Prima lettura: Isaia 35,1-6a.8a.10
Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio. Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto. Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto. |
Il brano riporta uno dei più significativi oracoli messianici citati da Gesù per capire il senso delle sue “opere”. Appartiene alla così detta “piccola apocalisse” di Is 34-35 (la “grande apocalisse” è in Is 24-27), databile al tempo del ritorno dalla deportazione a Babilonia e della ricostruzione. Per rinfrancare i rimpatriati, alle prese con tante difficoltà materiali e ancora tentennanti nella fede e nella speranza, il profeta, col linguaggio allegorico proprio dell’apocalittica, descrive la sorte disastrosa di chi va contro Dio e la sorte gloriosa invece di chi sta nella sua alleanza: Is 34 annuncia la rovina di tutti i popoli ribelli a Dio, in particolare di Edom, complice dei distruttori (cf. Is 34,8 e Sal 136,7); Is 35 invece invita i reduci a esultare, per la nuova e meravigliosa realtà che stanno per sperimentare. Il brano liturgico riporta tutto Is 35, eccetto due versetti, e si può suddividere in due parti.
1. Splendida ripresa dell’ambiente, per opera di Dio (vv. 1-4). Al quadro desolante dei castighi al paese di Edom (Is 34), il profeta contrappone quest’altro gioioso, mirabilmente florido e bello, per Sion. Prima dipinge la ripresa rigogliosa della terra promessa, coi paragoni proverbiali del Libano e del Carmelo, allora splendidi e lussureggianti di vegetazione, gloria di Dio creatore. Poi prospetta la ripresa fisica e morale dei rimpatriati in tale ambiente: mani e gambe irrobustite, per lavorare sicuri e muoversi spediti, e superamento delle idee e dei sentimenti ancora incerti e timorosi per gli «smarriti di cuore». Dio stesso sta per tornare fra loro (cf. Is 40,10-11), conclude l’oracolo. Viene a “salvare”, nel duplice senso della liberazione e della salute piena. In questo modo viene con lui la “vendetta”, che è punizione per i deportatori e ricompensa per i liberati che tornano a lui. Essa a noi ripugna tanto, perché la pensiamo acida e sproporzionata come la nostra. Ma la vendetta divina, sia pure con linguaggio crudo, l’Antico Testamento la attende e la invoca da Dio onnisciente e infinitamente giusto e misericordioso (cf. Ger 1,20), intendendo sempre la sua giustizia. A compierla ora è il Dio dell’alleanza, il “Santo di Israele” che interviene come vindice (go’el) del suo popolo, per tirarlo fuori dalle difficoltà in cui è caduto e rimetterlo sulla strada della salvezza.
2. Ripresa interiore profonda del popolo di Dio (vv. 5-10). L’opera di salvezza nelle persone è preannunciata in tre momenti. Anzitutto una nuova vitalità: si apriranno gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi, lo zoppo salterà come un cervo e griderà di gioia il muto… Non più solo mani e ginocchia, ma tutte le membra e i sensi dell’uomo tornano integri. Si tratta in primo luogo dell’uscita dallo scoraggiamento e dal pessimismo, nel quale sono caduti i deportati (Is 42,18-23), e della capacità di percepire il germoglio della nuova realtà (Is 43,19): quindi una ripresa interiore, profonda, spirituale, prima che fisica. Ad essa soprattutto fa riferimento la risposta di Gesù al Battista, ampliandola ai lebbrosi guariti e addirittura ai morti risuscitati. Secondo momento è il riconoscimento della “Via santa”, quella da appianare nel deserto per il rimpatrio, rapido e sicuro, sulla quale si rivelerà la «gloria» di Dio liberatore (Is 40,3-5), frutto però di quella spirituale che riporta a camminare con Dio nella vita. Su questa il Battista riconosceva la sua missione (cf. Mt 3,3; Gv 1,23). E anche Gesù vi allude, con la buona novella ai poveri e la beatitudine per chi non trova inciampo nella sua proposta messianica (Vangelo). Terzo momento sarà la felicità perenne in Sion, per il popolo uscito dalla tristezza e dal pianto e ristabilito nella sua regalità.
Gli annunci profetici e le “opere” di Gesù dunque si pongono come “segni” di una realtà che sta nei risvolti più profondi dell’uomo e che si sviluppa nel futuro messianico della “salvezza”.
