Prima lettura: Amos 6,1.4-7
Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti. |
La insipienza del ricco bollata nel Vangelo ha avuto, purtroppo, tanti modelli prima, e troverà ancora tanti imitatori.
Il tempo di Amos (VIII secolo a.C.) conosce un boom di benessere che alcuni fortunati ritrovamenti archeologici hanno potuto documentare: letti d’avorio (cf. v. 4), case estive, (cf. 3,75), sfacciata ricchezza. A fronte di un florido benessere per pochi, sta la povertà o la miseria per molti. Non è ammissibile una simile sperequazione. Lo squilibrio sociale è indice di uno squilibrio morale.
La parola del profeta, scarna e rude perché viene da un pastore avvezzo ad una vita essenziale, giunge chiara e forte, tagliente e impietosa. Se alcuni si danno alla ‘bella vita’, dilettandosi nel dolce far niente, nelle gozzoviglie e nei piaceri, altri sono abbandonati a se stessi. La descrizione del lusso e della irresponsabilità della classe dirigente non ha eguali in tutto l’A.T. Amos sferza coloro che non si rendono conto di andare verso il baratro, e non si curano della «rovina di Giuseppe», cioè della situazione disperata e tragica del paese, ormai allo sfascio politico, sociale e religioso.
La rovina, imminente e ormai palpabile, prende il tragico nome di «esilio». Il quadretto iniziale, quasi ‘da Olimpo’ serve da capo d’accusa per la condanna finale. Anche qui, come già per il Vangelo, si assiste ad un catastrofico ribaltamento di situazione.
Il messaggio diventa monito per non perdere tempo in cose fallaci e, in maniera positiva, un invito a scelte coraggiose, capaci di ripristinare un equilibrio. Finché siamo nel tempo, abbiamo l’opportunità per un rinnovamento, certi che il futuro roseo viene preparato dall’impegno di oggi.
Seconda lettura: 1Timoteo 6,11-16
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen. |
Una lettera calda, ricca di paterna attenzione al giovane collaboratore Timoteo, che Paolo si premura di istruire e di indirizzare perché sia una corretta guida della comunità ecclesiale. Prima di concludere la lettera, l’Apostolo sente il dovere di incoraggiare il caro amico. Una solenne dossologia suggella il brano e, ormai, tutta la lettera.
«Uomo di Dio» è l’onorevole titolo con il quale Paolo chiama Timoteo. Forse è da intendere nel senso che il suo collaboratore è un uomo al servizio di Dio, uno strumento nelle sue mani, così come lo furono gli uomini dell’Antica Alleanza. L’incoraggiamento dondola su due verbi all’imperativo: «evita», riferito, secondo la maggior parte degli esegeti al contenuto espresso nei vv. 2b-10, e «tendi» («insegui»), inteso nel senso di ricercare con l’intento di ottenere «la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza, la mitezza». Elencando alcune virtù, sempre a mo’ di esempio, viene affermata l’esigenza di una vita totalmente e radicalmente cristiana. Parlando di «giustizia» (greco dikaiosyne) non si intende il senso paolino di giustizia divina concessa gratuitamente (cf. soprattutto Rm e Gal), ma la vita retta che Dio indica. Con «pietà» si fa riferimento all’esistenza cristiana pratica. Pertanto, considerando la coppia giustizia-pietà, abbiamo la definizione dell’intera esistenza umana in rapporto a Dio e agli uomini. L’elenco prosegue poi con virtù che sono specifiche dell’ethos cristiano.
Segue, al v. 12, una nuova immagine, quella del combattimento, che Paolo usa anche altrove (cf. 1Cor 9,24-27; Fil 3,12-14). L’uomo di Dio deve affrontare la gara, come un campione e con decisione, per due motivi: per rispondere alla chiamata di Dio e per onorare l’ingaggio. Si insinua così il vero significato dell’immagine: Paolo richiama alla memoria di
Timoteo — e attraverso lui a tutti i cristiani — la conoscenza che la fede viene vissuta nel contrasto, e che la vita eterna va conquistata nella lotta. Lo sforzo, a cui va l’appello, è aperto alla speranza di conseguire lo scopo mediante la vocazione di Dio. Oziosi e neghittosi sono categoricamente esclusi dal conseguimento della vita. Nella chiamata è incluso l’impegno della professione di fede emessa un giorno «davanti a molti testimoni», la quale non può essere tradita.
