obbedienza a Dio, che poteva liberarlo e a cui aveva rivolto suppliche e grida. Dio lo ha esaudito, ma misteriosamente solo attraverso la prova suprema.

 

Vangelo: Giovanni 18,1-19,42

 – Catturarono Gesù e lo legarono

     In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».

– Lo condussero prima da Anna

Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».

Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava. Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.

– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono! 

Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.

– Il mio regno non è di questo mondo

Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?». E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.

– Salve, re dei Giudei!

Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi. Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».

Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».

All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».

– Via! Via! Crocifiggilo!

Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.

– Lo crocifissero e con lui altri due

Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».

– Si sono divisi tra loro le mie vesti

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati fecero così.

– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

– E subito ne uscì sangue e acqua

Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».

– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù. 

 

Esegesi 

     La liturgia ci fa leggere oggi tutto il «libro della passione» di Giovanni, che inizia con l’andata di Gesù nel giardino (18,1) e termina al sepolcro nel giardino (19,41). L’inclusione sottolinea l’unità letteraria del racconto.

     All’interno di questa unità possiamo individuare cinque scene: 1. Gesù nel giardino e il suo arresto (18,1-11); 2. Gesù davanti ad Anna, episodio scandito all’esterno dalle negazioni di Pietro (18,12-27); 3. Gesù davanti a Pilato (18,28 19,16); 4. la crocifissione (19,17-30); 5. il colpo di lancia e la sepoltura (19,31-42).

     Molti elementi del racconto di Giovanni, oltre allo schema generale della passione, sono in comune con i sinottici, mi soffermo soltanto sugli elementi propri di Giovanni presenti in ciascuna delle sezioni individuate sopra.

     1. In 18,1-11: Gesù sa che cosa gli sta per accadere: si fa avanti spontaneamente e si rivela nella sua potenza. Alla sua risposta decisa: «Io sono» tutti indietreggiano e cadono a terra. Nonostante non si riesca a dare di ciò una spiegazione univoca, è evidente che l’evangelista vuole sottolineare il contrasto fra il coraggio di Gesù che si fa avanti, padrone della situazione e la paura di chi è venuto ad arrestarlo, che ha fatto pensare a molti studiosi allo stupore-paura che nella Bibbia coglie coloro che intuiscono di essere alla presenza di Dio.  Gesù intesse un colloquio con le guardie per escludere i suoi dal suo destino e l’evangelista commenta che così si è adempiuta la sua stessa parola: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (18,9 cf. 17,12; 6,39).

     Solo Giovanni dice il nome del servo del sommo sacerdote. Nelle parole dette a Pietro: «il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?». C’è una eco della preghiera di Gesù al Getzemani, che Giovanni non riporta, ma il tono della domanda sottolinea che quanto accade è un «dovere» comandato dal Padre, che Gesù accoglie senza tentennamenti 12-27. Entrano in azione i soldati romani e le guardie dei capi dei sacerdoti, che erano venuti con Giuda (cf. 18,3). Al versetto 12 il Vangelo non specifica più le guardie (o meglio secondo il termine greco tradotto dalla Vulgata con ministri, gli aiutanti, i servitori) dei sommi sacerdoti, ma usa il termine generico «giudei». È un uso particolare di questa parte del Vangelo di Giovanni. In 18,14 si dice che Caifa era quello che aveva consigliato ai «giudei», mentre nel capitolo 11, a cui si riferisce il nostro testo, Caifa sta parlando al sinedrio; in 19,6-7: gridano di crocifiggere Gesù i sommi sacerdoti, mentre rispondono a Pilato «i giudei»; in 19,14-15 avviene l’inverso: Pilato parla ai «giudei» e rispondono i «sommi sacerdoti».

     Proprio in riferimento al Vangelo di Giovanni — avvertono i documenti di applicazione della dichiarazione conciliare Nostra Aetate n. 4 — si deve fare attenzione a questo uso del termine giudei per non attribuire a tutti gli ebrei contemporanei di Gesù le colpe dei capi o di un gruppo particolare (cf. Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, IV, 1).

     La dichiarazione conciliare dice chiaramente: «Se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né  agli ebrei del nostro tempo».

