XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Esodo 32,7-11.13-14

In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

 

Questa lettura viene oggi utilizzata per introdurre il tema più ampiamente sviluppato nella lettura evangelica: quello della misericordia di Dio, che rinunzia a punire il popolo, responsabile di un gravissimo peccato, grazie all’intercessione di Mosé.

     Il racconto del vitello d’oro, che gli Israeliti avrebbero costruito per raffigurare il Dio che li aveva tirati fuori dall’Egitto, appartiene a una sezione del libro dell’Esodo (quella dei cc. 32-34) in cui si intrecciano in maniera inestricabile le tradizioni più antiche del Pentateuco. In particolare, il racconto del vitello d’oro della nostra lettura pare che derivi direttamente dal testo di 1 Re 12,26-28, dove si racconta come Geroboamo, che si era ribellato al figlio di Salomone, di ritorno dall’Egitto, per spezzare ogni vincolo tra le tribù ribelli settentrionali e Gerusalemme, fece fare due torelli d’oro e disse: «Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» (v. 28). Questa dipendenza può spiegare pienamente l’identità della stessa frase nella nostra lettura (v. 4).

     La colpa qui attribuita agli Israeliti è quella di essere scivolati verso l’assimilazione con i popoli pagani loro contemporanei: con i Cananei, che rappresentavano Bahal-Hadad, dio della tempesta, a cavalcioni su un toro, con una folgore in mano; con gli Egiziani, che a Heliopolis rappresentavano Osiride incarnato nel toro-Apis e a Menfi adoravano il toro-Mnevis nel tempio di Ptah.

     Per la nostra liturgia, sono particolarmente importanti i vv. 13-14, nei quali Mosé, nella figura dell’intercessore, espone la ragione principale che può indurre Dio a perdonare quella colpa: la promessa da lui fatta, con giuramento, ai suoi servi Abramo, Isacco e Giacobbe (Israele).

 

Seconda lettura: 1Timoteo 1,12-17

Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Nel tempo ordinario, la seconda lettura è indipendente dalle altre due, che sono invece tra loro coordinate. Non accade spesso dunque che il tema di quella si armonizzi perfettamente, con quello delle altre due. Ciò capita per l’appunto questa domenica. L’autore della prima a Timoteo (che quasi certamente non è lo stesso s. Paolo) traccia, nel brano che fa da nostra seconda lettura, il modello ideale di un pubblico rendimentodi grazie alla divina misericordia, che vuole salvi tutti i peccatori.

     Il motivo del ringraziamento, che faceva parte del protocollo epistolare antico, è qui sviluppato mediante il procedimento dell’antitesi tra il prima e il dopo dell’incontro di Paolo con Cristo. Almeno in tre passi delle lettere autentiche di Paolo è tracciato un analogo passaggio tra il prima e il dopo: In Gal 1,13-17; in 1 Cor 15,8-10; in Fil 3,6-14. Ma in nessuno di questi testi il passato di Paolo è descritto come privo di fede e peccaminoso (un bestemmiatore…); che anzi sempre si insiste sul suo zelo per Dio e la sua legge. È invece negli atti degli Apostoli (9,1-16; 22,1-15; 26,9-18) che il prima di Paolo è qualificato negativamente, come quello di un bestemmiatore e del persecutore spietato, che repentinamente, dopo, diventa strumento scelto per il Vangelo di Gesù. Il ritratto di Paolo qui delineato è dunque più vicino a quello che di lui è tracciato nel libro degli Atti, anziché al suo stesso autoritratto. Anche l’espressione «agivo per ignoranza, lontano dalla fede» riporta Paolo alla condizione dei pagani che, secondo Atti 17,30, appartenevano «ai tempi dell’ignoranza». La descrizione a tinte fosche serve all’autore della prima a Timoteo per mettere in risalto la misericordia di Dio, manifestatasi mediante la grazia di Gesù Signore nostro. Serve soprattutto per giungere all’enunciazione di una specie di professione di fede, ritenuta «degna di fede e di essere accolta da tutti», cioè che «Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori».

     Questa succinta professione di fede sintetizza bene il principale messaggio contenuto nella liturgia di questa domenica.

 

Vangelo: Luca 15,1-32 

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Esegesi 

     Il capitolo da cui è tratta la lettura evangelica di questa domenica è stato definito da un moderno esegeta «il cuore del terzo vangelo», quasi «il vangelo del vangelo». Si tratta del capitolo 15 del vangelo di Luca. Esso contiene una breve introduzione, che accenna al motivo per il quale Gesù volle impartire il suo particolare insegnamento sopra un tema assai importante, più un’ampia esposizione dottrinale, racchiusa in tre parabole. Nell’introduzione è detto che l’occasione fu la mormorazione di scribi e farisei, i quali si scandalizzavano per il fatto che Gesù ricevesse i peccatori e mangiasse addirittura con loro. Le tre parabole sono quelle della pecora smarrita e poi ritrovata, della moneta perduta e ritrovata, più quella del figlio prodigo che il padre riaccoglie con gioia. Il tema principale, sviluppato nelle tre parabole, è quello della misericordia del Padre, che non gode per la rovina dei suoi figli, ma vuole che si salvino e grandemente gioisce quando il suo piano si realizza.

     Nel ciclo liturgico di quest’anno, che è il ciclo C, la parabole del figlio prodigo, insieme ai tre versetti introduttivi del capitolo, ci è stata già proposta nella quarta Domenica di quaresima. Oggi, 24° Domenica del tempo ordinario, ci è data la possibilità di fare un’ampia riflessione sull’intero capitolo 15 di Luca, proclamando tutte e tre le parabole, oppure di limitarci alla lettura e alla riflessione sopra le due parabole più brevi, quelle della pecora e della moneta smarrite e ritrovate. Alcune osservazioni filologiche ci aiuteranno a capire in profondità il nostro testo.

     Nella frase «si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori» (v. 1), il termine tutti deve certamente intendersi in senso iperbolico; tuttavia, in qualche modo, vi si può leggere un accenno alla possibilità che è offerta a tutti di accostarsi a Gesù.

     Nel v. 2, la mormorazione attribuita a farisei e scribi non deve intendersi come un semplice pettegolare privo di gravità, ma va allineata al peccato grave degli israeliti, i quali, nel deserto, sospettarono che Dio con l’inganno li avesse tirati fuori dall’Egitto, per farli morire di fame e di sete (Es 17,3). Inoltre, l’accusa mossa a Gesù, che riceve i peccatori e mangia con loro, è ritenuta assai grave dagli scribi e dai farisei, perché, presentandosi Gesù come il Messia, egli presentava un’immagine aberrante, a loro giudizio, della comunione escatologica nel Regno di Dio.

     Nel v. 3, può sorprendere l’espressione «disse loro questa parabola», al singolare. La difficoltà si supera dando qui al termine parabola il senso di discorso in parabole.

     Nei vv. 4-7, c’è la parabola della pecora smarrita e ritrovata. La stessa parabola è riportata anche in Mt 18,12-14, nel contesto del così detto discorso comunitario. Abbiamo qui un esempio tipico della moderata libertà con cui le comunità cristiane primitive (e gli stessi evangelisti) accoglievano e riferivano le parole di Gesù, applicandole a situazioni diverse. Nel testo di Matteo, la parabola, inserita nel discorso comunitario, è piegata a illustrare il dovere che ha ogni cristiano di aiutare i propri fratelli traviati a ritornare nell’ovile; il suo vertice è espresso dalle parole: «il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno di questi piccoli». Molti esegeti ritengono che il testo di Luca abbia conservato meglio il senso primitivo della parabola, che sarebbe concentrato sulla conversione (o pentimento) del peccatore, motivo di gioia grande per il Signore infatti espresso nelle parole: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.».

     Bisogna anche notare che, rispetto al testo di Matteo, in Luca, la descrizione della scena guadagna molto in vivacità («Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini …», ma il racconto perde in realismo e continuità; infatti, che fine hanno fatto le novantanove pecore lasciate dal pastore nel deserto per andare dietro a quella perduta? Tuttavia la piccola incoerenza narrativa è dovuta al fatto che il senso religioso della parabola è più importante della verosimiglianza della storia: il narratore dimentica addirittura che stava parlando di un gregge e di una pecora e passa a parlare direttamente di giusti e del peccatore convertito.