Grazie ad un fortunato parallelismo, la professione cristiana di Timoteo davanti a molti testimoni è posta in relazione con la testimonianza che Gesù Cristo ha reso davanti a Pilato. Cristo è stato il primo a dare una eccellente testimonianza, mediante la sua passione e morte. Ora spetta a Timoteo mantenersi fedele a quella professione di fede e adempiere i comandamenti di Dio con una condotta di vita irreprensibile.
Poi il discorso si eleva. Sembra che Paolo utilizzi il materiale di una antica professione di fede. La giovane guida della comunità di Efeso deve custodire puro «il comandamento», fino al solenne ritorno di Cristo nella parusia. Il termine «manifestazione» (in greco epifáneia), secondo alcuni autori, richiama l’idea di una festosa comparsa, quando improvvisa e straordinaria; comunque, di essa non è dato sapere il momento. Nelle lettere pastorali il termine epifáneia indica la manifestazione di Cristo nel suo trionfo escatologico (cf. 2Tm 1,10; Tt 2,11).
La sezione si chiude con una dossologia innica, che ricorda quella dell’inizio della lettera (cf. 1,17), e termina in bellezza l’incoraggiamento di Paolo a Timoteo. In questi versi, di mirabile fattura poetica, sono condensati alcuni attributi divini di derivazione sia biblica che ellenistica. La dossologia «a lui onore e potenza per sempre. Amen» pone il sigillo al nostro brano. Nel suo insieme, ricorre ancora 1Tm 1,17 e 2Tm 4,18. Qui la gloria è sostituita da forza e potenza. La cosa è dovuta alla forte sottolineatura del primato di Dio e della sua sovranità nei confronti di ogni presunta divinità imperiale. Il «per sempre» taglia corto, quasi a dire che «su questo argomento non si potrà mai più tornare, tanto esso è certo e sicuro. Per le comunità giudeocristiane, il contrario non può che essere blasfemo» (C. Marcheselli-Casale). Con la parola «Amen» si chiude il frammento innico. È una parola che suggella, in questo caso, il nostro impegno.
Vangelo: Luca 16,19-31
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”». |
Esegesi
Il lettore prova forse un po’ di disagio a leggere una parabola, così poco ‘cristiana’ e molto ‘giudaica’. Eppure il tema della retribuzione, anche se privo di tratti tipicamente cristiani, ricorda l’impegno a condurre la vita in proiezione dell’esistenza ultraterrena. È un invito a non lasciarsi ingabbiare da una mentalità ripiegata su se stessa, incapace di aprirsi al futuro e soprattutto ignara di quanto succede tutti i giorni attorno a noi.
— Possiamo individuare due parti, reperibili rispettivamente nei vv. 19-21 e 23-31. La prima, più breve, fa salire sul palco due personaggi opposti, il ricco e Lazzaro. Il riflettore del narratore si accende solo per il ricco, presentato ‘in video e in voce’, perché di lui sono registrate azioni e parole. Lazzaro sembra essere la sua controfigura: nessuna parola e, se viene in parte raffigurato, è per creare il contrasto con l’altro. Alla seconda parte, più lunga, spetta il compito di reggere la logica dell’insieme. Tra le due, il v. 22 assume il ruolo di ‘trasformatore’ perché con la morte le due situazioni si cambiano fino ad invertirsi. Nella seconda parte domina il dialogo tra il ricco e Abramo, che permette al lettore di ‘sbirciare’, non nella realtà figurativa (il brano non e una diapositiva dell’aldilà) ma nella realtà teologica. Si comprende allora che è importante valorizzare l’oggi con l’attenzione caritatevole agli altri, soprattutto ai più bisognosi, per evitare di trovarsi in una situazione disastrosa e senza via di uscita.
— Tutto il cap. 16 e in particolare il v. 14 sono una catechesi sul retto uso del denaro. La catechesi aveva di mira in primo luogo i farisei e dopo di loro tutti coloro che sono presi al laccio della tentazione che porta a impiegare il denaro solo per i propri interessi. La ricchezza non viene demonizzata; semplicemente viene riportata al rango di mezzo per fare il bene, anziché ritenerla insipiente strumento di soddisfazione di tutti i capricci.
— Di un uomo si parla fin dall’inizio e con tale qualifica resterà fino alla fine. Essere ricco non è né un difetto né un disonore. È solamente il rilievo di un potenziale che si presta a molteplici impieghi. Sarà il buono o cattivo uso a determinare la qualifica morale e quindi il giudizio. Un primo dubbio insorge alla notizia che vestiva elegantemente, con tessuti costosi: «porpora e di lino finissimo» che noi oggi classificheremmo come capi da boutique. Inoltre. godeva quotidianamente i piaceri della buona tavola («lautamente» in greco lamprós – unica ricorrenza in tutto il NT – cioè «splendidamente», «sontuosamente»).
La voluta presentazione paradossale serve a creare il contrasto con l’altro, il mendicante Lazzaro, che attende qualcosa dalla tavola ben imbandita del ricco. La sua rimane un’attesa frustrata e frustrante. Il suo nome (unico personaggio delle parabole provvisto di nome) significa ‘Dio aiuta’: normalmente Dio interviene servendosi della sensibilità e del buon cuore delle persone. Invece no: nessuno interviene o si prende cura di Lazzaro. Se aggiungiamo il fatto che il povero era anche «coperto di piaghe», significa che era circondato dal più grande disinteresse.
Il contrasto tra il ricco e Lazzaro, studiato appositamente per essere provocatorio, denuncia una situazione insostenibile. Il ricco non ha compiuto nulla di negativo, ha però omesso di intervenire a favore di Lazzaro. Poiché questi giaceva alla sua porta, non è ammissibile che non l’abbia visto, che non sapesse. Ora è chiaro il significato negativo di quella ricchezza che ha smorzato, fino ad azzerarla, la sensibilità per gli altri, soprattutto per i meno fortunati. Tra le righe, affiora anche il messaggio che non basta evitare il male, occorre compiere il bene. Esistono anche i peccati di omissione, tra cui la noncuranza o la poca sensibilità verso gli altri (cf. prima lettura). Fin qui la situazione durante la vita (terrena).
— La morte di entrambi ribalta la situazione. Viene applicata la legge del contrappasso: chi stava bene inizia a soffrire e viceversa. Non è vero, come sostenevano i sadducei, che tutto si esaurisce nella vita terrena. Il lettore è portato dal narratore a sapere, quasi a ‘vedere’ ciò che si svolge dietro le quinte della storia. Luca utilizza le immagini abituali del suo tempo, attinge al mondo giudaico che impregna notevolmente la presente parabola. Il messaggio sta nel ricordare agli uomini i parametri diversi utilizzati nell’altra vita, quella dopo la morte. Quello di Luca non è un cortometraggio sensazionale, un reportage da scoop, ma una catechesi di escatologia. Egli anticipa il domani servendosi di immagini, affinché i farisei del tempo di Gesù e i lettori di tutti i tempi valorizzino il loro presente.
— Lazzaro è portato «accanto ad Abramo», espressione semitica di intimità. In altre parole, egli partecipa alla beatitudine. Ancora una volta si nota l’assenza di una caratteristica propriamente cristiana (per esempio la comunione con Dio) e il prevalere della sensibilità giudaica. Gli «angeli» sono coloro che permettono la trasposizione senza fatica da una condizione all’altra. La menzione degli angeli e la vicinanza ad Abramo definiscono la condizione di beatitudine. Nel nostro linguaggio sarebbe il ‘paradiso’.
— La situazione del ricco occupa tanto interesse perché su di lui devono fissarsi gli occhi del lettore, per capire bene il messaggio. Egli sta all’«inferno», traduzione del greco Ade, che evoca un luogo di abbandono e di lontananza da Dio: si veda At 2,27.31 dove viene citato il Sal 16,10 («negli inferi»), secondo la versione dei Settanta che riporta «Ade», a differenza del testo ebraico che ha «Sheol» (tradotto con «sepolcro»). Ade e Sheol sono qui praticamente equivalenti. Per gli Ebrei lo Sheol era luogo di tenebre, di silenzio e di oblio (cf. Gb 10,21; Sal 94,17; 88,12). La ovvia ubicazione dell’Ade è in basso, esattamente il contrario
della ‘collocazione’ di Dio che per tutte le religioni sta in alto. La precisazione del ‘luogo’ lascia presagire il seguito.