     Solo Giovanni ricorda l’udienza di fronte ad Anna, mentre accenna soltanto al processo da Caifa (18,28) descritto ampiamente dai sinottici (Mt 26,57-68; Mc 14,53-65; Lc 22,54-71).

     Di Caifa, genero di Anna e «sommo sacerdote quell’anno» (18,13) il redattore ricorda che era colui che aveva detto: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo» (18,14; cf. 11,49-51). Si nota il sottile gioco stilistico di Giovanni che fa dire ai personaggi presentati una verità di cui non hanno affatto coscienza.

     Nel cortile del palazzo fa da cornice al dramma che sta vivendo Gesù il triplice rinnegamento di Pietro.

     Il processo davanti a Pilato è condotto dal quarto Vangelo nella linea della sottolineatura della regalità di Gesù. Pilato presenta Gesù con ironia e disprezzo con le parole: «Ecco il vostro re!» (19,14). Il colloquio fra Pilato e Gesù sottolinea la regalità particolare, diversa da quelle del potere di questo mondo. Gesù afferma che la sua missione nel mondo è quella di «dare testimonianza alla verità» (18,37). Al che Pilato replica con una domanda carica di scetticismo: «Che cos’è la verità?» (18,38). Pilato, di fronte a Gesù, che per lui non è che un oscuro giudeo, proveniente per di più dalla Galilea, la regione dove più attivi erano i gruppi ostili ai romani, non esita a metterlo a morte per evitare il rischio di avere problemi di ordine pubblico, che potrebbero mettere in forse il suo potere, sarà lui, però, che con la sua scritta sulla croce lo proclamerà re (19,19).

     Gesù, secondo Giovanni, porta la croce da sé. Questo è un altro particolare per sottolineare come Gesù sia padrone della situazione.

     Solo Giovanni riporta il colloquio con il discepolo prediletto e la madre. Pur nel dolore profondo che in quel momento doveva provare, Gesù si immedesima in quello della mamma, di fronte a un figlio che moriva a quel modo e le affida il discepolo come nuovo figlio, che riempia in qualche modo il vuoto lasciato da lui.

     «È compiuto!» sono secondo Giovanni le ultime parole di Gesù prima di morire. Esse sottolineano che quanto è avvenuto si è svolto secondo il disegno di Dio di cui Gesù era pienamente consapevole e che ha accettato in piena coscienza.

     Dopo il racconto del colpo di lancia, invece della rottura delle ginocchia, che era il metodo per accelerare la morte, ma che non era più necessario nel caso di Gesù, che era già spirato, l’evangelista invita a fissare su Gesù uno sguardo di fede. Quanto è avvenuto non è avvenuto casualmente, ma perché si «adempisse la Scrittura». Al di là delle citazioni, che non sono precise, il richiamo stesso alla Scrittura rende avvertiti che dobbiamo guardare a Gesù dentro al piano di Dio in essa rivelato.

    

Meditazione 

      «Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente» (Is 52,13). Sono queste le prime parole che sentiamo risuonare nella liturgia della Passione del Venerdì santo, dopo la prostrazione iniziale, compiuta in silenzio, seguita dall’orazione di apertura in cui si implora il Padre di ricordarsi della sua misericordia, santificando e proteggendo sempre la sua famiglia «per la quale il Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero pasquale». Già da subito è messo così in evidenza il carattere prettamente ‘pasquale’ di questa celebrazione: si fa memoria della morte del Signore ma nella prospettiva luminosa della sua vittoria sul peccato e sulla morte stessa. L’inizio della prima lettura dà dunque la tonalità giusta a questo giorno così centrale per la fede e la pietà cristiana. Prima di descrivere tutte le sofferenze e le violenze patite da questo misterioso Servo, il profeta Isaia dice che «avrà successo» e «sarà esaltato grandemente». Il suo destino di gloria ci è messo davanti come prima realtà forse per suggerirci l’angolatura corretta entro la quale comprendere questo testo. Ma che gloria è mai questa del Servo? Una gloria che passa attraverso una via dolorosa e tenebrosa; una gloria che si manifesta nell’affrontare il male con pazienza e mitezza («come agnello condotto al macello, come pecora muta…»: 53,7), nel subire ingiustizie di ogni sorta soffrendo da innocente, nel farsi carico in piena libertà delle colpe e delle iniquità altrui. La «luce» che vedrà dopo il suo «intimo tormento» (53,11) è la luce che emerge con forza da questa notte oscura e che irradia il suo splendore proprio sulle tenebre più fitte. Il Signore glorifica il Servo non liberandolo dal male e da una morte infame, ma facendosi a lui vicino e accogliendo l’offerta della sua vita per renderla feconda di salvezza per tutti.

