Prima lettura: Levitico 19,1-2.17-18
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”». |
«Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (v. 2). Con questo invito rivolto da Dio al suo popolo inizia la lettura.
Nel linguaggio corrente, per santo si intende chi ha condotto una vita esemplare, è andato in paradiso e, se invocato con fede, può concedere grazie e miracoli. Il vero significato di questo termine è però più ampio: indica ciò che è separato e consacrato a Dio. Erano santi i templi perché distinti, «ritagliati» dal mondo profano e riservati alla divinità. Varcare la soglia di un santuario era entrare nel mondo di Dio, per questo era necessario sottoporsi a numerosi e complicati riti purificatori.
Santi erano gli oggetti sacri che non potevano essere adibiti ad altri usi, sante erano le persone che vivevano in modo originale, che assumevano comportamenti fuori del comune. Il più santo era Dio, assolutamente diverso da tutto ciò che esiste. Cosa pretendeva dunque il Signore quando ha ingiunto al suo popolo di essere «santo»? Voleva forse che vivesse separato dagli altri popoli?
Israele ha inteso in questo modo il comando di Dio e ha pensato che fosse suo dovere evitare ogni contatto con coloro che avrebbero potuto portarlo all’idolatria. Per mantenere questa «santità», ha moltiplicato a dismisura i divieti: proibizione di entrare nelle case degli stranieri, di mangiare con loro o anche soltanto di stringere la mano a un pagano.
Essendo questa la mentalità comune, si rimane sorpresi quando si constata che, nel libro del Levitico, c’è un testo – ed è quello che ci viene proposto oggi — in cui la «santità» è intesa in modo completamente diverso: niente separazioni materiali dagli altri uomini, niente osservanze di prescrizioni rituali.
Per essere santi basta condurre una vita diversa, una vita che si concretizza nelle seguenti disposizioni: onorare il padre e la madre, osservare i sabati, non odiare il fratello, ri-nunciare al rancore e alla vendetta e amare «il tuo prossimo come te stesso» (vv. 3.17-18).
Quest’ultima clausola, assieme alla famosa raccomandazione del libro dei Proverbi: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare; se ha sete, dagli acqua da bere» (Prv 25,21), è il punto più alto cui è giunta la morale dell’Antico Testamento. Tuttavia, in essa è ancora presente un limite: l’amore richiesto non è universale; l’interpretazione rabbinica, infatti, lo restringeva ai membri del popolo d’Israele.
Seconda lettura: 1Corinzi 3,16-23
Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.
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2 La comunità è come un santuario ritagliato dal mondo profano; chi la mantiene unita e salda è lo Spirito, le divisioni che disgregano e minacciano di far crollare tutta la costruzione introducono un principio opposto e devastante. Chi si rende responsabile di un simile disastro sarà trattato dal Signore con estrema severità: «Dio – assicura Paolo – distrug-gerà lui» (v. 17). È l’immagine tradizionale del giudizio finale che serviva, nel linguaggio rabbinico, non a descrivere ciò che accadrà alla fine, ma a mettere in risalto l’estrema gravita di un’azione.
Nella seconda parte della lettura (vv. 18-23) viene ripreso il motivo della contrapposizione fra la «sapienza di Dio» e quella «degli uomini». Le discordie derivano dal fatto che i mèmbri della comunità seguono la «sapienza di questo mondo», opposta a quella di Dio.
Nella sua lettera, Paolo ha già detto che «il vangelo è una pazzia agli occhi degli uomini» (1,18.21.23), oggi afferma che la saggezza degli uomini è una follia per Dio (v. 19).
L’Apostolo non intende svalutare o disprezzare gli sforzi e le capacità della ragione umana; egli mette in guardia dai deliri di onnipotenza e dalle pretese insensate di chi è convinto che tutto possa essere ridotto al razionale e che si possa fare a meno della luce di Dio.
Questo pensiero introduce nelle interpretazioni nuove e provocatorie che, nel vangelo di oggi, Gesù darà ad alcuni testi dell’Antico Testamento, interpretazioni che propongono scelte morali la cui validità è garantita da Dio, non dalla «sapienza di questo mondo».
Vangelo: Matteo 5,38-48
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». |
Esegesi
Abbiamo ascoltato la scorsa domenica l’interpretazione di Gesù circa quattro testi della Toràh d’Israele. Oggi viene presentata quella relativa ad altri due.
La prima riguarda il modo nuovo di ottenere giustizia. Tutti siamo d’accordo che il male va contenuto e contrastato. Ma come?