A questo punto prende il via un serrato dialogo tra il ricco e Abramo. È il ricco che prende l’iniziativa di rivolgersi ad Abramo, «gridando». Non direttamente una domanda di soccorso, bensì un’autorizzazione è il contenuto dell’invocazione. Chi di fatto dovrebbe portare il soccorso è Lazzaro, richiesto di un favore molto piccolo e, apparentemente, inutile.
Qualche goccia di acqua sulla lingua del ricco non sortisce grandi risultati, ma ha l’effetto di dichiarare benvenuto anche il più piccolo sollievo. La pena è molto grande, perché espressa in greco con il verbo odynô tradotto con «torturare». La richiesta era modesta, ai limiti della nullità, eppure causa di sollievo in quella condizione di tormento.
— La risposta di Abramo, anche se gentile, è negativa. Egli ricorda il ribaltamento di situazione. Enunciato il principio che ha un largo sfondo nella cultura dei popoli, si ricorda la condizione di incomunicabilità tra le due situazioni. L’idea è espressa come una distanza insuperabile. Il termine greco chasma, reso con «abisso» e specificato come «grande», ricorre solo qui in tutto il NT, ed indica uno spazio incolmabile. Non è certo questione di chilometri, ma di situazioni irreversibili. L’immagine del v. 26 non si trova nelle raffigurazioni bibliche ed ebraiche dell’aldilà. Essa indica che, alla morte, la sorte degli uomini è stabilita irrevocabilmente. Il tempo («ora») e il luogo («qui») non ammettono cambiamenti.
Soggiace l’inesorabile idea del ‘per sempre’.
— Non potendo trovare giovamento per sé, il ricco pensa (stranamente!) agli altri, in questo caso ai suoi fratelli. Il particolare suonerebbe una forzatura, se non fosse l’espediente per far passare l’idea principale. All’ex ricco che vuole mandare messaggi dall’oltretomba per i suoi fratelli affinché si ravvedano ed evitino «questo luogo di tormenti», Abramo risponde che la Parola di Dio («Mosè e i Profeti») sono la via ordinaria della conversione e del corretto cammino verso Dio. È dichiarato apertamente il valore della Scrittura (cf. 24,27.44): essa, conosciuta e accolta, esige una vita coerente con il messaggio rivelato. Si tratta di ‘sapere’ e di ‘fare’. La Parola di Dio contiene sufficienti indicazioni, senza ricorrere
allo spettacolare e al miracolismo, del resto già denunciato come improduttivo (cf. 10,13). Ancora un messaggio: bisogna rispettare i tempi. C’è un tempo utile per una doverosa solidarietà, c’è un tempo in cui non è più consentito agire. In questo aspetto, troviamo una piena concordanza con un prezioso monito di Gesù, quello di vegliare per non essere sor-presi (cf. 21,34-36).
I vv. 27-31 costituiscono la lezione principale e additano nelle Scritture il segno che conduce nel modo più convincente alla conversione. La lezione della parabola è chiara: urge convertirsi e quindi ascoltare Mosè e i profeti. Sono loro la strada maestra sulla quale bisogna restare; diffidare, perciò, dalle scorciatoie, perché illusorie e incapaci di condurre alla meta. Le Scritture sono qui, a disposizione, chiare ed essenziali. Esse sono la bussola con l’ago magnetico puntato verso Dio e verso il prossimo. La loro fedele osservanza, oggi, garantisce rincontro con Dio, nel tempo e per l’eternità.
Meditazione
L’ingiustizia rappresentata da uno stile di vita preoccupato del proprio benessere e totalmente insensibile alle sofferenze e ai bisogni dei poveri: questa la denuncia del profeta Amos e il sottofondo della pagina evangelica. Dai testi emerge la domanda: chi è l’altro per me! E soprattutto, tra gli altri, il povero, l’ultimo, il reietto. Quale responsabilità accetto di assumere nei confronti di chi è povero, bisognoso, e con la sua miseria è grido che chiede aiuto e che mi interpella? Ma i testi annunciano anche il giudizio che colpirà chi, vivendo nel lusso e nell’esibizione sfacciata della propria ricchezza, finisce nell’incoscienza di chi dimentica l’umanità del fratello povero e obnubila anche la propria umanità. Giudizio storico in Amos («andranno in esilio in testa ai deportati»: Am 6,7), giudizio escatologico in Luca (il ricco si trovò «nell’inferno, tra i tormenti»: Lc 16,23), sempre viene affermato che Dio non è indifferente al male e all’ingiustizia, ma se ne fa vindice.
Se il nome del povero mendicante è Lazzaro (che significa «Dio aiuta»), il nome del ricco non è ricordato, anzi è espropriato dalla sua stessa ricchezza: egli è il «ricco» (vv. 19.22). La vertigine che può dare il possedere molto rischia di rendere il ricco spossessato di sé, dimentico dell’essenziale perché sedotto dal troppo delle cose che possiede e che illudono di sfuggire la morte. Banchettare tutti i giorni, significa sfuggire l’ordine dei giorni, l’economia della successione feria – festa, rendere festa anche la feria, entrare in un eccesso che si sottrae ai limiti della quotidianità. Il troppo del ricco gli impedisce di vedere il troppo poco di Lazzaro che dalla violenza della vita e dall’indifferenza degli uomini «è gettato» presso l’atrio della sua casa: segno di una contiguità dei poveri alla tavola dei ricchi da cui tuttavia sono sadicamente e consapevolmente esclusi, tanto nella parabola lucana come nella situazione storica attuale. La pagina evangelica ci mette in guardia da un rischio grave: che la presenza del povero diventi un’abitudine, e non susciti più scandalo né indignazione.
La morte è un protagonista importante della parabola. Preziosa memoria dei limiti che scandiscono l’avventura umana, essa è spesso rimossa dalla nostra coscienza grazie a comportamenti che ci illudono di immortalità. Possedere molti beni, uno stile di vita lussuoso che si manifesta nella qualità degli abiti e nel quotidiano banchettare lautamente senza mai condividere, è tentativo tanto seducente quanto illusorio di sfuggire all’angoscia della morte. Inoltre, l’ineluttabilità della morte dovrebbe insegnare qualcosa a ogni creatura umana. Viviamo pochi giorni su questa terra: perché non cercare l’essenziale, ciò che ve-ramente ha senso? Perché non cercare di praticare la giustizia e la condivisione, l’amore e la compassione? Perché non ricercare l’incontro e la relazione? .
La scena surreale del dialogo tra il ricco che dai tormenti si rivolge ad Abramo perché mandi Lazzaro ad avvertire i suoi fratelli di cambiare vita istruendoli su ciò che li aspetta nell’al di la, presenta più di un motivo di interesse. La risposta di Abramo sottolinea il fatto che nella vita può esserci un troppo tardi. Occorre vivere il momento presente come l’oggi di Dio. Occorre entrare nella coscienza che il momento presente è l’occasione in cui posso vivere il tutto dell’amore, della fedeltà all’Evangelo, e il momento in cui mi gioco tutto. Aderire all’oggi, al momento presente, senza fughe in avanti e senza comportamenti che stordiscono e fanno evadere la realtà, è sapienza.
Ma tale risposta ricorda anche che la fede non si fonda su miracoli o su eventi straordinari: «Se qualcuno dai morti andrà dai viventi essi si convertiranno», dice il ricco. Abramo risponde abbattendo quest’ultima illusione: «Se non ascoltano Mose e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi» (Lc 16,31). Ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture e accoglienza del Signore che ci visita nel povero, sono le realtà da mettere in pratica qui e ora, oggi, sulla terra. Realtà ordinarie, ma su cui si gioca il giudizio finale.
Preghiere e racconti
I poveri come tempio
Spoglia l’altare della Vergine e vendine i vari arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno. Credimi, le sarà più caro che sia osservato il Vangelo del Figlio suo e nudo il suo altare piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio. Il Signore manderà poi chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito.
(Vita seconda di Francesco d’Assisi- Tommaso da Celano).
Ricchezza e povertà
«Il denaro non è “disonesto” in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Si tratta dunque di operare una sorta di “conversione” dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – “da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà” (2 Cor 8,9). Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.
Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato. La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria. Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico. Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: “la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi” (n. 32). Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35). L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile».
Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore “ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.
(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 23-IX-2007).
Come i gigli dei prati e gli uccelli del cielo
Uno dei confratelli chiese ad un anziano: Sarebbe giusto se io tenessi due monete per me, nel caso mi ammalassi ? L’anziano, leggendo nei suoi pensieri che egli voleva tenerle, disse: Tienile. Il fratello, ritornando alla sua cella, cominciò a lottare con i suoi pensieri, dicendo: Mi chiedo se il padre mi ha dato la sua benedizione oppure no. Alzandosi, tornò dal padre e gli rivolse queste parole: in nome di Dio, dimmi la verità, perché sono tutto ansioso per queste due monete. L’anziano gli disse: Dal momento che ho visto i tuoi pensieri e il tuo desiderio di tenere quelle monete, ti ho detto di tenerle. Ma non è bene tenere più di quello che ci serve per il corpo. Ora queste due monete sono la tua speranza. Ma se le perdessi, Dio non si prenderebbe forse cura di te ? Lasciate ogni preoccupazione a Dio, allora, perché egli si prenderà cura di voi.
( Thomas Merton, La saggezza del deserto)
Essere caritatevoli
Il movimento Emmaus, che non è confessionale, rappresenta un pugno nello stomaco per tante “brave persone” – praticanti impeccabili, si dice – che lasciano crepare quanti abitano alla porta accanto, senza neppure accorgersene, consentendo tranquillamente il permanere, sul piano politico, di un ordine ingiusto di cui esse profittano..
Dentro di me tutto questo esplode con la violenza di una bomba, poiché sono ferito della ferita del disoccupato, della ferita della giovane donna di strada.. come una madre è malata della malattia del suo bambino. Ecco che cos’è la carità, si dirà con un sorriso un po’ sprezzante, poiché il termine, disprezzato, evoca le “opere buone” delle belle e ricche dame di un tempo. Essere caritatevoli non è solo dare, è essere stati, essere feriti della ferita altrui. Ed è anche congiungere tutte le mie forze con le forze dell’altro per guarire insieme dal suo male diventato il mio.
(Abbé Pierre, Testamento)
Ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro
Sta scritto: C’era un tale, che era ricco, e subito dopo si aggiunge: e c’era un mendicante di nome Lazzaro (Lc 16,19). Di certo presso la gente sono più noti i nomi dei ricchi che quelli dei poveri. Perché dunque il Signore parlando di un povero e di un ricco dice il nome del povero e non dice quello del ricco, se non perché Dio conosce gli umili e li approva, e ignora invece i superbi? Per questo, nell’ultimo giorno, a certuni che si sono insuperbiti per il potere di fare miracoli dirà: Non so di dove siete; via da me, voi tutti, operatori di iniquità (Mt 7,23). A Mosè invece è detto: Ti ho conosciuto per nome (Es 33,12). Del ricco, dunque, il Signore dice: C’era un tale, e riguardo al povero: un mendicante, di nome Lazzaro; è come se dicesse: «Conosco il povero che è umile, non il ricco che è superbo. L’uno lo conosco e lo approvo, l’altro lo ignoro poiché lo condanno» […] Ecco, Lazzaro, il mendicante, giace tutto piagato davanti alla porta del ricco. Con quest’unico fatto il Signore esprime due giudizi. Il ricco, infatti, avrebbe forse avuto qualche giustificazione se Lazzaro non fosse rimasto a giacere davanti alla sua porta povero e piagato, se fosse stato lontano, se la sua povertà non avesse importunato il suo sguardo. Inoltre, se il ricco fosse stato lontano dallo sguardo del povero mendicante, questi avrebbe dovuto sopportare nel suo animo una tentazione meno forte. Ma poiché il Signore pone il povero e coperto di piaghe davanti alla porta del ricco che godeva di tanti piaceri, da un’unica e medesima situazione questo derivò: vi fu grave condanna per il ricco che vedeva il povero e non ne ebbe compassione; ma anche, vi fu una quotidiana tentazione per il povero che vedeva il ricco. Non credete che quest’uomo povero e piagato abbia dovuto sopportare gravi tentazioni al pensiero che lui mancava di pane ed era malato e davanti a sé vedeva un ricco in piena salute, immerso nei piaceri? […]
Ma voi, fratelli, conoscendo il riposo donato a Lazzaro e il castigo inflitto al ricco, datevi da fare, cercate degli intercessori per le vostre colpe, fate in modo di avere i poveri quali vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno davanti alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno dopo che vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono predisporre a praticare i precetti della carità. Ogni giorno possiamo trovare Lazzaro, se lo cerchiamo; ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro.