     La tradizione cristiana, fin dai primi secoli, ha letto in questa figura il destino di passione e di gloria del Signore Gesù, tanto che il Nuovo Testamento in più occasioni riprende alla lettera questo canto per illuminare e interpretare la vicenda pasquale del Figlio di Dio (cfr. 1Pt 2,21-25; At 8,32-33; Mt 8,l7; Gv 1,29; Lc 22,37).

     Dal canto suo, l’evangelista Giovanni rilegge in modo nuovo e originale il racconto della passione di Gesù. Rispetto ai sinottici omette molti importanti dettagli, premunendosi però di compensarli con numerose aggiunte proprie. Il Gesù giovanneo ci appare fin dall’inizio un uomo sovranamente libero, che va incontro alla sua morte con la coscienza di chi sa cosa gli sta capitando (cfr. Gv 18,4; 19,28) e che affronta gli eventi con estrema dignità e solenne maestà. Tutto è teso al compimento di quell’«ora», l’ora del dono e della glorificazione, della quale Giovanni ci ha parlato fin dai primi capitoli del suo vangelo (cfr. 2,4). Ciò che Gesù aveva annunciato attraverso l’immagine del buon pastore, ora non fa altro che metterlo in pratica: egli dà la sua vita per le sue pecore, e la dà liberamente – nessuno gliela toglie – perché ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo (cfr. 10,14-18). Questo lo si vede già nella prima scena, quella dell’arresto (18,1-11), in cui Gesù rinuncia a esercitare la sua potenza divina (se avesse voluto, avrebbe potuto benissimo difendersi, visto che al solo suono della sua voce le guardie «indietreggiarono e caddero a terra»: 18,6!) e si lascia catturare senza opporre resistenza. Nessuno infatti può mettergli le mani addosso se non è lui stesso a offrirsi spontaneamente. Le forze delle tenebre nulla possono contro colui che è la vera luce («la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta»: Gv 1,5). I soldati vengono «con lanterne e fiaccole» (18,3) a catturare colui che è «la luce del mondo» (8,12; 12,46; 3,19; 1,9): paradosso della sorte! Chi è nelle tenebre pretende di offuscare la luce, ma non sa che la luce sprigiona tutta la sua forza proprio in mezzo all’oscurità più fitta. La luce si lascia ‘prendere’ ma non smette di brillare, tanto che nel confronto cruciale con Pilato (sezione centrale e cuore del racconto giovanneo della passione) l’evangelista annota: «Era l’alba» (18,28). L’alba è l’ora del trionfo della luce sulle tenebre, è l’ora che si oppone alla notte del rifiuto e del tradimento (cfr.13,30!). Davanti a Pilato il vero vincitore è Gesù: è lui in realtà colui che giudica, è lui il vero re. Per Giovanni, che si colloca esplicitamente sul piano della testimonianza e della fede (cfr. 19,35), è evidente questo ‘capovolgimento’ delle parti. Gli occhi della fede vedono le cose diversamente e riescono a scorgere dietro le realtà immediatamente percepibili l’agire di Dio, che guida gli eventi per vie misteriose e umanamente alquanto incomprensibili.