Nelle società arcaiche dove non c’era un potere statale capace di mantenere l’ordine, si ricorreva facilmente alla vendetta, alla rappresaglia senza limiti. Il responsabile di una malefatta, una volta scoperto, veniva sottoposto a castighi esemplari, a punizioni pubbliche, tanto severe e crudeli, da dissuadere chiunque altro dal commettere simili errori. La ritorsione serviva come deterrente, ma era un modo barbaro di fare giustizia.
Lamec, il discendente di Caino, si tutelava incutendo terrore: «Ho ucciso un uomo per un graffio e un ragazzo per un livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta sette volte» (Gn 4,23-24). È per porre un argine a simili eccessi che la Toràh aveva stabilito: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,23-25). Questa è forse la legge più travisata della storia del diritto.
È citata ad esempio quando, ricevuto uno sgarbo, si ripaga con la stessa moneta. «Occhio per occhio e dente per dente» equivale, in questi casi, al rifiuto di avere compassione, di accordare clemenza al colpevole. In realtà la disposizione aveva tutt’altro significato: vietava i cosiddetti castighi esemplari e le rappresaglie. Ognuno doveva pagare per la colpa commessa, non per tutto il male presente nel mondo.
Intesa correttamente rimane valida anche oggi e, se praticata, garantisce l’equità nelle sentenze. Gesù non la considera decaduta, propone di andare oltre questa giustizia rigorosa e invita ad affrontare il problema in altro modo (vv. 38-42).
I rabbini del suo tempo insegnavano: «Sii ucciso, ma non uccidere», ma aggiungevano subito: se però qualcuno ti aggredisce e vuole toglierti la vita, tu non riflettere, non dire a te stesso: forse mi renderò colpevole del suo sangue; uccidilo prima che sia lui a ucciderti! Questa interpretazione dei rabbini non suscitava obiezioni. Era conforme alla logica umana e poteva trovare giustificazioni anche nella Toràh.
Ora ecco la sorpresa, Gesù non l’accetta e dice ai suoi discepoli: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio»; piuttosto che fare violenza al fratello, dovete essere disposti a subire l’ingiustizia (Mt 5,39). Siamo di fronte a parole inequivocabili; comunque, a scanso di equivoci, aggiunge quattro esempi, presi dalla vita quotidiana del suo popolo.
Il primo riguarda la violenza fisica: «se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra…» (v. 41).
Quando si riceve uno schiaffo, se l’aggressore non è un mancino, si viene colpiti sulla sinistra. Gesù parla della destra perché la violenza subita è maggiore: si tratta del manrovescio, un’offesa gravissima, punita in Israele con un’ammenda pari a più di un mese di stipendio. Al discepolo, Gesù non raccomanda di essere più buono, più mite nelle pretese di risarcimento, esige un comportamento radicalmente nuovo: «tu pórgigli anche l’altra».
«Buoni sì, ma non stupidi!», si suol dire. Certo, le parole di Gesù non devono essere prese alla lettera (questo sarebbe davvero sciocco). Anch’egli, quando ha ricevuto lo schiaffo, non ha presentato l’altra guancia, ma ha protestato (Gv 18,23). Ciò che esige dai discepoli è la disposizione interiore ad accettare l’ingiustizia, a sopportare l’umiliazione, piutto-sto che reagire facendo del male al fratello.
L’unico modo per interrompere il ciclo diabolico offesa-violenza è il perdono. Se alla violenza si reagisce con un’altra violenza, non solo non viene eliminata la prima ingiustizia, ma se ne aggiunge un’altra. Questo circolo può essere spezzato solo con un gesto originale, assolutamente nuovo: il perdono. Tutto il resto è vecchio, è qualcosa di già visto, di ripetuto senza sosta fin dagli inizi dell’umanità.
Il secondo esempio si riferisce all’ingiustizia economica (v. 40).
In Israele, uomini e donne indossavano due capi di vestiario: una tunica a maniche lunghe o a mezze maniche, portata sul corpo nudo, e un’ampia cappa (il mantello). Nel mantello ci si avvolgeva quando faceva freddo e lo si toglieva quando si svolgeva un lavoro servile. Ai poveri serviva anche da coperta per la notte, per questo la Toràh stabiliva che non poteva essere pignorato (Es 22,25-26).