(GREGORIO MAGNO, Omelie sui vangeli 40,3-4.10, Opere di Gregario Magno, Omelie sui vangeli, pp. 568-570.578-580).
La povertà del predicatore
Nella povertà del discepolo e dell’apostolo il destinatario del vangelo può cogliere il segno stesso del contenuto del messaggio. La povertà del predicatore è, per così dire, il sacramento, cioè la manifestazione visibile del vangelo e dell’uomo che dal vangelo si lascia coinvolgere. Il cuore della lieta novella, che il regno di Dio viene e la figura di questo mondo passa, che il Crocifisso è il Risorto e che morte significa vita, ma che la vita vera passa sempre attraverso la morte, tutto questo l’apostolo non può annunciarlo soltanto a parole, ma con il suo stesso modo di vivere. Lui stesso deve incarnare questo messaggio. La croce di Cristo e la speranza nella risurrezione si configurano nell’essere-crocifìssi-con-Cristo degli apostoli, che poi significa che «fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani» (cfr. 1 Cor 4,11ss.).
Nella povertà dell’apostolo è possibile cogliere il messaggio della croce e risurrezione. Il predicatore diventa così segno vivente del suo messaggio, il segno che la figura di questo mondo passa e il Signore viene a liberarci […].
Ma la povertà deve esprimere al tempo stesso una dedizione a favore del prossimo. Se si vuole seguire Gesù bisogna essere disposti a dare tutto ciò che si possiede ai poveri. Come la povertà di Gesù sta a esprimere il suo amore per gli uomini – «Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9) – così anche la povertà dei discepoli serve ad amare tutti gli uomini, ma soprattutto i più poveri, come fratelli e sorelle di Gesù. La povertà porta alla solidarietà con i poveri, a una maggior solidarietà nell’amore. Soltanto chi è povero può essere davvero amico dei poveri, dei piccoli, degli emarginati […]. Dovremo allora porci una seria domanda: nella comunità i poveri sono anche i ‘prediletti’, come lo sono stati per Gesù, o, invece, lo sono i ricchi i ‘ben educati’, i ‘più validi’ e ‘distinti’, quelli con i quali è possibile ‘dialo- gare’? Chi rappresenta il particolare oggetto del nostro interesse e del nostro amore?
(G. GRESHAKE, Essere preti. Teologia e spiritualità del ministero sacerdotale, Brescia 1984,193s.).
Vendere il cuore al denaro
«Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile. Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più. Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi. Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…]
La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me».
(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).
Preghiera
Signore, abbiamo compreso con la parola tagliente e vera, che oggi ci hai donato, che l’essenziale della vita non è confessarti a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli che sono stati favoriti dalla vita. Questo significa fare la volontà del Padre tuo, vivere di te, forse anche da parte di coloro che non ti conoscono bene. Signore Gesù, tu ti identifichi con i perseguitati, con i poveri, con i deboli. Tu ci hai dato un esempio chiaro di vita, che hai racchiuso nel vangelo e specie nelle beatitudini pronunciate sul Monte.
Il segno che è arrivato il tuo regno si trova nel fatto che in te l’amore concreto di Dio raggiunge i poveri, gli emarginati, non a causa dei loro meriti, bensì in ragione stessa della loro condizione d’esclusi, d’oppressi, perché tu sei dio e perché questi che sono considerati ultimi sono i primi “clienti” tuoi e del Padre tuo.
Aiutaci, Signore, a capire che trascurare quest’amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, significa non vivere secondo la fede del regno ed escluderli dalla sua logica. Mancare all’amore è rinnegare te, perché i poveri sono tuoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà.
Facci capire fino in fondo che essi sono il luogo privilegiato della tua presenza e di quella del Padre tuo celeste.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.
– Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.
– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
PER L’APPROFONDIMENTO: