I DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 2,7-9; 3,1-7

Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.

      Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. 

 

La pericope di Genesi, che la liturgia ci presenta come prima lettura in questa prima domenica di Quaresima, accosta due brani distinti quello della creazione dell’uomo con la sua collocazione nel giardino dell’Eden e quello della prima tentazione che riuscì ad ingannare l’uomo e la donna, che fungono insieme da «figura» al brano del Vangelo di Matteo. Gesù è tentato, come fin dall’origine furono tentati l’uomo e la donna: il Messia resiste alla tentazione e vince, mentre la coppia umana cede e soccombe.

     Il tentatore è sempre lo stesso: astuto, intelligente e furbo, capace di creare suggestioni e immaginazioni, abile artista e regista che pretende di dirigere il corso degli eventi.

     Due scene per due significati che si legano insieme. Nella prima la sottolineatura della condizione dell’uomo, in tutto dipendente da Dio (v.7a: «Il Signore Dio plasmò… »), fragile e debole (v. 7b: «… con polvere del suolo…»), ma in qualche modo partecipe della condizione divina (v. 7c: «…soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente… »); nella seconda il tragico racconto della tentazione e della caduta  con i tre protagonisti (serpente, donna, uomo) sui quali incombe, in modo possente, il giudizio tremendo di Dio.

     Spettacolare la presentazione del tentatore: una forza seduttrice che giunge all’uomo dall’esterno, una forza corruttrice e parlante, personale e bugiarda.

     Serpente antico, il tentatore manipola la parola di Dio: con un’esegesi distorta (3,1 c: «…Non dovete mangiare di alcun albero…») che riesce a sbilanciare la donna e a farla uscire fuori dal suo silenzio e ad accettare il dialogo che la porterà a cadere: con un’insinuazione sottile che getta ombra su Dio (3,5: «Anzi, Dio sa…»), quasi che il Creatore avesse timore e paura, e mette in crisi definitiva la donna.

     La donna cede convinta dal serpente; l’uomo cede avviato dalla donna: tutti e due peccano nel tentativo di realizzare la propria vita indipendentemente da Dio, nell’illusione di volersi ergere arbitri sul bene e sul male e nella vaga speranza di sentirsi padroni della propria e dell’altrui vita.

 

Seconda lettura: Romani 5,12-19  

Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

      Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti  gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

 

Cristo, contrapposto ad Adamo, ci ha procurato la giustizia di Dio liberandoci dal peccato e dalla morte. L’Apostolo Paolo presenta il doppio «destino» che spetta all’umanità: la «morte» o la «vita».

     Paolo dimostra che la salvezza è legata alla solidarietà a Cristo, alla sua obbedienza e al suo amore oblativo, presentando la sua argomentazione con il fenomeno letterario del parallelismo antitetico tra l’intervento di Adamo e quello di Cristo nella storia dell’umanità.

     Il richiamo di Adamo è però secondario per mettere in evidenza l’opera di salvezza portata da Cristo. È Cristo, infatti, il vero protagonista, è lui che costituisce il centro d’interesse. L’attenzione infatti è posta sull’azione liberatrice di Cristo, sulla sua obbedienza e sul suo «dono di grazia».

     L’efficacia positiva di Cristo supera di gran lunga quella negativa di Adamo. Non si tratta dunque di un vero e proprio parallelismo «reale», ma soltanto «formale» per fare risaltare il secondo termine di paragone che è Cristo!

     Paolo, inoltre, pone il parallelismo con lo schema «uno-tutto» dove, per il principio di solidarietà, l’azione di uno determina le scelte dell’umanità. Paolo, tuttavia, lascia intendere che l’uomo è libero di accettare o di rifiutare tale influsso e presenta il «destino» dell’uomo come azione della volontà e come scelta personale.

 

Vangelo: Matteo 4,1-11 

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».

     Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 

Esegesi 

     Il capitolo 4 del Vangelo di Matteo si apre con la scena delle tentazioni che Gesù subisce nel deserto ad opera del diavolo. Lo spirito del male è una creatura spirituale che combatte il disegno di Dio. La scena è costituita dalla successione di tre sequenze: il deserto, il tempio di Gerusalemme, un monte altissimo.