     A questo proposito è emblematico l’episodio dell’iscrizione che Pilato fa affiggere alla croce (19,19-22). Nelle tre lingue ufficiali dell’epoca (ebraico, latino e greco) viene proclamata la regalità universale di Gesù: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» (v. 19). Ma questa iscrizione assume un senso ben diverso a seconda del punto di vista con cui viene interpretata. Agli occhi dei sommi sacerdoti non può che formulare una menzogna – la pretesa di Gesù di farsi re messianico – (tanto che cercarono in tutti i modi di farla correggere: v. 21); sulla bocca di Pilato ha un valore ironico ed esprime scherno e derisione (come la dichiarazione beffarda di 19,14: «Ecco il vostro re!»); mentre per l’autore del racconto, che rappresenta la comunità credente, essa rivela la vera identità del crocifisso. Gesù è veramente il re che muore sulla croce (peraltro Giovanni lo suggerisce di nuovo nel particolare della sepoltura, in quell’incredibile quantità di unguenti portata da Nicodemo per ungere il corpo di Gesù: «circa trenta chili di una mistura di mirra e àloe»: 19,29. Non è una misura comune: è una misura esagerata, degna di un re!) ed è solo guardando al modo in cui muore che si può comprendere la vera natura della sua regalità. La croce è davvero «il trono della grazia» (Eb 4,16), come si esprime la lettera agli Ebrei nel passo proposto come seconda lettura, dal quale «colui che è stato trafitto» (Gv 19,37) fa sgorgare copiosamente i doni del suo esercizio regale vissuto fino in fondo: il «sangue» della sua vita effusa in sacrificio per la salvezza del mondo e l’«acqua» feconda dello Spirito santo ormai consegnato definitivamente all’umanità intera (cfr. 19,34).

     La Chiesa in questa liturgia ci fa cantare il Salmo 30(31) che l’evangelista Luca pone sulle labbra di Gesù nell’ora della sua morte (cfr. Lc 23,46). In esso troviamo alcune immagini molto forti (che la nuova traduzione CEI ha cercato di riportare alla loro originaria vivacità e plasticità): «sono come un morto, lontano dal cuore; sono come un coccio da gettare» (Sal 30/31,13). In questo «coccio da gettare» ritroviamo tutto il paradosso del mistero della vita di Gesù: Gesù è divenuto ‘ciò che non serve più a nulla’ (un vaso rotto, appunto, da buttar via), rifiutato e dimenticato da tutti; ma proprio in questo suo essere «disprezzato e reietto» (Is 53,3) «divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9). Una vita ‘spezzata’ e ‘gettata via’ può rifiorire insperabilmente dentro il terreno di un amore che non muore…

 

Preghiere e racconti 

Nelle tue mani

    «Dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, rese lo spirito» (Gv 19,30). […] A ragione Gesù dice che tutto è compiuto. Ora, però, la sua ora lo chiama a proclamare la Parola agli spiriti che sono negli inferi. Vi si reca per mostrare la sua signoria sui vivi e sui morti. E per noi che si è immerso nella morte e che subisce questa passione comune a tutta la nostra natura, cioè la sofferenza della carne, mentre, essendo Dio, è per natura la vita. Dopo aver spogliato gli inferi, vuole ricondurre la natura umana alla vita, lui che le Scritture chiamano «la primizia» (1Cor l5,24) di quanti si sono addormentati e «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1,18).

    Egli dunque, inclinò il capo, fatto normale nei morenti, perché lo spirito o l’anima che mantiene e governa il corpo lo lascia. Quanto a ciò che l’evangelista aggiunge: «rese lo spirito» (Gv 19,30) è un’espressione impiegata per parlare di qualcuno che si spegne e muore. Ma sembra che intenzionalmente, volutamente l’evangelista non abbia detto soltanto che Gesù era morto, ma che aveva consegnato il suo spirito nelle mani di Dio Padre, in accordo con quello che aveva detto di se stesso: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). La portata e il senso di queste parole sono per noi principio e fondamento di una gioiosa speranza.