Gesù propone un caso limite di ingiustizia: un discepolo viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che deve fare? Null’altro che manifestare il suo totale e incondizionato rifiuto di entrare in liti e contese. Per questo cede anche il mantello, l’ultimo indumento che gli rimane, quello che non poteva essere requisito come pegno, ed è disposto a rimanere nudo, come il suo Maestro sulla croce.
Il terzo esempio è l’abuso del potere (v. 41).
Capitava spesso che i soldati romani o qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero a fare da guide o a portare carichi. Un esempio lo abbiamo nel racconto della passione: Simone di Cirene è obbligato a portare la croce di Gesù (Mt 27,31).
Gli zeloti, cioè i rivoluzionari di quel tempo, suggerivano la ribellione e il ricorso alla violenza per opporsi a simili soperchierie. Epitteto esortava alla prudenza: «Se un soldato ti requisisce l’asino, non resistergli e non lamentarti, altrimenti verrai percosso e alla fine glielo dovrai consegnare lo stesso».
Gesù non fa alcuna considerazione di questo tipo, non si richiama alla prudenza; ai discepoli dice semplicemente: «se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due». Non detta una norma di saggezza, non suggerisce una strategia atta a convenire l’aggressore, non assicura nemmeno che un simile comportamento arrendevole otterrà risultati positivi in tempi brevi. Chiede al discepolo che, senza fare calcoli, mantenga il cuore libero dai risentimenti e si astenga da qualunque reazione che non sia dettata dall’amore.
Il quarto caso è quello della persona importuna che viene a chiedere un prestito (ma può anche essere un alloggio, un appartamento in affitto, un posto di lavoro, un prezzo di favore…) magari, come spesso accade, senza un minimo di discrezione.
Gesù dice al discepolo: «Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (v. 42). Non fingere di non capire, non cercare scuse, non inventare difficoltà inesistenti, non cercare di scaricare su altri il problema. Se puoi fare qualcosa, fallo e basta.
Nell’ultimo (il sesto) esempio Gesù si richiama a un duplice comandamento: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico» (vv. 43-48). Nell’Antico Testamento il primo lo si trova (Lv 19,18), ma il secondo no. Probabilmente Gesù non si riferisce a un testo specifico della Toràh, ma alla mentalità che si era creata in Israele a partire da alcuni testi biblici.
Nelle sacre Scritture si parla, a volte, di guerre sante (Dt 7,2; 20,16), compaiono sentimenti di vendetta (Sal 137,7-9), si manifesta il proprio attaccamento al Signore, ma in un linguaggio molto arcaico: «Non odio, forse, i tuoi nemici, Signore? Li detesto con odio implacabile» (Sal 139,12-22).
Espressione di questo odio è l’invito che i monaci esseni di Qumran rivolgevano ai loro adepti: «Amate tutti i figli della luce, ma odiate tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua colpa, nella vendetta di Dio».
Ci sono però nella Bibbia – è bene ricordarlo – altri testi in cui si ammonisce di non ricambiare il male (Prv 24,29) e si raccomanda l’amore al nemico: «Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo» (Es 23,5). Appellandosi ad essi, alcuni rabbini sostenevano che il comandamento: «Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) doveva essere esteso anche al nemico, ma l’opinione comune lo restringeva agli appartenenti al popolo giudaico.
In questo contesto religioso, il duplice comandamento di Gesù suona paradossale: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».
È l’apice dell’etica cristiana, è la richiesta dell’amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge anche chi fa del male.
Alcuni saggi dell’antichità hanno fatto proposte morali elevate: «Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in amici» (Diogene). «Proprio dell’uomo è amare anche coloro che lo percuotono» (Marco Aurelio); ma l’imperativo Ama i tuoi nemici è un’invenzione di Gesù.
Il secondo comando – pregate – suggerisce il mezzo per riuscire a praticare l’amore per «chi ci perseguita», per chi ci rende la vita impossibile: la preghiera. Essa eleva verso il cie-lo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo e fa vedere il malvagio con gli occhi di Dio, che non ha nemici.
Gesù invita a mostrarsi suoi figli, chiede ai discepoli di lasciar trasparire nei loro comportamenti l’indole del Padre celeste «egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». La distinzione fra malvagi e buoni e la lotta contro gli uomini, portata avanti in nome di Dio, sono bestemmie!
Due esempi (vv. 46-47) mettono a confronto il comportamento usuale degli uomini con la novità di vita di chi ha assimilato i pensieri, i sentimenti e le opere del Padre che sta nei cieli. La caratteristica dei «figli di Dio» è l’amore offerto a chi non lo merita e il saluto rivolto a chi si comporta da nemico. La formula di saluto era: Shalom, augurio di pace e di ogni bene. Con tutto il cuore, il discepolo desidera, anche per chi lo odia, il bene e, dimentico dei torti, si impegna perché questo avvenga.
La conclusione addita la meta irraggiungibile: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (v. 48).
La perfezione del giudeo consisteva nell’esatta osservanza dei precetti della Toràh. Per il cristiano è l’amore senza limiti come quello del Padre. Perfetto è chi non manca di nulla, chi è integro, chi non ha il cuore diviso fra Dio e gli idoli. La disponibilità a donare tutto, a non conservare nulla per sé, a mettersi totalmente a servizio dell’uomo — compreso il nemico – colloca sulle orme di Cristo e conduce alla perfezione del Padre che si dona tutto e che non esclude nessuno dal suo amore.
Meditazione
Quando ne sentiamo parlare o, peggio ancora, la sappiamo nuovamente riapplicata, abbiamo un sussulto alle viscere e ci assale un moto di disgusto. Eppure, per quanto possa apparirci difficile da credere, la legge del taglione venne introdotta quale efficace strumento per evitare il debordare della violenza incontrollata e porre un argine alla ‘legge del più forte’. A una offesa si potrà (o si dovrà?) contrapporre analoga ferita: non di più! Se abbiamo però il coraggio di non censurare pensieri e sentimenti che irrompono dentro di noi quando qualcuno ci tocca sul vivo, magari mettendo a nudo qualche tratto vergognoso della nostra esistenza, forse la legge ‘dell’occhio per occhio’ non ci apparirebbe così arcaica e primitiva, scoprendo anzi di essere capaci di ben peggiori violenze: quante volte abbiamo maledetto, imprecato – se non abbiamo addirittura augurato una rapida dipartita da questa terra – a chi (ci) faceva del male ‘gratuitamente’, senza ragione alcuna? Se situazioni aberranti ridestano fortunatamente in noi la capacità di scandalizzarci e di intervenire, la nostra reazione non è forse sempre commisurata alla colpa commessa (contro di noi)…
Comunque sia, le parole di Gesù riportate nel brano evangelico di questa settimana aprono la strada a un cammino infinito, stimolando le migliori energie positive che possono sprigionarsi anche da ognuno di noi. L’apparente contraddizione tra Primo e Nuovo Testamento, tra «avete inteso che fu detto» (5,38.43) e «ma io vi dico» (5,39.44), è solo la riproposizione religiosa della legge del taglione sopra citata: quelle norme, introdotte addirittura nel testo biblico, per cercare di evitare un male peggiore e l’insorgere dell’arbitrarietà, sono ora accostate allo splendore massimalista del desiderio del Signore: «Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). La speranza di un mondo riconciliato e unito nell’amore non è favola per bambini ma vigoroso ed esigente programma esistenziale del discepolo di Gesù.
È estremamente facile entrare in rotta di collisione con altri ma quanto è difficile ricucire un tessuto relazionale! Concretamente, cosa si può fare nei confronti del malvagio? Un’arte laboriosa si richiede… Un primo passo, già estremamente impegnativo, è non replicare al male con il male (cfr. 5,39-41), bloccare in sé quella spontanea reazione di vendetta che ci illude falsamente di ristabilire una qualche forma di giustizia e legalità. Non chiudere i ponti, arrivare a prestare a chi domanda (cfr. 5,42) suppone la capacità di riuscire a vedere nella persona richiedente – ‘il cattivo’ – almeno una scintilla di quel bene che altri – e magari lui stesso – non riesce più a scorgere: sperare pertanto in un cambiamento della persona è dare credito, dare fiducia a quel desiderio di umanità e autenticità che abita le profondità di ognuno di noi.
Gesù arriva addirittura a chiedere il superamento della reciprocità: un amore autentico non calcola ma si offre generosamente, perché «pieno compimento della Legge è l’amore» (Rm 13,9). E ci sferza con decisione, quasi irridendo quei nostri sforzi che ci appaiono impari: «se amate quelli che vi amano, cosa fate di straordinario?» (5,46.47). Va precisato che così dicendo Gesù non banalizza affatto l’amicizia o mette a un livello inferiore l’amore che può esistere tra coniugi: si sta parlando del caso del ‘nemico’, di cui mai si chiede di diventare amico. Sono situazioni differenti!