     Il testo è scandito da un triplice «allora» (vv. 5,10,11) in modo analogo al brano che precedeva il battesimo (3,5-15); il terzo introduce una conclusione che ricorda la fine del dialogo tra Giovanni e Gesù (3,15): «Allora il diavolo lo lasciò…» (v. 11), mentre il duplice «ed ecco» della scena del battesimo (3,16.17) viene qui ripreso come un’eco: «…ed ecco gli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (v. 11).                       

     La pericope si articola in diversi momenti: introduzione con presentazione dei personaggi fondamentali (vv. 1-2); racconto vero e proprio con le tre scene di tentazione (vv. 3-10); conclusione con il ritiro del tentatore e la presenza degli angeli (v. 11).

     Il deserto è convenzionalmente il luogo del ritiro, in cui l’uomo si pone di fronte alle scelte essenziali della vita. Come il popolo d’Israele matura la sua vocazione di popolo di Dio nel deserto, così Gesù, prima di iniziare la sua missione, va nel deserto. Il Signore, però, al contrario d’Israele vince la triplice tentazione dei beni materiali, del successo e del potere, tentazione nella quale era caduto l’uomo nel giardino dell’Eden (Gen 3 1-7): dove l’antico Israele soccombeva, colui che simboleggia il nuovo Israele resiste e vince.

     Le tre tentazioni conducono Gesù a rifiutare il potere temporale, il facile ricorso al miracolo e soprattutto la seduzione dell’idolatria.

     Gesù si distanzia energicamente da queste tre tentazioni rinunciando ad ogni costo a utilizzare la strada del potere, del prestigio e del facile miracolo. Lo testimoniano chiaramente anche gli altri Sinottici, lo ricorda lo stesso Giovanni (6.6).

     Altro dato fondamentale della pericope è lo stretto legame che intercorre tra la tentazione di Gesù e il Battesimo. È lo Spirito, disceso in occasione del Battesimo, che conduce Gesù nel deserto, per esservi tentato dal diavolo (4,1). La missione di Gesù viene caratterizzata fin dall’inizio dalla presenza ostile del demonio che sosterrà una lotta continua contro il Figlio di Dio in tutta l’area del suo ministero di prova: adempiere ogni giustizia (5,10) significa proprio vincere al male.

     La presentazione delle tentazioni è caratterizzata, intessuta e cadenzata dalle citazioni dell’Antico Testamento. Sembra chiaro che Matteo voglia presentare, in un contesto catechetico o meglio ancora liturgico, Gesù come colui al quale è ordinata l’intera storia d’Israele.

     Poiché Gesù colma l’attesa del suo popolo, egli assume tutte le dimensioni della sua storia e dal momento che egli adempie ogni giustizia realizzando il beneplacito del Padre, egli trionfa delle tentazioni alle quali in altri tempi il popolo ebreo aveva invece ceduto e, così, si rivela veramente come il figlio di Dio.

     Il tentatore eccelle nell’arte di abbellire le immagini e con pochi elementi egli abbozza un quadro grandioso: il pinnacolo del tempio che domina la città santa, le mura alte che cadono a picco, la presenza degli angeli invocati come possibili «aiutanti» celesti di Gesù… Come un regista esperto vuole far giocare a Gesù il ruolo del Messia trionfatore, che viene tra i suoi con potenza e che si manifesta al mondo intero con gesti altamente e chiaramente potenti. Ma ciò non si realizza!

     Nella prima tentazione Gesù rifiuta il ruolo messianico in un contesto spettacolare e prodigioso, ma lo vive nella fedeltà a Dio come ogni uomo giusto e credente. Nella seconda Gesù supera tutte le deformazioni religiose che hanno nella magia e nel miracolismo il loro modello. Nella terza tentazione Gesù mostra chiaramente come sia perversa e diabolica l’idea di una conquista e di un potere imperialistico in nome di Dio.

