l professor Matthew Fforde puntualizza: “Ci troviamo di fronte non tanto a una crisi del concepimento ma a una crisi della nascita: se avessimo permesso di nascere ai bambini uccisi con l’aborto, le statistiche sarebbero molto diverse”. C’è poi la “crisi dell’istituto della famiglia che è una caratteristica del grande processo di ‘desocializzazione’ – intimamente legata alla scristianizzazione -, vale a dire la perdita dei legami sociali”. Effetti negativi possibili anche per l’integrazione.
Le sue analisi sulla “desocializzazione” stanno facendo discutere l’Europa. Probabilmente perché il professor Matthew Fforde, britannico, ha sollevato anzitempo una serie di temi che appaiono ora di stretta attualità: le relazioni fra trend economici e sociali, le dinamiche culturali, i processi di trasformazione demografica, le prospettive che si aprono con le migrazioni di massa… Il tutto con un’attenzione che sa andare oltre i confini nazionali e capace di considerare le prospettive poste dall’insegnamento sociale della Chiesa. Nato a Londra, formatosi all’Università di Oxford, dove è stato anche docente, Fforde attualmente insegna Storia contemporanea all’Università Lumsa di Roma. Il suo volume “Desocializzazione. La crisi della post-modernità” (“Desocialisation. The Crisis of Post-modernity”) circola in inglese, francese, italiano, slovacco e sta per essere pubblicato in tedesco e spagnolo.
Una ricerca dei demografi dell’Istituto Max Planck di Rostock, Germania, sostiene che la crisi sta avendo pesanti riflessi sulla natalità in Europa. La precarietà economica e lavorativa scoraggia le giovani coppie a costruire una famiglia e ad avere figli; è un dato che si rileva nei Paesi più colpiti dalla recessione, ma vale anche per il centro e il nord Europa. Professore, lei cosa ne pensa?
“I dati demografici sono evidenti in Europa occidentale e, considerando le mentalità correnti (che meriterebbero un’analisi dettagliata, anche da un punto di vista storico) e i crescenti livelli di disoccupazione giovanile, la recente crisi economica deve sicuramente aver avuto un impatto. In materia di carenza di figli, però, vanno anche presi in considerazione altri fattori, e qui entriamo nelle caratteristiche della post-modernità (gli ultimi 50 anni o giù di lì). La cultura della famiglia come istituzione e, quindi, della paternità e della maternità, è stata indebolita. Dobbiamo inoltre fare i conti con la realtà della contraccezione, e non dimentichiamo che, in un certo senso, ci troviamo di fronte non tanto a una crisi del concepimento ma a una crisi della nascita: se avessimo permesso di nascere ai bambini uccisi con l’aborto, le statistiche demografiche in Europa occidentale sarebbero molto diverse. In altre parole, questo sviluppo dovrebbe essere fortemente contestualizzato”.
Il suo Paese, assieme alla Germania, ha spesso anticipato l’Europa nelle dinamiche sociali. Esiste questo problema nel Regno Unito?
“Il Regno Unito non ha gli stessi livelli di crescita demografica, ad esempio, dell’Italia, ma il problema della denatalità è evidente e l’attuale governo, nei suoi piani per la riforma dello Stato assistenziale, si trova ad affrontare le origini di tale fenomeno e anche le sue conseguenze a medio e lungo termine. La mia sensazione, però, è che abbiamo a che fare con cambiamenti culturali molto profondi e con le loro conseguenze che i politici spesso non riescono a percepire e altrettanto spesso non hanno il potere di intervenire su di essi”.
Un minor numero di figli, una popolazione sempre più vecchia… In questo modo si mette in pericolo anche la tenuta del welfare in Europa, non è vero?
“Il minor numero di figli e l’invecchiamento della popolazione saranno certamente fattori di forte pressione sul sistema pensionistico, sul welfare e sui servizi sanitari nazionali. Ma questo dovrebbe essere letto nel quadro della crisi dell’istituto familiare (a cui spesso hanno fatto riferimento gli ultimi Papi), il che significa – considerando i divorzi, le separazioni e i single – che milioni di anziani si troveranno a vivere da soli e dovranno rivolgersi allo Stato anziché ai loro parenti per chiedere aiuto. Questa crisi dell’istituto della famiglia è una caratteristica del grande processo di ‘desocializzazione’ – intimamente legata alla scristianizzazione -, vale a dire la perdita dei legami sociali, che negli ultimi decenni ha afflitto le società dell’Europa occidentale. Forse qui abbiamo un invito a fermarci un attimo per chiederci se la strada che abbiamo percorso in questa epoca contemporanea, segnata anche da un indebolimento della cultura cristiana, non contenesse alcuni gravi errori”.
Accanto alla crisi economica l’Europa ha continuato a registrare un notevole afflusso di immigrati. Non di rado le famiglie straniere hanno un numero maggiore di figli rispetto a quelle europee, evitando il tracollo demografico. Gli immigrati possono essere, in questo senso, una risorsa per l’Europa?
“L’immigrazione di massa è stata una caratteristica delle società dell’Europa occidentale negli ultimi decenni. E questa pressione è destinata a continuare. La mia opinione è che si tratta di uno sviluppo sul quale non abbiamo riflettuto sufficientemente, e che spesso cade preda di facili slogan e sterili polarizzazioni. È un argomento che deve essere affrontato con grande sensibilità. Per esempio, dobbiamo affrontare la questione di quali risorse economiche risultano disponibili per gli immigrati durante questa fase di acuta crisi economica, così come emergono le conseguenze della discontinuità culturale interna che l’immigrazione di massa può causare, con tutto ciò che questo comporta in termini di coesione sociale e di identità. La ‘desocializzazione’, in questo senso, potrebbe remare contro l’integrazione”.