Forse mai come in questa situazione ci appare debole la nostra carne: come si può amare chi ci è stato o ci è ancora nemico? Senza entrare nelle infinite e reali sfumature dei singoli casi personali, su cui peraltro ognuno di noi è chiamato a verificarsi, comprendiamo come solo grazie all’azione dello Spirito santo ci possa essere offerta la possibilità di incamminarci su questo erto ma liberante cammino di crescita. Quella preghiera che sale incessantemente al Padre dal Signore risorto e che ci viene domandata anche verso i nostri persecutori (5,44) è forse l’espressione più completa di quella perfezione d’amore che Gesù ha testimoniato durante tutta la sua esistenza.
Vigiliamo sui nostri sentimenti e facciamone attenta verifica: stupiti dall’amore di Gesù, che ci ha amati mentre eravamo ancora nemici (cfr. Rm 5,10), saremo in grado di purificare il nostro cuore e camminare nella via dell’amore.
Preghiere e racconti
L’amore universale
“Parlando dell’amore, ci si riferisce di solito all’amore fra genitori e figli, marito e moglie, parenti, amici. Dipendendo per natura dai concetti di “io” e “mio”, questo amore è imprigionato nell’attaccamento e nella discriminazione. La gente vuole amare soltanto i propri genitori, il proprio coniuge, i propri figli e nipoti, i propri parenti e i propri amici. Poiché è irretita nell’attaccamento, teme i mali a cui sono esposte le persone amate e se ne preoccupa prima che accadano. Poi, quando le disgrazie vengono, la sofferenza è tremenda. L’amore fondato sulla discriminazione genera il pregiudizio, ovvero indifferenza e persino ostilità nei confronti di coloro che escludiamo dal nostro amore. Attaccamento e discriminazione sono cause di sofferenza per noi stessi e per gli altri. In realtà, l’amore a cui tutti gli esseri aspirano è l’amore universale. Nell’amore universale vi è compassione e dedizione. Compassione e dedizione non sono limitate ai genitori, al coniuge, ai figli, ai parenti, agli amici, ma si allargano a tutta l’umanità e a tutti gli esseri.
Compassione e dedizione hanno come fine la felicità di tutti e non pretendono nulla in cambio. Senza di essi, senza l’amore universale, la vita è senza gioia. Con la compassione e la dedizione agli altri, con l’amore universale, la vita si colma di pace e di gioia.”
(Thich Nhat Hanh, Old Pth White Clouds (1991); trad. It. Vita di Siddharta il Buddha, Ulbaldini, 1992, pag. 189)
Abbi misericordia di tutti, perché la misericordia trova fiducia presso Dio
Un fratello della Libia venne da abba Silvano sul monte Panefo e gli disse: «Abba, ho un nemico che mi fa del male; quand’ero nel mondo mi ha rubato il mio campo, mi ha spesso teso insidie, ed ecco che ha assoldato della gente per avvelenarmi. Voglio consegnarlo al giudice». L’anziano gli disse: «Fa’ ciò che ti da pace, figliolo». E il fratello disse: «Abba, se riceve il castigo, la sua anima non ne trarrà profitto?». L’anziano disse: «Fa’ come ti pare, figliolo». Il fratello disse all’anziano: «Alzati, padre, preghiamo e poi vado dal giudice».
L’anziano si alzò e dissero il «Padre nostro». Come giunsero alle parole: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12), l’anziano disse: «Non rimettere a noi i nostri debiti, come noi non li rimettiamo ai nostri debitori». Il fratello disse: «Non è così, padre». «È così, figliolo, – disse l’anziano – se veramente vuoi andare dal giudice per vendicarti, Silvano non fa altra preghiera per te». E il fratello si prostrò e perdonò al suo nemico.
Di abba Macario il Grande dicevano che diventò, come sta scritto, un dio sulla terra (cfr. Sal 81 [82] ,6), perché, come Dio copre il mondo, così abba Macario copriva le debolezze che vedeva come se non le vedesse, e quelle che udiva, come se non le udisse.
Abba Teodoro di Ferme interrogò abba Pambo: «Dimmi una parola!». Con molta fatica gli disse: «Teodoro, va’, abbi misericordia di tutti, perché la misericordia trova fiducia presso Dio».
(PADRI DEL DESERTO, Detti, in Detti editi e inediti dei padri del deserto, Bose, 2002, pp. 223; 297-298).
Amore del nemico
«Amare gli amici lo fanno tutti, i nemici li amano soltanto i cristiani.» Queste parole di Tertulliano (Ad Scapulam 1,3), che vogliono esprimere la differenza cristiana, vertono significativamente sull’amore per i nemici.
Questo appare come vera e propria sintesi del Vangelo: se tutta la Legge si sintetizza nel comando dell’amore di Dio e del prossimo (Marco 12,28-33; Romani 13,8-10; Giacomo 2,8), la vita secondo il Vangelo trova il suo compimento nelle parole e nei gesti di Gesù che indicano nell’amore del nemico l’orizzonte della prassi cristiana. Dice infatti Gesù: «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano» (Luca 6,27; cfr. Luca 6,28-29.35; Matteo 5,43-48) e tutta la sua vita – fino al momento della lavanda dei piedi anche a Giuda, colui che si era fatto suo nemico; fino alla croce, luogo del suo amore «fino alla fine» per i suoi (Giovanni 13,1); fino alla preghiera per i suoi carnefici mentre lo crocifiggevano (Luca 23,33-34) – attesta questo amore incondizionato rivolto anche al nemico. Il cristiano, chiamato ad assumere il sentire, il pensare, il volere di Cristo stesso (cfr. Filippesi 2,5), si trova dunque sempre confrontato con questa esigenza.
Ma occorre chiedersi: è realmente possibile amare il nemico, e amarlo mentre manifesta la sua ostilità e inimicizia, il suo odio e la sua avversione? È umanamente possibile tale scandalosa simultaneità? L’esperienza infatti ci rivela che il fascino per l’assolutezza dell’amore del nemico svanisce in assoluta dimenticanza e diviene incapacità di dargli consistenza esistenziale di fronte alle precise e concrete situazioni di inimicizia. E forse già questo rappresenta un primissimo, e umanamente fondamentale, momento del cammino verso l’amore del nemico. Inoltre il cristiano è portato dal Vangelo a vedere in se stesso il nemico amato da Dio e per cui Cristo è morto: questa è l’esperienza di fede basilare da cui soltanto potrà nascere l’itinerario spirituale che conduce all’amore per il nemico! Scrive Paolo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo peccatori e nemici, Cristo è morto per noi» (cfr. Romani 5,8-10). Su questa esperienza di fede occorre innestare la progressività di una maturazione umana che conduce ad acquisire il senso positivo dell’alterità, la capacità dell’incontro, della relazione e quindi dell’amore. Già l’Antico Testamento, quando invita l’israelita ad amare il prossimo come se stesso, propone una sorta di itinerario: «Io sono il Signore, non coverai odio verso tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Levitico 19,17-18). Anzitutto è richiesta l’adesione di fede a colui che è il Signore, quindi l’israelita è chiamato a impedirsi sentimenti di odio (atteggiamento negativo), poi a correggere colui che fa il male (atteggiamento positivo) proibendosi di farsi vendetta da sé (atteggiamento negativo) e amando così il suo prossimo come se stesso (atteggiamento positivo). All’amore si arriva attraverso un cammino, un esercizio.
L’amore non è spontaneo: esso richiede disciplina, ascesi, lotta contro l’istinto della collera e contro la tentazione dell’odio. Così si perverrà alla responsabilità di chi ha il coraggio di esercitare una correzione fraterna denunciando «costruttivamente» il male commesso da altri. L’amore del nemico non va confuso con la complicità con il peccatore! Anzi, proprio la libertà di chi sa correggere e ammonire chi compie il male nasce dalla profondità della fede e da un amore per il Signore che sono la necessaria premessa per l’amore del nemico.
Chi non serba rancore e non si vendica, ma corregge il fratello, è infatti anche in grado di perdonare: e il perdono è la misteriosa maturità di fede e di amore per cui l’offeso sceglie liberamente di rinunciare al proprio diritto nei confronti di chi ha già calpestato i suoi giusti diritti. Chi perdona sacrifica un rapporto giuridico in favore di un rapporto di grazia! Anche Gesù, quando chiede di amare il nemico, immette il credente in una tensione, in un cammino. Dallo sforzo per superare sempre di nuovo la legge del taglione, cioè la tentazione di rendere il male che si è ricevuto, il credente deve pervenire a non opporsi al malvagio, a contrapporre al male l’attivissima passività della non violenza, fidando nel Dio unico Signore e Giudice dei cuori e delle azioni degli uomini. Anzi, mossi dalla convinzione che il nemico è il nostro più grande maestro, colui che può veramente svelare ciò che abita il nostro cuore e che non emerge quando siamo in buoni rapporti con gli altri, i credenti possono obbedire alle parole del loro Signore che invitano a porgere l’altra guancia, a devolvere anche la tunica a chi vuole toglierci il mantello…
Ma perché tutto questo sia possibile è indispensabile ciò che sempre è ricordato dai Vangeli accanto al comando di amare i nemici, e cioè la preghiera per i persecutori, l’intercessione per gli avversari: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,44). Se non si assume l’altro – e in particolare l’altro che si è fatto nostro nemico, che ci contraddice, che ci osteggia, che ci calunnia – nella preghiera, imparando così a vederlo con gli occhi di Dio, nel mistero della sua persona e della sua vocazione, non si potrà mai arrivare ad amarlo! Ma deve essere chiaro che l’amore del nemico è questione di profondità di fede, di «intelligenza del cuore», di ricchezza interiore, di amore per il Signore, e non semplicemente di buona volontà!
(E. BIANCHI, Parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 169-172).
La via dell’amore
Guardate per quale via Dio va verso gli uomini, verso i suoi nemici. È la via che la Scrittura stessa chiama stoltezza, la via dell’amore sino alla croce. Riconoscere la croce di Gesù Cristo come l’invincibile amore di Dio verso tutti gli uomini, verso di noi come verso i nostri nemici: questa è la più grande sapienza. O crediamo che Dio ami noi più di quanto ama i nostri nemici? Crediamo forse di essere i beniamini di Dio? La croce non è proprietà privata di nessuno: essa appartiene a tutti gli uomini, ha valore per tutti. Dio ama i nostri nemici – ecco quel che ci dice la croce – per loro egli soffre, per loro conosce la miseria e il dolore, per loro ha dato il suo Figlio amato. Per questo è di capitale importanza che dinanzi a ogni nemico che incontriamo, subito pensiamo: Dio lo ama, per lui Dio ha dato tutto. Anche tu, ora, dagli ciò che hai: pane, se ha fame; acqua, se ha sete; aiuto, se è debole; benedizione, misericordia, amore. Ma lo merita? Sì. Chi infatti merita di essere amato, chi è bisognoso del nostro amore più di colui che odia? Chi è più povero di lui? Chi più bisognoso di aiuto, chi più bisognoso di amore del tuo nemico?
Hai mai provato a considerare il tuo nemico come qualcuno che, in fondo, ti sta dinanzi nella sua estrema povertà, e ti prega, senza poter dar voce alla sua preghiera: «Aiutami, donami quell’unica cosa che mi può ancora essere di aiuto a liberarmi dal mio odio, donami l’amore, l’amore di Dio, l’amore del Salvatore crocifisso»? Tutte le minacce, tutti i pugni protesi sono in definitiva un mendicare l’amore di Dio, la pace, la fraternità. Tu respingi il più povero dei poveri, lo metti alla porta, quando respingi il tuo nemico […]. Il carbone ardente brucia e fa male, quando ci tocca. Anche l’amore può bruciare e far male. Ci insegna a riconoscere quanto miseri siamo. È il dolore bruciante del pentimento quello che si fa sentire in colui che, nonostante l’odio e le minacce, trova solo amore, nient’altro che amore Dio ci ha fatto conoscere questo dolore. Quando lo abbiamo sperimentalo, ecco, è scoccata l’ora della conversione.
(D. BONHOEFPER, Memoria e fedeltà, Magnano 1979, 117s. e 123s., passim).
Pregare per i nostri nemici
I cristiani si ricordano a vicenda nelle preghiere (Rm 1,9; 2Cor 1,11; Ef 6,8;Col 4,3) e così facendo danno aiuto e forse salvezza a coloro per i quali pregano (Rm 15,30; Fil 1,19). Ma il testo decisivo sulla preghiera di compassione va al di là delle preghiere per i propri fratelli cristiani, per i membri della comunità, per gli amici e i parenti. Gesù dice senza possibilità di equivoci: «Io vi dico: amate vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44); e nel profondo della sua agonia sulla croce, prega per coloro che lo stanno uccidendo: «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 25,54). Qui viene reso visibile il vero significato della disciplina della preghiera. Pregare ci fa portare al centro del nostro cuore non solo coloro che ci amano, ma anche quelli che ci odiano. Questo e possibile unicamente se siamo disposti a fare dei nostri nemici parte di noi stessi, convertendoli in tal modo innanzitutto nel nostro cuore. La prima cosa che siamo chiamati a fare quando pensiamo agli altri come a dei nemici, è pregare per loro. Non è davvero cosa facile.
Ci vuole disciplina per far entrare nel profondo del nostro cuore coloro che ci odiano o coloro verso i quali nutriamo sentimenti di ostilità. Le persone che ci rendono la vita difficile e ci causano frustrazione, dolore e anche danno, sono le ultime ad avere una probabilità di trovare posto nel nostro cuore. Eppure ogni volta che superiamo l’intolleranza nei confronti dei nostri antagonisti e siamo disposti ad ascoltare il grido di coloro che ci perseguitano, riconosciamo anche in loro dei fratelli e delle sorelle.
Pregare per i nostri nemici è, dunque, un evento concreto, l’evento della riconciliazione. È impossibile innalzare i nostri nemici alla presenza di Dio e contemporaneamente continuare a odiarli. Visti nel contesto della preghiera, anche il dittatore senza scrupoli e il torturatore perverso cessano di apparire come oggetto di paura, di odio e di vendetta, perché quando preghiamo siamo al centro del grande mistero della divina compassione. La preghiera trasforma il nemico in amico e per questo è l’inizio di una nuova relazione. Probabilmente non c’è preghiera tanto potente quanto quella per i nostri nemici. Ma è anche la preghiera più difficile, perché è la più contraria ai nostri moti naturali.
Questo spiega perché alcuni santi ritengono la preghiera per i nemici il principale criterio di santità.
(J.M. Nouwen, Compassione, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 41).
Per imparare l’amore di Dio
Se vuoi imparare l’amore di Dio, devi cominciare col pregare per i tuoi nemici. È più difficile di quanto sembri. Pregare per gli altri ci obbliga a volere ciò che è meglio per loro, il che è tutt’altro che facile se, per esempio, riguarda un compagno di scuola che parla male di te, una ragazza che considera qualcun altro più attraente di te, uno che si proclama tuo amico e che ti sfrutta per tanti piccoli favori che non vorresti fargli, o un collega che fa del suo meglio per soffiarti il posto. Eppure, ogni volta che preghi – ma preghi davvero – per i tuoi nemici, ti accorgi che il tuo cuore si rinnova.
Nel contesto della tua preghiera, scopri subito che i tuoi nemici sono in realtà esseri umani come te, amati da Dio come sei amato tu. Ne deriva che gli steccati che hai eretto tra ‘lui e me’, ‘noi e loro’, ‘il nostro e il loro’ scompaiono. Il tuo cuore guadagna in profondità e ampiezza e si apre sempre più a tutti gli esseri umani che Dio nel suo amore fa vivere qui in terra.
Mi riesce difficile immaginare una via per giungere all’amore che sia più concreta della preghiera per i nemici. Ti obbliga infatti ad accettare la verità non sempre gradita che, agli occhi di Dio, tu non sei ne più degno né meno degno di essere amato di quanto lo siano gli altri, e crea una consapevolezza di profonda solidarietà con tutti gli uomini. Crea inoltre in te una compassione universale e un cuore sempre più libero dall’istinto di ricorrere alla sopraffazione e alla violenza. E avrai la grande gioia di scoprire che ti è impossibile arrabbiarti con coloro per i quali hai veramente pregato. E vedrai che comincerai a parlare in un altro modo a loro o di loro e che sarai proprio deciso a fare del bene a chi in qualche modo ti ha fatto del male.
(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 64).
Con tutto il cuore
Se ami Dio senza amare il prossimo,
ami soltanto un’immagine e di un amore immaginario.
L’amore di Dio che non sia nel contempo servizio del prossimo,
è un’immensa menzogna che uno racconta a se stesso…
Se ami il prossimo senza amare Dio,
che amore è questo?
E’ l’istinto del gregge e gusto del calore
e del tanfo della moltitudine,
è la paura di stare da soli, è il piacere di strofinarsi agli altri
oppure odio in comune di qualche altro gregge.
Se ami te stesso senza amare né Dio né il prossimo
questo amore è il contrario dell’amore.
Ma se ami Dio e il prossimo senza amare te stesso,
l’amor tuo non è un dono,
poiché non si può far dono di ciò che non si ama;
è il contrario di un dono: è un oblio;
è il contrario di un sacrificio: è un suicidio.
E’ perdita, non amore, poiché in te non vi è nessuno
che possa amare.
Ordunque, ama Dio per amore del prossimo e di te stesso
ama il prossimo per amore di Dio e di te stesso
ama te stesso per amore del prossimo e di Dio.
Non opporre gli opposti, anzi congiungili nell’amore.
(Lanza del Vasto)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.
– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10, 71 pp.
– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 20
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