     È la triplice tentazione di Gesù: una tentazione che, al di là del tempo e del luogo circoscritto dall’evangelista, abbraccia e tocca tutta la vita del Messia, che diventa giorno per giorno tentazione e prova continua. Non si tratta della descrizione di un giorno di vita di Gesù, ma della riflessione completa sulla vita stessa di Gesù, rispecchiata, o meglio ancora anticipata, nel riassunto molto sintetico e schematico delle tre tentazioni.

 

Meditazione 

      Le letture del ciclo quaresimale «A» sono legate al catecumenato e all’iniziazione cristiana che culmina nel battesimo impartito nella notte pasquale. Nella prima domenica, ad Adamo che soccombe alla tentazione (I lettura) fa riscontro Gesù che vince la tentazione (vangelo) e offre a ogni cristiano la possibilità di fare delle proprie cadute l’occasione di conoscere la grazia di Dio (II lettura).

    Il binomio peccato-morte con cui Paolo interpreta la caduta primordiale si presta a una rilettura a partire dalla pagina genesiaca. La tentazione agisce interiormente all’uomo a partire dalla parola con cui Dio gli comanda di mangiare di tutto eccetto una sola cosa (Gen 2,16-17). In caso contrario, l’uomo incontrerà certamente la morte. La tentazione agisce nel cuore umano anzitutto come frustrazione («se sono privato di una cosa, sono privato di tutto»: Gen 3,1). La proibizione dell’unico frutto, più che il permesso-comando di mangiare tutto il resto, colpisce e ferisce la creatura che si vede attratta da ciò che è interdetto. E dalla potenza del desiderio essa si difende con interdetti ulteriori che inaspriscono il divieto divino: «Non lo dovete toccare» (Gen 3,3). E specifica: «altrimenti morirete» (Gen 3,3). La morte è già presente nel mondo, sta agendo nella mente e nel cuore della creatura umana e sta producendo paura. E proprio le parole che assicurano: «Non morirete affatto», vincono le resistenze della donna e la spingono alla trasgressione. Dunque: dalla morte viene il peccato, più ancora che il contrario. O meglio, dalla paura della morte. Il peccato fa leva sulla paura della morte. Noi pecchiamo e la diamo vinta alle tentazioni per illuderci di darci vita nella via del possesso, dell’abuso, dell’accumulo, del potere, del consumo… Ma l’esito di questo è mortifero e l’uomo si ritrova schiavo di ciò che l’ha vinto. Il Nuovo Testamento afferma che Cristo ha ridotto all’impotenza colui che della morte ha il potere, il diavolo, liberando così gli uomini che, per paura della morte, erano soggetti a schiavitù tutta la vita (Eb 2,14-15).

    Gesù attraversa la tentazione, non la rimuove. Cioè, egli accetta di misurarsi con essa in se stesso: non proietta l’immagine del nemico su realtà esterne, ma accetta che la potenza della tentazione si dispieghi nell’intimo, nel cuore. Solo chi vince la potenza del divisore in se stesso può cacciare i demoni dagli altri umani.

    La vittoria di Gesù è interiore e spirituale: egli vince ricordando la parola di Dio. E la parola ricordata gli fa ripercorrere il cammino del popolo dopo l’uscita dall’Egitto. Le tentazioni matteane riproducono il cammino di Israele nei quarant’anni nel deserto rinviando (attraverso le tre citazioni del Deuteronomio in bocca a Gesù) a tre episodi fondamentali dell’esodo: la manna e le quaglie (Es 16); Massa e Meriba (Es 17,1-7); il vitello d’oro (Es 32). Il ricordo della parola di Dio, la memoria Dei, è ciò che guida Gesù alla vittoria. E la memoria Dei non è semplice ricordo di frasi bibliche, ma evento spirituale che interiorizza la presenza di Dio nel cuore dell’uomo.

    Le tentazioni di Gesù non sono solo le tentazioni del miracolistico, del sacrale e del potere (o, rispettivamente, le tentazioni economica, religiosa, politica), ma qualcosa di ulteriore. Nella prima scena vi è anche la tentazione che nasce quando la nostra esperienza della realtà è l’esperienza di un deserto, di durezze pietrose, quando la realtà appare sterile, feconda solo di disillusioni e incapace di nutrire. Nella seconda scena si apre la via alla tentazione che nasce quando si è andati oltre le immagini idealizzate del sacro e del religioso, quando cioè le immagini gratificanti e consolatorie del divino sono crollate e lo spazio per Dio si restringe sempre più. E nella terza scena si dischiude la tentazione successiva alle illusioni del potere, della ricchezza, della gloria: quando cioè queste realtà svelano la loro inanità e nell’uomo può farsi strada il cinismo, la disillusione, magari il risentimento. Gesù passa attraverso tutto questo e ciò che rimane è un corpo spoglio che, nella nuda fede, ricorda e ripete la parola di Dio. È così nel deserto, sarà così sulla croce (Mt 27,46).

 

Preghiere e racconti 

La tentazione

Il deserto richiama alla mente un altro luogo dello Spirito: la tentazione. Non le nostre piccole tentazioni quotidiane, ma l’unica tentazione, la grande tentazione escatologica, quella degli ultimi giorni in cui già stiamo vivendo. Dobbiamo riconoscere questa tentazione in ogni cosa che ci accade, come nelle contraddizioni e nelle sofferenze che ci circondano. «Considerate perfetta letizia», dice san Giacomo all’inizio della sua Lettera, «quando subite ogni sorta di prove»; è per questo che siamo nel mondo… È nell’ora della tentazione che la testimonianza dello Spirito si fa chiara ed eloquente in noi, ed è nel pieno mezzo della tentazione che i cristiani si riconoscono fratelli. La tentazione ci pone davanti a Dio in modo completamente nuovo. Una breccia si apre in noi: ogni tentazione mette in discussione un certo numero di strutture  non solo ecclesiali, ma anche strutture della nostra intima personalità. Sconcertandoci e togliendoci il terreno da sotto i piedi, aprendo una breccia e smantellando qualcosa a cui siamo intimamente legati, la tentazione porta con se la possibilità di una ricca effusione della grazia, e può farci crescere nello Spirito santo. Se riusciamo ad accettare questo scombussolamento e a mostrarci in tutta la nostra debolezza e povertà, queste ultime verranno d’un tratto rimpiazzate e rilevate dalla potenza di Dio che dispiega tutta la sua forza nella nostra debolezza. È questa accettazione a costituire ciò che le Scritture chiamano hypomone: pazienza, perseveranza.

(A. Louf, La vita spirituale, Magnano (Biella), Edizioni Qiqajon/Comunità di Bose, 2001, pp. 9-20).

Antonio e i suoi compagni

Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società. Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo. Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita. E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…

La solitudine è la fornace della trasformazione. Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra società e continuiamo a restare impigliati nelle illusioni del falso io. Anche Gesù è entrato in questa fornace. Fu tentato con le tre seduzioni del mondo: essere importante («trasforma le pietre in pane»), essere spettacolare («gettati dalla torre»), essere potente («ti darò tutti questi regni»). Gesù ha affermato Dio come unica sorgente della sua identità («Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto»). La solitudine è il luogo della grande lotta e del grande incontro – lotta contro le imposizioni del falso io e incontro con il Dio dell’amore che offre se stesso come sostanza del nuovo io.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 94).

La mia cella nel mondo

      La cella, luogo di ritiro, è una semplice camera che abbisogna soprattutto di silenzio in modo che possa assicurare, con l’arredamento essenziale, tutto quello che serve per riposare (il letto), per leggere e scrivere (la sedia e il tavolo), anche o soprattutto di notte (la lampada). Per secoli la cella è stata ed è ancora questo per ogni monaco d’Oriente e d’Occidente: il luogo in cui il monaco impara ad habitare secum, ad abitare con se stesso, in cui cerca Dio nella solitudine e nel silenzio, in cui si impegna e si esercita a lottare contro le pulsioni malvagie che lo abitano e in cui si addestra alla comunione con gli uomini tutti.