Seconda lettura: Giacomo 5,7-10
Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore. |
Alla fine ormai della lettera, Giacomo fa le raccomandazioni per l’attesa della venuta del Signore, che già arriva in quanto va succedendo alle «dodici tribù in diaspora» (Gc 1,1 ), cioè al nuovo popolo di Dio pellegrino nella storia. Cerchiamo di cogliere questi aspetti di escatologia immanente.
1. L’imperativo iniziale «siate costanti», alla lettera sarebbe “siate magnanimi”, allargate la mente, e così sarete pazienti e tolleranti.
Vedi l’agricoltore (v. 7). La sua pazienza è tutt’altro che inerte e passiva: egli attende il prezioso frutto della terra dalle cure che vi prodiga, ma rafforza la sua speranza con la fiducia nelle piogge stagionali, dono di Dio.
Così i cristiani allarghino l’animo e irrobustiscano i cuori, riconoscendo che il Signore viene già quando affrontano le persecuzioni, vivono le rinunce e testimoniano la fede. E non si perdano in lagnanze reciproche, per non essere giudicati da colui che, dopo la prima venuta nella misericordia, torna piuttosto come giudice in quella intermedia e in quella finale: Ecco, vedi il giudice è alle porte (v. 9).
2. Un secondo imperativo invita a prendere come modelli di sopportazione dei mali e di grandezza d’animo i profeti. Il loro esempio non è generico, ma fatto di comportamenti e di motivazioni date dalla fede: per questo Giacomo specifica: «che hanno parlato nel nome del Signore». Sempre la pazienza cristiana è frutto della grandezza d’animo data dalla parola di Dio e della forza di sopportare, comunicata dalla grazia.
Vangelo: Matteo 11,2-11
In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose Loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano. Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Si, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». |
Esegesi
Il riconoscimento dell’identità di Gesù come Messia, da parte dei discepoli, avviene a Cesarea di Filippo, nei Sinottici, e verso di esso tende tutta la prima parte del loro racconto. Matteo e Luca inseriscono una tappa importante con l’episodio che si legge oggi, nel quale Gesù stesso indica gli elementi per riconoscerlo e a sua volta delinea l’identità dell’interlocutore Giovanni, che gli ha preparato la strada, come farà poi a Cesarea anche con Pietro, che continuerà la sua opera.
Il discorso sulle identità divide il brano in due parti.
1. La identità di Gesù (vv. 2-6). È o non è lui “il Veniente”? Il titolo accomuna il Messia con Dio (cf. Ap 1,4-5). Sono le sue “opere” a provocare la domanda del Battista. Lui lo aveva annunciato alla gente con la scure posta alla radice e il ventilabro in mano, per raccogliere nel granaio il suo grano e bruciare la pula nel fuoco inestinguibile, cioè come giudice ultimo di tutta la iniquità umana (cf. Mt 3,10-13). Gesù invece compie gesti pieni di misericordia, verso i malati e i peccatori, e fa discorsi tutti ispirati all’amore e alla condivisione, in particolare sulla montagna (Mt 5-7) e ai missionari (Mt 10).
Gesù non da una risposta diretta, ma invita i discepoli del Battista a fare discernimento sui prodigi che compie, con riferimenti al libro di Isaia, dove sono ricorrenti i temi del “vedere” e “ascoltare”. In esso, mentre il profeta dell’VII sec. a.C. era stato disilluso da Dio, sull’esito del ministero presso un popolo superficiale che non vede con gli occhi, non ode con gli orecchi e non comprende con il cuore (cf. Is 6,10), gli oracoli messianici dei suoi continuatori, nel VI sec. a.C., annunciano una prodigiosa riapertura degli occhi e degli orecchi (cf. Prima lettura). Usando le loro espressioni, Gesù vuole dire che sta realizzando i loro annunci e invita i discepoli del Battista a riferire quanto essi stessi avranno saputo ascoltare e vedere.
In questo modo egli presenta le sue “opere” non fine a se stesse, ma come “segni” di quanto va compiendo nella realtà più profonda. L’aveva già indicata nei singoli prodigi con le richieste della fede, che fa risorgere la vita dello spirito, e con la remissione dei peccati, che toglie l’ostacolo più grosso. Adesso l’ha sintetizzata con la frase «ai poveri è annunciato il vangelo», che un po’ riassume i prodigi elencati e i riferimenti a Isaia (cf. Is 61,1), ma più ancora indica il suo programma, proclamato sul monte con le beatitudini. Egli evangelizza i poveri (Mt 5,3-10), nel senso che valorizza loro, e non i ricchi e sazi, come base per costruire il regno di Dio. A quelle beatitudini ora ne aggiunge un’altra: beato chi non trova inciampo (scandalo) in lui per questa valorizzazione.