     Nei vv. 8-10, c’è la parabola della moneta perduta e ritrovata. Essa è esclusiva di Luca e potrebbe anche apparire superflua, perché il suo significato è esattamente uguale a quello della parabola precedente. Ci sono però in Luca altri esempi di parabole abbinate, aventi lo stesso significato: quelle del vestito e dell’otre di vino (5,36-39), quelle del granello di senape e del lievito (13,18-21) e altre. La ripetizione strettamente palestinese, il che esclude che si possa trattare di una creazione letteraria dell’evangelista. La dramma era una moneta equivalente, più o meno, a un denaro (la paga giornaliera che si dava a un bracciante). Anche in questa parabola, il vertice è racchiuso in una frase che parla della «gioiadi Dio per un solo peccatore che si converte». L’espressione «davanti agli angeli…», sembra non aggiunga niente alla frase «in cielo», che si trova nella parabola precedente.

     Ambedue queste parabole, pur riferendosi al peccatore che si converte, puntano l’attenzione esclusivamente su Dio, che cerca e trova qualcosa che rischiava di essere perduto. Si vuol dunque sottolineare che la salvezza del peccatore è principalmente una iniziativa di Dio.

     La terza parabola, quella del figlio prodigo che torna alla casa paterna, allarga la prospettiva precedente, includendo nel suo messaggio il cammino che lo stesso peccatore deve percorrere perché l’attesa del padre sia soddisfatta. Tuttavia, anche qui il vertice della parabola è rappresentato dal comportamento del padre, che fa festa per il figlio ritrovato, come si farebbe per uno che fosse risuscitato dai morti. Questo comportamento simboleggia a forti tinte la misericordia di Dio che, non rifiutando agli uomini di poter disporre liberamente dei suoi doni, resta in vigile attesa del loro ritorno, quando essi si sono sbandati, allontanandosi da lui.

     Nella parabola, la misericordia divina diventa tenerezza ed è ulteriormente sottolineata dal comportamento del figlio maggiore, che non accetta subito di partecipare alla gioia paterna, ma ha bisogno che gli si spieghi come quella misericordia non tolga niente a lui stesso. Solo accogliendo questa spiegazione del padre, il figlio maggiore potrà continuare a godere della casa e dell’affetto paterno: se la rifiutasse, sarebbe lui a restarne privo per sempre, diventando egli stesso un profugo per sempre.

 

Meditazione 

La storia della salvezza è anche la storia della santità di Dio messa a confronto con il peccato dell’uomo. Di fronte al popolo peccatore l’intercessione di Mosè conduce Dio a desistere dal proposito di nuocere al popolo (I lettura); di fronte al peccato dei due figli, peccato come allontanamento e rottura di relazione nel figlio minore, peccato come pretesa, gelosia e risentimento nel maggiore, il padre della parabola lucana si sottomette e ad entrambi narra l’amore fedele e mite (vangelo).

L’unica parabola narrata da Gesù (Gesù «disse loro questa parabola»; Lc 15,3), in realtà, ne contiene tre. Esse narrano l’esperienza di una perdita e di un ritrovamento. I due momenti non sono simultanei e il primo aspetto è quello della perdita. La gioia del ritrovamento è preceduta dal dolore per la perdita. Perdita di una pecora, perdita di una moneta, e infine, perdita di un figlio. Ma l’allontanarsi dalla casa paterna di un figlio diviene perdita e morte che il padre esperimenta in se stesso. E se in Dio vi è la gioia del ritrovamento (cfr. Lc 15,7.10), certamente vi è anche il dolore per la perdita. L’unica e trina parabola sintetizza così la storia della salvezza: Dio in cerca di Adamo uscito dal giardino della relazione. Le strade che Dio percorre sono le infinite vie della perdizione umana: è lui che cerca l’uomo, bussa alla sua porta, chiede all’uomo. La parabola presenta il padre come colui che attende il figlio che se n’è andato di casa e gli esce incontro quando lo scorge tornare, e che esce incontro al figlio maggiore e lo prega di entrare per far festa con il fratello. Dio in attesa dell’uomo, Dio che prega l’uomo.

Dalla parabola emerge  la forza dell’inermità del padre. Egli appare passivo: non mette in guardia il figlio minore dai pericoli che può incontrare andandosene da casa, non lo rimprovera quando ritorna né gli chiede penitenze o espiazioni e nemmeno un ‘fare i conti’ prima di essere eventualmente riammesso nella casa da dove ha voluto andarsene. E proprio questo amore incondizionato, che rifugge da atteggiamenti punitivi, è la via aperta al giovane per fare esperienza del perdono. Il padre non costringe il figlio maggiore ad entrare, ma gli esce incontro, lo prega, non lo rimprovera, ma resta nella dolcezza dell’amore e proprio questo atteggiamento conduce il figlio ad esprimere ciò che sente e prova. Il padre non fa nulla e accoglie anche l’espressione del suo odio per il fratello e del suo risentimento verso di lui, solamente ricordandogli che lui stesso è un figlio e che colui che è tornato è suo fratello (Lc 15,32). E questo atteggiamento esprime la fiducia che egli accorda al figlio, vera matrice in cui egli potrà rinascere come figlio, così come il minore ha trovato nell’abbraccio paterno l’alveo della propria rigenerazione a figlio.

La riconciliazione può avvenire grazie a questa debolezza: è ciò che è avvenuto nella croce di Cristo. La riconciliazione attuata da Cristo nasce dal movimento di abbassamento e di kenosi divina che ha raggiunto il suo apice nella croce. Lo scandalo della rivelazione cristiana afferma che è l’impotenza raggiunta da Dio nella croce del Figlio che opera la riconciliazione (Rm 5,8-11 ).

La strada percorsa dal figlio minore va dalla pretesa all’impossibilità: dal «Dammi!» (Lc 15,12) imposto al padre, al «nessuno gli dava nulla» (Lc 15,16) riferito alle carrube che i maiali mangiavano. Il figlio maggiore è invece tutto nel risentimento e nella collera: «Non mi hai mai dato» (Lc 15,29). Entrambi, figlio ribelle e figlio servo, non hanno saputo cogliere che il dono grande è la relazione filiale.

La casa, segno di comunione che dovrebbe unire i due figli, diviene luogo da cui uno fugge e in cui l’altro non vuole entrare. L’eredità, invece di accomunare, divide i fratelli, e la festa da uno è subita e dall’altro è rifiutata. Solo una prassi di amore incondizionato, come quella del padre, può fare della chiesa il luogo della riconciliazione, della fraternità, della trasmissione dell’amore e della condivisione della gioia. Solo quell’amore fa della chiesa il luogo del perdono e della festa.

 

Preghiere e racconti 

Vivere è un continuo cammino di trasformazione

Tutta la pesante zavorra di negatività che hanno messo sulle mie spalle ha provocato in me una condizione di dolore alle volte difficilmente sopportabile, ma è stato proprio grazie a quella zavorra che ho potuto diventare quella che sono.

Se sono una persona mite, è perché so di poter essere anche estremamente violenta. Se sono coraggiosa, è solo perché il mio sentimento predominante è la paura. Se so scrivere storie che toccano il cuore di molti, è perché il mio cuore è costantemente aperto e pronto ad accogliere le inquietudini, le contraddizioni e le sofferenze del mondo.

Vivere è un continuo cammino di trasformazione, è questo il segno dell’uomo. Gli animali vivono immersi in un’innocente circolarità, noi invece siamo sempre spinti ad andare avanti, a capire i nostri errori e i nostri difetti e saperli trasformare in pregi.

Lottare perché la Luce conquisti sempre più spazio in noi, sottraendo al buio, è il compito che attende ogni persona che si metta alla ricerca della vera libertà. Non avrei potuto, infatti, affrontare questa straordinaria avventura se i miei genitori non mi avessero dato il dono della vita, per questo sarò loro eternamente grata.

 (Susanna TAMARO, Ogni angelo è tremendo, Bompiani, Milano, 2013, 264-265)

 

 

 

Tornare a casa e stare dove Dio dimora

(tratto dal libro di Henri J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Brescia, Queriniana 21994, pp. 212. Commento spirituale al dipinto di Rembrandt, +1669, attualmente nel museo di San Pietroburgo).

Il figlio più giovane parte

Andarsene da casa è molto più di un evento storico legato al tempo e al luogo. E’ la negazione della realtà che appartengo a Dio in ogni parte del mio essere, che Dio mi tiene al sicuro in un abbraccio eterno, che sono veramente scolpito nelle palme delle mani di Dio e nascosto alla loro ombra.

Quando dimentico la voce del primo amore incondizionato, altri suggerimenti possono facilmente cominciare a dominare la mia vita e trascinarmi nel “paese lontano”: rabbia, risentimento, gelosia, desiderio di vendetta, sensualità, avidità, antagonismi e rivalità [«ti amo se sei bello, intelligente e ricco. Ti amo se sei istruito, hai un buon lavoro e le giuste conoscenze. Ti amo se produci molto, vendi molto e compri molto»] sono i segni evidenti che me ne sono andato da casa.

Il padre non poteva costringere il figlio a rimanere a casa. Non poteva imporre con la forza il uso amore al prediletto. Doveva lasciarlo andare in libertà, anche se sapeva il dolore che ciò avrebbe causato sia al figlio che a se stesso. E’ stato l’amore a impedirgli di trattenere il figlio a casa a tutti i costi. E’ stato l’amore a consentirgli di lasciare che il figlio vivesse la sua vita, anche a rischio di perderlo.

Sono amato a tal punto che Dio mi lascia libero di andarmene da casa. La benedizione c’ è fin dall’inizio. L’ho lasciata e persisto a lasciarla. Ma il Padre continua a cercarmi sempre con le braccia tese per accogliermi di nuovo e sussurrarmi ancora all’orecchio: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto»

Il ritorno del figlio più giovane

Il giovane abbracciato e benedetto dal padre è un uomo povero, molto povero. L’unico segno di dignità che gli rimane è la piccola spada che gli pende dal fianco, l’emblema della sua nobiltà. Pur in mezzo alla degradazione, non ha perso del tutto la consapevolezza di essere ancora il figlio di suo padre.

Vedo davanti a me un uomo che se n’è andato lontano in un paese straniero e ha perso tutto ciò che aveva con sé. Vedo vuoto, umiliazione e sconfitta. Lui che era tanto simile al padre, ora sembra peggiore dei servi di suo padre. E’ diventato come uno schiavo.

Il figlio più giovane si rese pienamente conto della sua totale rovina quando più nessuno nel suo ambiente mostrò il benché minimo interesse nei suoi confronti. Lo avevano tenuto in considerazione soltanto finché era stato utile ai loro interessi. Ma quando non ebbe più denaro da spendere e doni da fare, per loro cessò di esistere.

E’ difficile immaginare cosa significhi essere un individuo del tutto estraneo, una persona cui nessuno mostra un qualche segno di riconoscimento. La vera solitudine arriva quando non si riesce più a sentire di avere delle cose in comune. Ogni volta che incontro una persona nuova, in lei cerco sempre qualcosa che si possa avere in comune. Meno abbiamo in comune, più difficile è stare insieme e più ci sentiamo alienati.

Il figlio più giovane si era talmente sradicato da ciò che dà vita, -famiglia, amici, comunità, conoscenti, e persino vitto-, che si rese conto che la morte sarebbe stata il fatale prossimo passo.

In quel momento critico, quale molla lo fece optare per la vita? Fu la riscoperta della parte più profonda di se stesso: rimanere sempre il figlio del proprio padre.

E’ stata la perdita di ogni cosa a portarlo alla radice della sua identità. Quando si è trovato a desiderare di essere trattato come uno dei porci, si è reso conto di non essere un porco, ma un essere umano, un figlio di suo padre.

Dio dice: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui…”. Vogliamo accettare il rifiuto del mondo che ci imprigiona oppure rivendicare la libertà dei figli di Dio? A noi scegliere.

Quando Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine, vide che quanto aveva fatto «era cosa molto buona», e, nonostante le voci oscure, né uomo né donna potranno mai cambiare quell’evento.

Nella strada di ritorno non preparare sceneggiature [«mi leverò e andrò da mio padre…»] devo semplicemente credere che anche se i miei fallimenti sono grandi «la grazia è ancora più grande».

Una delle più grandi provocazioni della vita è ricevere il perdono di Dio. C’ è qualcosa in noi, essere umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò da garzone. Ma voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? 

Il figlio maggiore parte

Non si è perduto soltanto il figlio più giovane, che se n’ è andato da casa per cercare libertà e felicità in un paese lontano, ma anche quello che è rimasto.

Esteriormente faceva tutte le cose che si suppone faccia un bravo figlio, ma, interiormente, si era allontanato da suo padre. Faceva il proprio dovere, lavorava sodo ogni giorno e adempiva tutti i suoi obblighi, ma era diventato sempre più infelice e meno libero. [Sono nato, battezzato, cresimato nella Chiesa e sono stato obbediente ai miei genitori, insegnanti e al mio Dio. Non sono mai scappato di casa, non ho mai sprecato il mio tempo e il mio denaro nella ricerca del piacere e non mi sono mai perduto in «dissipazioni e ubriachezze». Per tutta la vita sono stato piuttosto responsabile, tradizionalista e legato alla famiglia. Ma, con tutto ciò, posso in realtà essermi perduto proprio come il figlio più giovane. Ho visto la mia gelosia, la mia rabbia, la mia permalosità, la mia caparbietà, il mio astio e soprattutto la sottile convinzione di essere sempre nel giusto. Ero certo il figlio maggiore, ma perduto come il fratello minore, anche se ero rimasto a casa tutta la vita. Avevo lavorato moltissimo nell’azienda agricola di mio padre, ma non avevo mai gustato pienamente la gioia di essere a casa].

Nel lamento del figlio maggiore [«ecco, ti ho servito da tanti anni…»] l’obbedienza e il dovere sono diventati un peso e il servizio è una schiavitù.

Il figlio giovane ha peccato in un modo che possiamo facilmente identificare. Abbiamo un tipico fallimento umano, piuttosto facile da comprendere e compatire.

Lo smarrimento del figlio maggiore è molto più difficile da identificare. Dopo tutto, faceva le cose perbene. All’esterno era irreprensibile. Ma, di fronte alla gioia del padre al ritorno del fratello più giovane, una forza oscura erompe in lui e ribolle in superficie. Improvvisamente emerge una persona rimasta nascosta nel subconscio, anche se si era fatta sempre più forte e operante nel corso degli anni.

Dall’esperienza della mia vita, so con quanto zelo ho cercato di essere buono, ben accetto, amabile e di buon esempio agli altri. Mi sono sforzato, in modo cosciente, di evitare le insidie del peccato e ho sempre avuto paura di cedere alla tentazione. Ma nonostante questo, sono subentrati una severità e un fervore moralistici, -e perfino un tocco di fanatismo- che mi hanno reso sempre più difficile sentirmi a casa nella casa di mio Padre. Sono diventato meno libero, meno spontaneo, meno allegro, e gli altri hanno finito per vedermi sempre più come una persona piuttosto “pesante”.

E’ il lamento che grida: «Ho faticato tanto, ho lavorato a lungo, mi sono dato sempre da fare e ancora non ho ricevuto quello che altri ottengono tanto facilmente. Perché la gente non mi ringrazia, non mi invita, non si diverte con me, non mi rende omaggio, mentre presta tanta attenzione a coloro che prendono la vita con disinvoltura e noncuranza?».

E’ difficile vivere accanto a qualcuno che si lamenta e pochissime persone sanno come rispondere a chi rifiuta se stesso. La tragedia è che spesso le lamentale, una volta espresse, conducono a ciò che più si teme, e cioè a un ulteriore rifiuto.

Ogni volta che ci lamentiamo per non saper accettare noi stessi, perdiamo la spontaneità al punto che non riusciamo più a lasciarci coinvolgere dalla gioia che è intorno a noi. Gioia e risentimento non possono coesistere.

Il ritorno del figlio maggiore

Anche il figlio maggiore ha bisogno di essere ritrovato e ricondotto alla casa della gioia.

Che io sia il figlio minore o il figlio maggiore, l’unico desiderio di Dio è di portarmi a casa. Arthur Freeman scrive: «Il padre ama ogni figlio e dà ad ognuno la libertà di essere ciò che vuole, ma non può dar loro la libertà che non si sentiranno di assumere o che non comprenderanno adeguatamente. Il padre sembra rendersi conto, al di là dei costumi della società in cui vive, del bisogno dei propri figli di essere se stessi. Ma egli sa anche che hanno bisogno del suo amore e di una “casa”. Come si concluderà la storia dipende da loro. Il fatto che la parabola non abbia finale garantisce che l’amore del padre non dipende da una conclusione appropriata del racconto. L’amore del padre dipende solo da lui e fa esclusivamente parte del suo carattere. Come dice Shakespeare in uno dei suoi scritti: “L’amore non è amore se muta quando trova mutamenti”».

Il padre

La risposta libera e spontanea del padre al ritorno del figlio più giovane non implica alcun confronto con il figlio maggiore. Al contrario, desidera ardentemente farlo partecipare della sua gioia. Il nostro Dio non fa paragoni.

Il cuore del padre va incontro ai due figli; li ama entrambi; spera di vederli insieme come fratelli intorno alla stessa tavola; vuole che sentano che, per quanto diversi, appartengono alla stessa casa e sono figli dello stesso padre. Il padre quasi cieco vede un intero orizzonte. La sua è una vista che comprende lo smarrimento de donne e uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che capisce con compassione immensa la sofferenza di coloro che hanno scelto di andarsene da casa, che ha pianto un mare di lacrime quando si sono trovati nell’angoscia e nel dolore. Il cuore del padre arde del desiderio di riportare i figli a casa.

Come avrebbe voluto parlare loro, metterli in guardia contro i tanti pericoli che avrebbero affrontato e convincerli che a casa si può trovare tutto quello che  cercano altrove! Quanto avrebbe voluto trattenerli con la sua autorità paterna e tenerli vicino a sé perché non si facessero del male!

Ma il suo amore è troppo grande per comportarsi così. Non può forzare, costringere, spingere o trattenere. L’immensità del amore costituisce anche la sua sofferenza.

Tanto profondo è il dolore perché tanto puro è il cuore. Dal profondo luogo interiore dove l’amore abbraccia tutto il dolore umano, il Padre raggiunge i suoi figli.

Dio ci ama prima che qualunque essere umano possa mostrarci amore.

Non sarebbe bello aumentare la gioia di Dio lasciandomi trovare e portare a casa da lui e celebrare insieme il mio ritorno? Non sarebbe meraviglioso far sorridere Dio dandogli la possibilità di trovarmi e amarmi prodigalmente? So accettare che sono degno di essere cercato? Credo che Dio desideri davvero stare soltanto con me?

Il padre esige che si faccia festa

Mentre il figlio si è preparato ad essere trattato come un garzone, il padre esige che gli venga dato il vestito riservato agli ospiti di riguardo. Il padre veste il figlio con i simboli della libertà, la libertà dei figli di Dio.

Dio vuole fare festa con noi. Questo invito al banchetto è un invito all’intimità con Dio.

Dio si rallegra. Non perché i problemi del mondo sono stati risolti, non perché tutto il dolore e la sofferenza umani sono giunti alla fine, e nemmeno perché migliaia di persone si sono convertite e ora lo stanno lodando per la sua bontà. No, Dio di rallegra perché uno dei suoi figli che era perduto è stato ritrovato. Ciò a cui sono chiamato è partecipare a quella gioia. E’ la gioia di vedere un figlio che cammina verso casa.

Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro

Padre, dice il figlio minore. Quale misericordia, quale tenerezza in colui che, pur essendo stato offeso, non rifiuta di sentirsi dare il nome di padre! Dice il figlio: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te (Lc 15,18) […] Così diceva dentro di sé il figlio. Ma non basta parlare se non vieni al Padre. Dove cercarlo, dove trovarlo? Innanzitutto alzati! Lo dico per chi stava seduto e dormiva. Per questo l’Apostolo dice: Alzati, o tu che dormi, e levati di tra i morti (Ef 5,14) […] Alzati, vieni di corsa in chiesa: qui c’è il Padre, qui c’è il Figlio, qui c’è lo Spirito santo. Ti corre incontro colui che ti sente conversare nel segreto del tuo cuore. Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro. Vede nel tuo cuore, corre perché nessuno ti trattenga e per di più ti abbraccia. Nel suo correre incontro vi è la sua prescienza, nell’abbraccio la misericordia e, vorrei dire, vi sono i sentimenti del suo amore paterno. Si getta al collo di chi è caduto per rialzarlo e perché si volga al cielo a cercare il suo Creatore colui che è oppresso dai peccati e chino verso le cose terrene. Cristo ti si getta al collo per toglierti dalla nuca il giogo della schiavitù e porre sul tuo collo il giogo soave (cfr. Mt 11,30). Non vi sembra che si sia gettato al collo di Giovanni, quando questi riposava sul petto di Gesù, con la testa rivolta all’indietro? E così il Verbo che era presso Dio vide (cfr. Gv 1,1), poiché era rivolto alle altezze. Il Signore vi si getta al collo quando dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e io vi darò riposo; prendete su di voi il mio giogo che è leggero» (cfr. Mt 11,28-30).

(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca 7, 224.229-230, SC 52, pp. 93-95).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIV DOM TEMP ORD (C)