    Si deve credere, infatti, che le anime sante, dopo essersi liberate dal loro corpo terrestre, sono affidate, tra le mani del Padre pieno d’amore, alla bontà e alla misericordia di Dio. […] Esse si affrettano a consegnarsi nelle mani del Padre di tutti e in quelle del nostro Salvatore, il Cristo, che ci ha mostrato questo itinerario. Egli ha consegnato la propria anima nelle mani di suo Padre affinché anche noi, mettendoci su questo cammino, possediamo una gloriosa speranza, sapendo e credendo fermamente che, dopo aver subito la morte del corpo, saremo tra le mani di Dio e in una condizione di molto preferibile a quella in cui abbiamo vissuto nella carne. E per questo che san Paolo scrive per noi che è meglio essere sciolti dal corpo per essere con Cristo (cfr. Fil 71,23).

(GIRILLO DI ALESSANDRIA, Commento al vangelo di Giovanni 12,30, PG 74,667C-670B)

«Non sciunt quod faciunt»

Persino sulla Croce, mentre compiva nell’angoscia la perfezione della sua Santa Umanità, Nostro Signore non si afferma vittima dell’ingiustizia: Non sciunt quod faciunt. Parole intelligibili dai bambini più piccoli, parole che si potrebbero dire infantili, ma che i demòni debbono ripetersi, dopo d’allora, senza comprenderle, con spavento crescente. Mentre si aspettavano la folgore, è come se una mano innocente avesse chiuso su loro i pozzi dell’abisso.

(G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano, Mondadori, 1994, 238-239).

Coraggio, fratello che soffri

Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.

Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio. La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre «collocazione provvisoria». Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra». Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.

Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.

Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.

Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.

(Don Tonino Bello)

Il Cristo di Velázquez

A che pensi Tu, morto, Cristo mio?

Perché qual vel di tenebrosa notte

la ricca chioma tua di nazareno

ricade cupa giù su la tua fronte?

Entro di te Tu guardi ove sta il regno

di Dio; dentro di te, là dove albeggia,

l’eterno sol dell’anime viventi.

Bianco è il suo corpo, sì com’è la sfera

del sol, padre di luce, che dà vita;

bianco è il tuo corpo al modo della luna

che morta ruota intorno alla sua madre,

la nostra stanca vagabonda terra;

bianco è il tuo corpo, bianco come l’ostia

del cielo nella notte sovrumana,

di quel cielo ch’è nero come il velo

della chioma tua ricca e cupa e folta

di nazareno.

Ché sei, Cristo, il solo

Uomo che di sua scelta soccombesse,

trionfando della morte, che fu resa

da te verace vita. E sol da allora

per Te codesta morte tua dà vita;

per Te la morte è fatta madre nostra;

per Te la morte è il dolce nostro anelo

che placa l’amarezza della vita.

Per te, l’Uomo che è morto e che non muore,

bianco siccome luna nella notte…

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 28-29).

Venerdì Santo

Venerdì Santo: giorno della croce, giorno di sofferenza, giorno di speranza, giorno di abbandono, giorno di vittoria, giorno di mestizia, giorno di gioia, giorno di conclusione, giorno di inizio.

Durante la liturgia a Trosly, Père Thomas e Père Gilbert staccarono dalla parete l’enorme croce che sta appesa dietro l’altare e la tennero sollevata, così che tutta la comunità poté andare a baciare il corpo morto di Cristo. Vennero tutti, più di quattrocento persone – uomini e donne disabili con i loro assistenti e amici. Tutti apparivano consapevoli di quello stavano facendo: esprimere il loro amore e la loro gratitudine per colui che aveva dato la propria vita per loro. Mentre stavano tutti radunati attorno alla croce e baciavano i piedi e la testa di Gesù, chiusi gli occhi e vidi il suo sacro corpo disteso e crocifisso sul nostro pianeta terra. Vidi l’immensa sofferenza dell’umanità lungo i secoli: persone che si uccidono a vicenda, persone che muoiono di fame o di malattia; persone cacciate dalle proprie case; persone che dormono nelle strade delle grandi città; persone che si attaccano le une alle altre nella disperazione; persone flagellate, torturate, bruciate e mutilate; persone isolate in appartamenti chiusi, in prigioni sotterranee, nei campi di lavori forzati; persone che implorano una parola dolce, una lettera amichevole, un abbraccio consolante, persone… che gridano tutte con voce angosciata: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Immaginando il corpo di Gesù nudo e lacerato, disteso sul nostro globo, mi sentivo pieno di orrore. Ma non appena aprii gli occhi, vidi Jacques, che porta sul volto i segni della sua sofferenza, mentre baciava il corpo con passione e le lacrime gli scendevano dagli occhi. Vidi Ivan, trasportato a spalle da Michael. Vidi Edith che avanzava nella sua sedia a rotelle. Man mano che venivano – diritti o claudicanti, vedenti o ciechi, udenti o sordi – vedevo l’interminabile processione dell’umanità che si radunava attorno al sacro corpo di Gesù coprendolo di lacrime e di baci, per poi allontanarsene lentamente, confortata e consolata da un così grande amore… Con gli occhi della mia mente vidi l’immensa folla di isolati, di individui angosciati che si allontanavano insieme dalla croce, uniti dall’amore che essi avevano visto con i loro stessi occhi e toccato con le loro stesse labbra. La croce dell’orrore divenne la croce della speranza, il corpo torturato divenne il corpo che da nuova vita; le ferite aperte diventarono fonte di perdono, di guarigione e di riconciliazione.

O mio Signore, che cosa ti posso dire?

Ci sono forse parole

che possono uscire dalla mia bocca?

Qualche pensiero? Qualche frase?

Tu sei morto per me

hai dato tutto a causa dei miei peccati,

non solo sei diventato uomo per me

ma hai anche sofferto

la più crudele delle morti per me.

C’è forse una risposta?

Mi piacerebbe trovare una risposta adatta.

Ma contemplando la tua santa passione e morte

posso soltanto confessare umilmente davanti a te,

che l’immensità del tuo amore divino

fa apparire del tutto inadeguata qualsiasi risposta.

Che io semplicemente stia davanti a te e ti guardi.

Il tuo corpo è lacerato, il tuo capo ferito,

le tue mani e i tuoi piedi

perforati dai chiodi

il tuo fianco aperto,

il tuo corpo morto

ora riposa tra le braccia di tua Madre.

Ora tutto è finito.

È terminato. È compiuto. È consumato.

Dolce Signore, grazioso Signore,

generoso Signore, Signore pronto al perdono,

ti adoro, ti lodo, ti rendo grazie.

Tu hai fatto nuove tutte le cose

Mediante la tua passione e la tua morte

La tua croce è stata piantata su questo mondo                                                                              

come nuovo segno di speranza.                                                                                             

Che io viva sempre sotto la tua croce, o Signore, e proclami la speranza della tua croce senza stancarmi.                                                                         

(H.J.M. NOUWEN, Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003).

Undicesima stazione

II panno umido sul viso mi ha dato un breve sollievo.

Sono caduto per la terza volta, qualche braccio soccorrevole mi ha sostenuto nel

rialzarmi, ma il peso per le membra che ho è troppo grave.

L’onta e il castigo della carne, questo alla loro ferocia piace molto.

Il supplizio della misconoscenza e del tradimento

alla loro perfidia è un piacere più sottile,

lo delibano i sommi sacerdoti.

Ma ora, Padre, sono ingiusto:

ci sono anime innocenti,

creature pietose che si angosciano,

non si danno pace. E questi, ti prego, prediligili.

Tra loro c’è mia madre,

ci sono uomini e donne di cuore che la

accompagnano,                                        

e molti altri addolorati e increduli.

Sempre, dal principio fino all’avvento del tuo regno,

il bene e il male si affrontano.

Oggi va al male, secondo appare a noi, la palma.

Tra gente come loro ho seminato le beatitudini,

erano meravigliati – alcuni un giorno capiranno,

ma io sarò morto e risorto

per tutti quelli che capito avranno

e per coloro che saranno rimasti chiusi nell’ottusità.

Tutti potranno essere salvi, così vuole l’Alleanza.

Ma dove andiamo, dove va questa trista processione?

Mi conducono a un’altura.

(M. LUZI, Via crucis, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 1999, 47-49).

Orazione finale

In piedi e con le braccia appena aperte,

tesa, perché non secchi, la man destra,

fa che la via sassosa della vita,

ascesa del Calvario, percorriamo

dai chiodi del dovere sostenuti,

e in piedi come Te, le braccia aperte

ansiosamente, noi moriamo; e dopo

alla gloria saliamo ancora in piedi

come Te, perché in piedi Iddio ci parli

e con le braccia aperte. Dammi, Cristo,

che quando alfine vagherò sperduto

uscendo dalla notte tenebrosa

ove sognando il cuore si impaura,

entri nel chiaro giorno sconfinato,

con gli occhi fissi sul tuo bianco corpo,

Figlio dell’uomo, Umanità perfetta,

nell’increata luce che non muore;

gli occhi, Signore, fissi nei tuoi occhi,

e in te, Cristo, perduto il guardo mio!

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 138-139)

 Francisco Zurbaran (1598-1664), Agnus Dei, Museo Nacional del Prado, Madrid.

 

«Ogni volta che il sacrificio della croce “col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato” (1Cor 5,7) viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cf. 1Cor 10,17)» (Lumen Gentium 3).

Sulla croce, infatti, è stato offerto l’unico e perfetto sacrificio che ha portato la salvezza al mondo intero, tanto che l’apostolo Pietro può affermare: «Non siete stati redenti con oro o argento, beni corruttibili…ma col sangue prezioso di Cristo, agnello immacolato e incontaminato» (1Pt 1;18-19). Il credente non appartiene dunque a se stesso, perché egli è stato comprato da Cristo “a caro prezzo” (cf. 1Cor 6,20). Colui che Giovanni Battista aveva indicato alla folla e ai suoi discepoli come l’Agnello di Dio che toglie il peccato del ondo (cf. Gv 1,29) è Cristo, «agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19). È lui che viene offerto sull’altare della croce quale vittima innocente e immacolata; è lui che «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).
Maria, sua madre, è la serva obbediente che ha vissuto nella totale sottomissione alla volontà di Dio e ha seguito il suo figlio fino al Calvario. «Ai piedi della croce Maria partecipa mediante la fede allo sconvolgente mistero di questa spoliazione. È questa forse la più profonda kenosi della fede nella storia dell’umanità. Mediante la fede la madre partecipa alla morte del Figlio, alla sua morte redentrice; ma, a differenza di quella dei discepoli che fuggivano, era una fede ben più illuminata.

Sul Golgota Gesù mediante la croce ha confermato definitivamente di essere il “segno di contraddizione”, predetto da Simeone. Nello stesso tempo, là si sono adempiute le parole da lui rivolte a Maria: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima”» (Giovanni Paolo II, Redemptoris mater 18). Per tutti i discepoli di Cristo onorare la passione del Signore vuol dire «guardare con gli occhi del cuore Gesù crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne» (Leone Magno, Discorso 15 sulla passione del Signore).

Francisco Zurbaran, artista attivo nella Spagna della Controriforma, ha dipinto con grande realismo in primissimo piano un semplice e comune agnello, con le zampe legate in segno di croce, posto su uno sfondo scuro e appoggiato su una mensa grigia. L’opera è del 1635-40 circa e oggi è conservata al Museo Nacional del Prado di Madrid.

L’uso sapiente dei colori e della luce conduce lo sguardo dell’osservatore verso l’animale che sembra essere totalmente abbandonato al suo destino fatale, senza reagire alla violenza inflittagli. Fissandolo sembra che il tempo sia sospeso e che anche lo spazio si sia come concentrato in quel punto preciso dell’universo. Trova spazio soltanto l’oracolo del profeta Isaia: «Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca» (Is 53,6-7).

Il significato mistico, sacrificale e cristologico del piccolo dipinto è reso dalla stessa immagine dell’agnello che l’artista ci presenta senza alcun attributo iconografico, come invece fa in altre versioni della stessa opera. Nel dipinto del Prado l’Agnello è invece mostrato nella sua assoluta e disarmante semplicità, quasi come una natura morta consegnata allo sguardo dell’osservatore il quale può ripetere con le labbra e con il cuore: «L’agnello ha redento il suo gregge, l’Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre» (Sequenza pasquale).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

 

PER APPROFONDIRE:

Sett santa VENERDÌ SANTO (A)