2. La identità del Battista (vv. 7-11). A scanso dell’equivoco possibile che sia anche lui a trovare inciampo, Gesù stesso prende l’iniziativa di delinearne la identità, tutt’altro che estranea alla propria. Fra tre ipotesi, ripetendo per tre volte la domanda: «che cosa siete andati a vedere nel deserto?». La prima ipotesi, una canna sbattuta dal vento, cioè un opportunista folle, è smentita dalla verità della terza. La seconda, un uomo in morbide vesti, cioè un facoltoso in cerca di potere, è smentita dallo stile del personaggio e dalle sue contestazioni agli uomini di palazzo.
La terza ipotesi, un profeta, non solo è vera ma dice ancora troppo poco. Assai più che profeta egli è il precursore del Messia, ne ha preparato la venuta. Non è quindi inciampo o scandalo il suo, ma bisogno di capire meglio l’intendimento di Gesù, sentito nel battesimo al Giordano, di adempiere «ogni giustizia» (Mt 3,14-15) cioè ogni disposizione divina sul Messia. Gli viene risposto che, per provocare le scelte fondamentali, egli usa la misericordia e la condivisione e non ancora il giudizio definitivo: sono criteri di discernimento per l’appartenenza a Dio assai più taglienti e profondi della scure, del ventilabro e di qualsiasi discriminazione violenta, perché costituiscono e non solo annunciano il regno dei cieli. In questo senso, chi entra nella costruzione del regno con lui è più grande del Battista, che pure supera tutti i profeti dell’umanità. In questo senso pure si può dire che le attese del Battista non sono smentite, ma portate a guardare più in profondità.
Meditazione
L’annuncio della venuta del Signore, la difficile arte dell’attesa del Veniente, la gioia che Colui che viene suscita: questi i temi salienti della III domenica di Avvento. Che affermano anche la non-evidenza della venuta del Signore. L’annuncio isaiano della venuta liberatrice del Signore raggiunge i figli d’Israele in una situazione di «tristezza e pianto» (Is 35,10); le opere che attestano che Gesù è il Messia, il Veniente, sembrano trascurare la «liberazione dei prigionieri» (Is 61,1; Lc 4,18) e sono narrate a Giovanni che è in prigione e vi troverà la morte (Mt 14,3-12); la comunità cristiana è confrontata con l’annuncio di una venuta del Signore che chiede un atteggiamento di sopportazione, fede, pazienza, simile a quello dell’agricoltore o dei profeti (II lettura), o di Giobbe (Gc 5,11). L’agricoltore attende un frutto che dipende da piogge che possono anche non venire; i profeti hanno parlato e agito in nome di Dio suscitando spesso ostilità e rifiuto; Giobbe ha perseverato nei dolori, nel non-senso, facendo della sua attesa una lotta drammatica. Così, l’attesa del Signore si tinge della tinta della pazienza.
La pazienza è l’arte di vivere l’incompiutezza e la parzialità. La preghiera ebraica che recita: «Io credo con fede piena e perfetta alla venuta del Messia e, benché tardi, io l’attendo ogni giorno» esprime bene l’idea di pazienza insita nell’attesa. Dietro quel «benché tardi» vi è la drammaticità dell’incompiuto e dell’irredento sperimentati nel quotidiano. La pazienza è necessaria per chi vive nella storia l’attesa del Regno: essa si declina come pazienza nei confronti di Dio, della chiesa e di se stessi. Nei confronti di Dio, perché Dio non ha ancora adempiuto, per sempre e per tutti, le promesse di guarigione dei ciechi e degli zoppi, dei muti e dei sordi, le promesse di salvezza dal male, dal peccato, dalla morte; nei confronti della chiesa, perché la comunità cristiana spesso si mostra inadempiente rispetto alle esigenze evangeliche; nei confronti nostri, perché scopriamo in noi inadeguatezze e difformità rispetto alla nostra vocazione. La pazienza è «forza nei confronti di se stessi» (Tommaso d’Aquino), capacità di non lasciarsi andare all’abbattimento, alla tristezza, alla disperazione. E questo grazie al fatto che la pazienza è sguardo in grande (makrothymía) sulla realtà, su Dio, sulla chiesa, su noi stessi. La pazienza è grandezza d’animo e si concretizza nell’amore: «l’amore pazienta» (1 Cor 13,4).