      Così è stato per me, fin da quando, giovane studente universitario, ho intrapreso, al di fuori delle strutture allora esistenti, l’itinerario monastico che rimane fondamentalmente identico al di là dei contesti storici, culturali ed ecclesiali in cui si inserisce. E come tutti quelli che mi avevano preceduto in questo cammino, mi sono presto accorto che non era facile rimanere, sostare, abitare una cella, quel luogo troppo piccolo, privo di sbocchi e di mutamenti, un luogo capace addirittura di incutere paura. Sapevo bene che la battaglia della cella era una delle prime che avrei dovuto combattere e, infatti non appena vi entravo, avvertivo una voglia di uscirne, mi si affollava nella mente le urgenze che mi chiamavano “fuori”: il richiamo a vivere fuori da me stesso si insediava nella mia mente […].

Come accade a ogni monaco, anch’io ho conosciuto la cella come luogo di reclusione e di prigione ma poi, perseverando, l’ho scoperta come luogo in cui poco alla volta si impara ad abitare con se stessi in verità, intenti alla propria unificazione interiore. Con un sapiente gioco di parole, Guglielmo di Saint-Thierry accostava “cella” e coelum, interpretandoli entrambi come derivati dal verbo “celare”, nascondere: qui e là si ritrova Dio, il Dio segreto, nascosto. Del resto Gesù stesso, rivolgendosi a ogni discepolo – e quindi non solo ai monaci… – aveva rivolto un invito ben preciso: “Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo che è nel segreto” (Matteo 6,6,). Pregare nel segreto della cella, dove nessuno vede, nessuno controlla: questo è esempio di autenticità e luogo di verifica dell’eloquenza della fede. Antidoto contro ogni ostentazione ed esibizione religiosa, la cella diventa effettivamente il luogo in cui si può “dare del tu a Dio”, parlare a Dio e vincere la tentazione di parlare di lui. Se questo “faccia a faccia” è franco, può assumere i tratti di un intimità amorosa: allora la cella diviene “cella vinaria”, la stanza del Cantico dei Cantici, autentica cantina dove si consuma l’incontro amoroso inebriati dal profumo e dal gusto del vino. Come dice il profeta: Exultabit solitudo, “La solitudine esulterà”.

(Enzo BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Enaudi, Torino, 2010, Prologo)

Intuizioni patristiche dedicate al brano evangelico delle tentazioni 

«Dopo il battesimo nell’acqua lo Spirito conduce Gesù al battesimo nella tentazione, ma non come una persona ne costringe un’altra, ma come qualcuno consente a chi ha deciso. E’ provato nella solitudine, così come Eva fu tentata quando si trovò sola. Il potere di Dio non si fa conoscere con tali prove, perché Dio non fa mai nulla d’inutile. Chi conosce la propria forza, infatti, non cerca di sfoggiarla. Se dunque il digiuno non vi gioverà per non essere tentati, vi consentirà non di meno di essere fortificati tanto da vincere la tentazione».

(S. Giovanni Crisostomo)

«Come tentò per la gola il primo Adamo, così tenta il secondo per la fame. Il maligno, vincitore del primo, sarà vinto dal secondo e come tentò i primogeniti con la vanagloria, dicendo che sarebbero stati come Dio, ora tenta Cristo con la superbia».

(S.Gregorio Magno)

«Gesù vuol vincere con l’umiltà e con l’autorità delle divine scritture e non con i segni del suo potere divino. In questo modo confonde di più il nemico e dà maggior onore alla natura umana indicando con quali armi anch’essa può vincere il maligno. Il maligno aveva tale potere perché usandone giungesse la sua sconfitta. Così verrà permesso ai malvagi di crocifiggerlo perché ne giungesse la salvezza».

(S. Girolamo)

«Anche Satana cita la bibbia, ma certe citazioni non illuminano: fanno buio». 

(S. Ambrogio)

40 giorni nel deserto

Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.

Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire. Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo. Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua. Tu devi tornare nella solitudine”.

L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un convento?”

“No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.

Non di solo pane

«Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».

È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Non temere la lotta!

«Se dopo il battesimo ti assalirà colui che ha perseguitato e inseguito la luce – e di certo ti assalirà dal momento che ha assalito anche il Verbo e mio Dio a causa del rivestimento della carne aggredendo la luce nascosta attraverso ciò che era visibile – tu hai modo di vincerlo, non temere la lotta! Opponigli l’acqua, opponigli lo Spirito, nel quale si spegneranno tutte le frecce infuocate del Maligno. È Spirito, ma che dissolve le montagne [cfr. Sal 96 (97),5]; è acqua, ma che spegne il fuoco. Se [il Divisore] ti assale ponendoti sotto gli occhi la tua povertà – ha osato farlo con Cristo – e cercherà di ottenere che le pietre divengano pane (cfr. Mt 4,3-4) facendoti vedere che hai fame, non ignorare i suoi propositi. Insegnagli quello che non ha imparato, opponigli la parola di vita che è il pane disceso dal cielo e che dona vita al mondo (cfr. Gv 6,33). Se ti tende un laccio attraverso la vanagloria – lo fece anche con Cristo conducendolo sul pinnacolo del tempio e dicendogli: «Gettati di sotto» (Mt 4,6) perché mostrasse la sua divinità – non farti trascinare in basso dal desiderio di innalzarti. Se ottiene questo, non si fermerà qui. E insaziabile, ricorre a tutti gli espedienti. Lusinga con il bene, ma conclude con il male. Questo è il suo modo di combattere. Ma il ladrone è esperto anche nella Scrittura. Da essa trae lo «sta scritto» a proposito del pane (cfr, Mt 4,3-4) ; da lì lo «sta scritto» a proposito degli angeli: «Sta scritto, infatti, che darà ordine ai suoi angeli riguardo a te, e che essi ti solleveranno con le loro mani [Sal 90 (91),11-12; Mt4,6]. Oh! Tu, sapiente nel fare il male, come hai potuto tacere quanto è scritto subito dopo? Io lo conosco bene anche se tu hai taciuto. «Io ti farò camminare sopra l’aspide e il basilisco e ti farò calpestare i serpenti e gli scorpioni « [Sal 90 (91),13], perché sei protetto dalla Trinità. Se poi egli ti assalirà ricorrendo all’insaziabilità, mostrandoti in un istante e in un batter d’occhio tutti i regni del mondo come se gli appartenessero (cfr. Mt 4,8-9) e ti chiederà di adorarlo, disprezzalo: è povero. Digli, confidando nel sigillo [impresso su di te con il battesimo] : «Anche io sono immagine di Dio. Non sono ancora stato rigettato dalla gloria dell’alto come te a causa della superbia. Ho rivestito Cristo (cfr. Gal 3,27), mi sono trasformato in Cristo per mezzo del battesimo. Sei tu che devi adorarmi». Si allontanerà da te, ne sono certo, vinto e coperto di vergogna a causa di queste parole. Come dovette abbandonare Cristo, la prima luce, così lascerà anche quelli che sono stati da lui illuminati».

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi 40,10, SC 358, pp. 216-218).

Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto (Mt 4,10). 

  Il principale interesse di Gesù era quello di obbedire al Padre suo, di vivere costantemente alla sua presenza. Solo dopo divenne chiaro per lui quale fosse il suo compito nelle sue relazioni con la gente. Questa è la via che egli propone anche ai suoi apostoli: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,8). Forse dobbiamo continuamente richiamare alla nostra memoria, che il primo comandamento, quello che esige da noi di amare Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutta la nostra mente, è veramente il primo.

Mi chiedo se questo lo crediamo davvero. In realtà, sembra che viviamo come se dovessimo dare il cuore, l’anima e la mente il più possibile ai nostri simili, gli esseri umani, cercando di fare di tutto per non dimenticarci di Dio. O per lo meno sentiamo che la nostra attenzione va divisa equamente tra Dio e il nostro prossimo. Ma Gesù chiede qualcosa di molto più radicale.

Domanda un impegno esclusivo per Dio e per Dio solo. Dio vuole tutto il nostro cuore, tutta la nostra mente, tutta la nostra anima.

È questo amore di Dio incondizionato e senza riserve, che ci spinge a prenderci cura del nostro prossimo, non come un’attività che ci distrae da Dio o si mette in concorrenza con la nostra attenzione a Dio, bensì come un’espressione del nostro amore per Dio che si rivela a noi come il Dio di tutti.

È in Dio che troviamo nostro prossimo e scopriamo la nostra responsabilità nei suoi confronti. Potremmo addirittura dire che solo in Dio il nostro prossimo diventa nostro prossimo e non una violazione della nostra autonomia, e che solo in Dio e attraverso Dio diventa possibile il servizio.                                                                                                

(J.M. Nouwen, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 20-22).                                 

La solitudine

La solitudine è un elemento antropologico costitutivo: l’uomo nasce solo e muore solo. Egli è certamente un «essere sociale», fatto «per la relazione», ma l’esperienza mostra che soltanto chi sa vivere solo sa anche vivere pienamente le relazioni. Di più: la relazione, per essere tale e non cadere nella fusione o nell’assorbimento, implica la solitudine. Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontare l’incontro con 1’alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie «moderne», che riguardano la soggettività, arrivino anche a inficiare la qualità della vita relazionale: per esempio, l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vita interiore, diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri. Certo, non ogni solitudine è positiva: vi sono forme di fuga dagli altri che sono patologiche, vi è soprattutto quella «cattiva solitudine» che è l’isolamento, il quale implica la chiusura agli altri, il rigetto del desiderio degli altri, la paura dell’alterità. Ma tra isolamento, chiusura, mutismo, da un lato, e bisogno della presenza fisica degli altri, dissipazione nel continuo parlare, attivismo smodato, dall’altro, la solitudine è equilibrio e armonia, forza e saldezza.

Chi assume la solitudine è colui che mostra il coraggio di guardare in faccia se stesso, di riconoscere e accettare come proprio compito quello di «divenire se stesso»; è l’uomo umile che vede nella propria unicità il compito che lui e solo lui può realizzare. E non si sottrae a tale compito rifugiandosi nel «branco», nell’anonimato della folla, e neppure nella deriva solipsistica della chiusura in sé. Sì, la solitudine guida l’uomo alla conoscenza di sé, e gli richiede molto coraggio.

La solitudine allora è essenziale alla relazione, consente la verità della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità di solitudine e capacità di amore sono proporzionali. Forse, la solitudine è uno dei grandi segni dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: «Preserva la tua solitudine. Se mai verrà il giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra la solitudine interiore e l’amicizia; anzi, proprio da questo segno infallibile la riconoscerai».La solitudine è il crogiuolo dell’amore: le grandi realizzazioni umane e spirituali non possono non attraversare la solitudine. Anzi, proprio la solitudine diviene la beatitudine di chi la sa abitare. Facendo eco al medievale «beata solitudo, sola beatitudo», scrive MarieMadeleine Davy: «La solitudine è faticosa solo per coloro che non han sete della loro intimità e che, di conseguenza, l’ignorano; ma essa costituisce la felicità suprema per coloro che ne hanno gustato il sapore».

In verità, la solitudine, certamente temibile perché ci ricorda la solitudine radicale della morte, è sempre solitudo pluralis, è spazio di unificazione del proprio cuore e di comunione con gli altri, è assunzione dell’altro nella sua assenza, è purificazione delle relazioni che nel continuo commercio con la gente rischiano di divenire insignificanti. E per il cristiano è luogo di comunione con il Signore che gli ha chiesto di seguirlo là dove lui si è trovato: quanta parte della vita di Gesù si è svolta nella solitudine! Gesù che si ritira nel deserto dove conosce il combattimento con il Tentatore, Gesù che se ne va in luoghi in disparte a pregare, che cerca la solitudine per vivere l’intimità con 1’abba e per discernere la sua volontà. Certo, come Gesù, il cristiano deve riempire la sua solitudine con la preghiera, con la lotta spirituale, con il discernimento della volontà di Dio, con la ricerca del suo volto.

Commentando Giovanni 5,13 che dice: «L’uomo che era stato guarito non sapeva chi fosse [colui che l’aveva guarito]; Gesù infatti era scomparso tra la folla», Agostino scrive: «È difficile vedere Cristo in mezzo alla folla; ci è necessaria la solitudine. Nella solitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa; per vedere Dio ti è necessario il silenzio». II Cristo in cui diciamo di credere e che diciamo di amare si fa presente a noi nello Spirito santo per inabitare in noi e per fare di noi la sua dimora. La solitudine è lo spazio che apprestiamo al discernimento di questa presenza in noi e alla celebrazione della liturgia del cuore.

Il Cristo poi, che ha vissuto la solitudine del tradimento dei discepoli, dell’allontanamento degli amici, del rigetto della sua gente, e perfino dell’abbandono di Dio, ci indica la via dell’assunzione anche delle solitudini subite, delle solitudini imposte, delle solitudini «negative». Colui che sulla croce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo l’abbandono di Dio, ricorda al cristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. Essa, infatti, è mistero di amore!

(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 181-184).

Lettera di Nichi Vendola a don Tonino Bello

«…Vedi, don Tonino, io sento nostalgia struggente della tua voce e della tua cosmogonia, perché ho l’impressione che le cose si siano fatte molto più complicate… Oggi vincono e convincono quelli che non hanno tempo per occuparsi di vittime, di poveri, di esuberi, di quelle “pietre di scarto” che nel Vangelo saranno “pietre angolari” dell’edificio della salvezza: quelli che girano lo sguardo da un’altra parte, quelli che fingono di non vedere l’orrore, quelli che sono gli eroi di cartapesta del nostro immaginario e della nostra etica pubblica. Oggi gli afflitti vengono ulteriormente afflitti e i consolati ulteriormente consolati…. La crisi del mondo scopre le proprie carte persino con uno sconosciuto vulcano islandese che risvegliandosi ed eruttando, con la sua nube premonitrice avvolge l’intera Europa. Non c’è varco che indichi l’intangibilità della vita: l’economia appiccica prezzi e toglie valore alle persone, la mercificazione non ha senso del limite, anche i bambini sono merce-lavoro esposti a qualsivoglia violazione, i vecchi sono de localizzati dalla finanza domestica a rottami o esiliati, le donne pagano a prezzo salatissimo la rivendicazione della propria libertà (cioè della propria dignità), torna la stagione degli acchiappafantasmi. Ognuno ha la propria ossessione, il proprio fantasma da esorcizzare.

La pace di Isaia, il disarmo dei pacifisti, il digiuno che purifica, l’astinenza dall’odio: dov’è tutto questo, carissimo don Tonino? Dov’è la Pasqua della responsabilità sociale e della convivialità culturale?

Anche la Chiesa spesso pare più vocata all’autodifesa che non all’annuncio. L’Annuncio, sì carissimo pastore, quello che tu hai saputo incarnare nella ferialità di un amore senza misura (charitas sine modo): amore capace di giudizio storico, capace di passione civile, capace di condivisione radicale… Tu sapevi essere la sentinella che annuncia l’alba.

Ti ho scritto questa lettera in tono apocalittico, perché tu mi hai insegnato che bisogna denunciare il male non per stimolare cinismo e rassegnazione, ma per allenare la coscienza alla ricerca del bene, del giusto, del bello».

(Lettera scritta da Nichi Vendola nella «Gazzetta del Mezzogiorno», 19 aprile 2010).

La sapienza dei Padri

Nella vita dei Padri del deserto, si narra di Bessarione, grande monaco vissuto nel secolo IV. Capitato in una chiesa durante la predica, gli toccò sentire il presbitero scacciare un peccatore, giudicato indegno di stare tra la gente per bene. Bessarione non mosse ciglio, si alzò con lui dicendo: “anch’io sono un peccatore”.

Preghiera

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.

È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.

Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza. Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.

So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me. La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita. Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni. Non vi sono tempi o luoghi senza scelte. E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo. Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me. Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» (2014).

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

 PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA I DOMENICA DI QUARESIMA