«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?» (Mt 11,3). La domanda del Battista indica non solo che la fede è traversata dal dubbio, ma che il dubbio può affinare la fede e ridurre la distanza tra l’immagine del Signore che il credente nutre e il Signore stesso nel suo rivelarsi. Per il Battista la fede in Gesù Messia cessa di essere una verità evidente e, da certezza granitica predicata a gran voce, diviene domanda sussurrata. Anche la fede, la nostra personale fede, ha una storia. E anche la nostra fede non è solo luce, ma luce e buio, luce nel buio, e conosce zone grigie.
Certamente significativo è il fatto che il Battista si rivolga a Gesù stesso ed esponga a lui la sua domanda. La domanda di fede non spegne l’amore, anzi, Giovanni si rimette a ciò che Gesù stesso gli dirà: «Sei tu…?». Più che mai la fede appare qui come affidamento personale. L’amore purifica la fede, la rende sempre più relazione tra viventi.
Nel deserto come nella prigione, nella predicazione autorevole come nella domanda umile, Giovanni continua ad attendere il Veniente. Giovanni è l’uomo dell’attesa, ovvero l’uomo che vive sotto il segno della grazia: la vita che ha ricevuto per grazia da Dio nel passato (Giovanni significa «il Signore fa grazia»; cfr. Lc 1), egli la attende come grazia dal futuro attenendo nell’oggi il Messia veniente. E proprio la sua attesa apre i luoghi di morte e di chiusura che sono il deserto e la prigione, alla vita e alla libertà. La sua attesa diviene speranza per le folle che andavano a lui nel deserto e per i discepoli che andavano a trovarlo in prigione. L’attesa cristiana della venuta del Signore è dono di speranza per gli uomini.
Preghiere e racconti
La fede è possedere quello che si spera soltanto
Nelle mie riflessioni sulla fede ho incontrato una pagina di un documento che i cristiani riconoscono come “parola di Dio”: il capitolo 11 della Lettera che un autore anonimo ha scritto due mila anni fa agli Ebrei per mostrare che Gesù di Nazaret è proprio quel salvatore che loro stavano aspettando. […] Il capitolo si apre con una definizione di fede, tanto originale quanto simpatica: “La fede è un modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere già le cose che non si vedono” (Eb 11,1).
Nei fatti della nostra vita ci sono delle cose che si vedono e ce ne sono molte altre che invece restano nascoste. Di solito, è facile distinguere tra ciò che si vede. Vedo l’amico che è fisicamente presente vicino a me. Posso sentire la sua voce, gioire (o rammaricarmi) della sua presente. Questa non è l’unica possibile. Altre persone sono vicine anche se, in questo momento, non lo sono fisicamente. Non le possiamo vedere, se non con gli occhi dell’amore e della fantasia. In questi casi è chiaro ciò che si vede e ciò che non si vede.
Il gioco tra ciò che si vede e ciò che non si vede, suggerito dalla definizione di fede della Lettera agli Ebrei, non va inteso come la differenza tra un amico che sta fisicamente vicino a te ed un altro, egualmente simpatico, che non è in questo momento vicino fisicamente.
In un avvenimento e in una persona, possiamo vedere ciò che, in qualche modo, può essere toccato con mano. Riconoscimento però che non finisce tutto lì. In una persona amara c’è un mistero, grande e profondo, che tutta l’avvolge. Questa realtà invisibile e misteriosa è tanto decisiva da avvertire la persona stessa in un modo specialissimo.
Quello che non si vede diventa la categoria attraverso cui impostiamo il nostro giudizio e il nostro rapporto con quello che si vede. […]
La definizione di fede che ho riportato dalla Lettera agli Ebrei parte da questa situazione e aggiunge: la fede è quell’atteggiamento che permette di vedere anche quello che non si vede, fino al punto di valutare ed esprimere quello che si vede dalla parte di quello che non si vede.
Un piccolo particolare non dovrebbe sfuggirci. La definizione di fede riportata contiene una ripetizione. Apparentemente le due frasi dicono, con parole diverse, la stessa cosa. C’è però una sottolineatura originale: le cose che non si vedono sono “sperate”… e cioè attese, desiderate, ricercate. La voglia di verità porta a scavare in quello che si vede per arrivare a mettere le mani, con gioia, sul mistero che si portano dentro.
(Riccardo TONELLI, Vivere di Fede in una stagione come è la nostra, Roma, LAS, 2013, 17-19)
Bellezza oltre ogni descrizione
Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.
Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.
Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.
“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.
La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.
Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.
(Alister Mc Grafth, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37)
Il buio e la luce
È buio dentro di me,
ma presso di te c’è la luce;
sono solo, ma tu non mi abbandoni;
sono impaurito, ma presso di te c’è l’aiuto;
sono inquieto, ma presso di te c’è la pace;
in me c’è amarezza, ma presso di te c’è la pazienza;
io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci.
(Dietrich Bonhoeffer)
Il luogo dell’appuntamento
Dio e l’umanità sono come due amanti che hanno sbagliato il luogo dell’appuntamento. Tutti e due arrivano in anticipo sull’ora fissata ma in due luoghi diversi. E aspettano, aspettano, aspettano. Uno è in piedi inchiodato sul posto per l’eternità dei tempi. L’altra è distratta e impaziente. Guai a lei se si stanca e se ne va!
(Simone Weil)
Nell’attesa paziente
No, non è in tuo potere far aprire il bocciolo; scuotilo, sbattilo,
non riuscirai ad aprirlo.
Le tue mani lo guastano,
ne strappi i petali e li getti nella polvere,
ma non appare nessun colore e nessun profumo.
Ah! A te non è dato di farlo fiorire.
Colui che invece fa sbocciare il fiore, lavora semplicemente,
vi getta uno sguardo all’alba e la linfa della vita scorre nelle vene del fiore.
Al suo alito il fiore dispiega lentamente i suoi petali
e si culla lentamente al soffio del vento.
Come un desiderio del cuore, il suo colore erompe,
e il suo profumo tradisce un dolce segreto.
Colui che fa sbocciare veramente il fiore lavora sempre solo
semplicemente e silenziosamente.
(Poesia indiana)
La fede è speranza
Paolo […] dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete “affliggervi come gli altri che non hanno speranza” (1 Ts 4,13).
Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiamo nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una “buona notizia” – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”. Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova».
(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, n.2).
L’incontro con Dio
«Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile. L’esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. Penso all’africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All’età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si trovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all’avanzata dei mahdisti, tornò in Italia. Qui, dopo “padroni” così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un “padrone” totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava “paron” il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un “paron” al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal “Paron” supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava “alla destra di Dio Padre”. Ora lei aveva “speranza” – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza di questa speranza lei era “redenta”, non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio».
(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, n.3).
«Il tempo si è fatto breve»
È scritto: «La speranza prolungata fa male al cuore»; ma benché sia stanca per la dilazione del desiderio, tuttavia è sicura della promessa. Sperando in essa e ponendo in essa ogni mia attesa, aggiungerò speranza a speranza (…).
Signore Gesù, ti siano rese grazie. Io, una volta per tutte, ho fatto affidamento alle tue promesse. Tuttavia «vieni in aiuto alla mia incredulità», perché, dimorando là, immobile, io ti attenda sempre, finché veda ciò che credo. Sì, io credo di «poter contemplare la bontà del Signore nella terra dei vivi». E tu, lo credi? Allora il tuo cuore si fortifichi ed attenda con pazienza il Signore. Se egli richiede una lunga pazienza, altrove promette di tornare presto. Da una parte vuole educarci alla pazienza, dall’altra confortare gli scoraggiati.
«Il tempo si è fatto breve», soprattutto per ciascuno di noi, benché sembri lungo a chi si consumi, sia per il dolore, sia per l’amore».
(GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, 1, 3-4).
Preghiera
«Beato chi non si scandalizzerà di me»: sostieni la nostra fede, Signore Gesù, quando è tentata di scandalizzarsi per la tua ‘debolezza’.
Donaci la convinzione e la sapienza che animava il tuo apostolo Giacomo: egli, che ben conosceva le grandiose promesse di Isaia, ha creduto che tu le hai realizzate, anche se nulla sembrava apparentemente cambiato nel mondo, dopo il tuo passaggio.
Dona anche a noi la pazienza dell’agricoltore, per seminare speranza.
Fa’ che accogliamo con riconoscenza il tuo vangelo di gioia, la buona notizia per i poveri e insegnandoci la pazienza; edifica in noi una fede forte.
Donaci la beatitudine di essere tuoi discepoli, la tua stessa gioia, la gioia del Padre nel fare del bene, anche quando ci toccasse di apparire perdenti.
Ravviva in noi la memoria dei benefici ricevuti, perché possiamo deciderci ancora oggi per il tuo vangelo e perché, anche quando non riconosciamo le tue vie, continuino come il Battista ad esserti fedeli.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004- .
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
PER L’APPROFONDIMENTO: