CENA DEL SIGNORE

Prima lettura: Esodo 12,1-8.11-14

Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne. 

Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”. 

 

Il brano dell’Esodo, che la liturgia ci fa leggere oggi è uno dei testi che fonda la festa della pasqua (pesach) ebraica, che viene celebrata ancora oggi, come «memoriale» della liberazione dall’Egitto e che Gesù, la sua famiglia e i suoi apostoli hanno celebrato secondo le tradizioni che si rifacevano alla Torà di Mosè.

     Nella Torà (Pentateuco) sono numerosi i testi che «fondano» la pasqua, mentre accenni alla pasqua si trovano anche nelle altre parti del tanach (nome della Bibbia ebraica, dalle iniziali delle tre parti fondamentali in cui è divisa: Torà = insegnamento, legge; Neviim, = profeti; Ketuvim = agiografi). Il capitolo 12 dell’Esodo dedica alla Pasqua due parti i vv. 1-28 e 41-50. In questi testi è esplicito il collegamento con l’opera del Signore, che libera il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto e a cui viene esplicitamente dato il comando di celebrarne il memoriale: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14). La celebrazione di un rito ciclico, proprio dei pastori, che gli ebrei del tempo dei patriarchi celebravano come gli altri popoli vicini dediti alla pastorizia, in primavera, per chiedere a Dio la benedizione e la fecondità del gregge, diventa il rito «memoriale» dell’intervento di Dio nella storia.

     Sempre in questo capitolo sono indicate le modalità essenziali, per riuscire a far entrare la nuova generazione dentro al significato di questa celebrazione: «Quando poi sarete entrati nel paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito: Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della pasqua per il Signore».

     Il passaggio di generazione in generazione avviene in forma di domande dei figli e di risposte dei padri. Il modo di ricordare, attraverso gesti simbolici susciterà la curiosità dei più giovani e sarà il punto di partenza per il racconto delle opere compiute da Dio per liberare il suo popolo e avviarlo verso la terra promessa, proprio il racconto di tali opere in risposta alle domande dei figli costituisce il nucleo del «memoriale» celebrato nel Seder pasquale dagli ebrei ancora oggi, in continuità con la prima pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto.

     La pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto è la pasqua avvenuta, potremmo dire, sotto il segno del miracolo, le pasque celebrate in seguito sono «memoriale». Chi partecipa al memoriale deve considerare se stesso come se proprio lui fosse uscito dall’Egitto, ma il miracolo è per ora solo spirituale, dato solo nel racconto e nei gesti simbolici. Il rito deve essere perenne: esso è un «memoriale» rende efficace per i presenti l’azione salvifica di Dio ed è teso al sabato messianico, che non avrà più tramonto.

     L’andamento in tre tempi del «memoriale» ebraico è lo stesso di quello cristiano: i cristiani fanno memoria della morte e risurrezione di Gesù in questo tempo intermedio, partecipano cioè nel rito dell’opera salvifica di Gesù in attesa della domenica del Regno, quando sarà finito il tempo intermedio nel quale dobbiamo avvalerci del racconto e dei segni.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 11,23-26

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». 

Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

 Il brano di Paolo è uno dei quattro testi neotestamentari, che presentano direttamente il racconto di quella che siamo soliti chiamare l’«istituzione dell’eucaristia». Gli altri tre sono Lc 22,14-20; Mt 26,20-29; Mc 14,17-25. In realtà il termine eucaristia non c’è negli scritti apostolici; esso inizia solo con la Didaché e in Ignazio di Antiochia (110 d.C.) comincia ad avere un senso sacramentale. I termini per indicare la prassi eucaristica nel Nuovo Testamento sono cena del Signore (cf. 1Cor 10,14,22; 11, 17,33) e frazione del pane (cfAt 2,42.46; 20,7.11).

     Il testo di Paolo che si legge oggi è un testo che presuppone già una tradizione liturgica. Esso è legato a quello di Luca e si fa risalire alla tradizione antiochena, mentre Marco e Matteo, apparentati fra loro, risalgono alla tradizione gerosolimitana.

     In Paolo e Luca sono rilevanti tre aspetti: l’invito a «fare memoria» (1Cor 11,24.25; Lc 22,19 solo sul pane); il riferimento all’alleanza (1Cor 11,25, Lc 22,20); la dimensione del dono personale di Gesù espresso da «questo è il mio corpo, che è per voi» (1Cor 11,24; Lc 22,19) e dal sangue versato per voi (Lc 22,20). È da notare anche il ‘voi’, che si riferisce direttamente ai presenti alla celebrazione e che è molto insistito nel racconto di Luca.

     L’eucaristia è «fare memoria» vale a dire compiere il rito, ma soprattutto accettare la logica del servizio proposta dalla lavanda dei piedi.

     Il calice è la nuova alleanza, vale a dire un’alleanza vera voluta da Dio e che deve essere accettata dai discepoli di Gesù. Il termine analogico è sempre l’alleanza del Sinai; lì c’è l’iniziativa di Dio che ha liberato il popolo e gli dà una norma di condotta; il popolo deve rispondere accettando l’alleanza, vale a dire mettendo in pratica i precetti. La fedeltà all’alleanza è sicura da parte di Dio, è difficile da parte del popolo. Dio, però, non lo abbandona e continuamente lo richiama, soprattutto attraverso i profeti rammentando loro la sua misericordia e la sua fedeltà, nonostante le sofferenze e l’apparente abbandono.

     Dalla fede che il gesto di Gesù è un’alleanza reale con Dio, un dono di Dio come quella stipulata con Israele, l’alleanza è chiamata «nuova», con riferimento a Geremia: «Ecco verranno giorni in cui con la casa di Israele e la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova…» (Ger 31,31-34).

     L’eucaristia è soprattutto dono di sé di Gesù, che deve diventare dono di sé dei discepoli che la celebrano.

 

Vangelo: Giovanni 13,1-15 

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. 

Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri». Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».  

 

Esegesi 

            Il primo versetto del brano di Giovanni fa da introduzione ai capitoli 13-17, che vengono generalmente denominati «discorsi di addio». Il redattore ha unificato i discorsi tenuti da Gesù ai suoi introducendoli nella cornice dell’ultima cena con loro. Giovanni non parla di cena pasquale come i sinottici, ma dell’ultima cena di Gesù con i discepoli, che cronologicamente pone «prima della festa di Pasqua». Il problema della datazione dell’ultima cena e della crocifissione, presentata in modo differente dai sinottici e da Giovanni, è stato affrontato da molti studiosi, ma è impossibile raggiungere una intesa che non lasci dubbi. D’altro canto l’interesse dei Vangeli non è cronachistico; il racconto è rivolto all’annuncio della rivelazione salvifica di Gesù, che nella morte e risurrezione trova il suo punto culminante.     

     In particolare, il brano che leggiamo oggi si muove su due binari uno è quello di rivelarci qualcosa della natura divina di Gesù e dell’azione salvifica insita nella sua morte, discorso che si farà più evidente nei capitoli che narrano la passione, l’altro è quello di mostrare ai discepoli il tipo di condotta richiesto, per essere veramente considerati tali.

     Gesù è presentato pienamente consapevole della sua passione: il participio «sapendo» è ripetuto ai versetti 1 e 3. Egli conosce la «sua ora», cioè quella della morte, presentata come l’ora «di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1); egli ha piena coscienza dei poteri che gli sono stati dati dal Padre dal quale è venuto e al quale ritorna (Gv 13,3).

     L’evangelista pone gli avvenimenti che seguono nell’orizzonte dell’amore sconfinato di Gesù: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).

     In contrasto con questo amore senza limiti c’è il tradimento di Giuda, che è ispirato dal diavolo, il vero nemico, che Gesù deve sconfiggere (Gv 13,2). È giunto il momento dell’azione del «principe di questo mondo», che anche se apparentemente contrario, non ha nessun potere su Gesù (Gv 14,30); il giudizio sul «principe di questo mondo» è già stato pronunciato (Gv 16,11).

     Sempre nella linea di rivelarci qualcosa del mistero della persona di Gesù e illustrare il valore salvifico della sua missione nel mondo eseguita secondo il volere del Padre, va il colloquio con Pietro. Il gesto di Gesù è a prima vista incomprensibile sia dal punto di vista delle convenzioni sociali, sia perché è il simbolo dell’abbassamento di Gesù, che viene dal Padre, e quindi è di natura divina.

     Gesù è consapevole che, se il livello morale del gesto, più che da capire sarà difficile da imitare; l’abbassamento, la «kenosi» del Verbo di Dio non si accetta se non con l’opera dello Spirito Santo: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7).

     L’insistenza sulla natura divina di Gesù, sul suo potere, che gli viene dal Padre, sulla sua qualità di maestro e Signore porta a dare al gesto della lavanda dei piedi la profondità di «segno» nel senso pregnante del termine che sintetizza la logica di tutta la vita di Gesù e rende il suo comando di fare come ha fatto lui un impegno inderogabile per i discepoli. «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,14).

     Non si tratta semplicemente di compiere un rito liturgico, ma di testimoniarne la logica; il rito serve a ricordare che il Maestro ha chiesto di vivere una vita di servizio dandone l’esempio fino all’amore totale della morte di Croce; i discepoli devono comportarsi di conseguenza. Infatti «il servo non è più grande del suo padrone, né l’apostolo è più grande di colui che l’ha mandato» (Gv 13,16). Questo insegnamento, insiste Gesù, non si deve solo capire, ma la comprensione è vera solo se lo si mette in pratica: «Se capite queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17).

Meditazione

Nella cornice evocativa del pasto rituale della Pasqua ebraica, si apre il racconto della cena di Gesù con i suoi discepoli, momento simbolico che introduce il racconto della passione in tutte le narrazioni evangeliche. Due gesti contrastanti sembrano staccarsi in questo contesto così umanamente intenso, due gesti che sorprendentemente rivelano la profondità dell’amore di Cristo: il tradimento di Giuda e il dono che Gesù fa di se stesso ai suoi. Unico, in qualche modo, è il verbo che accomuna questi due gesti apparentemente molto lontani: si tratta del verbo consegnare (paradidonai in greco). Con sfumature differenti (può significare anche ‘abbandonare’, ‘dare in balia’, ‘tradire’), questo verbo domina tutto il racconto della passione, assumendo una forza paradossale soprattutto nel racconto dell’ultima cena. Il tradimento di Gesù da parte di uno dei dodici (aspetto messo in rilievo soprattutto nella liturgia bizantina, ma anche in quella ambrosiana) non è una semplice azione malvagia dell’uomo, una fatalità dovuta a quei giochi di potere, di invidia, di egoismo che si impossessano del cuore dell’uomo. Questo gesto si inserisce in un disegno più ampio che ha Dio come protagonista: è Dio che si consegna all’uomo. E in qualche modo, il tradimento del discepolo, nella sua triste verità umana, diventa un ‘vangelo’ poiché annunzia la grandezza dell’amore di Dio: mentre l’uomo consegna l’amico per meschinità, il Padre consegna il Figlio per amore. Ma, ancora più in profondità, è il Figlio stesso, nella sua incondizionata obbedienza, a consegnarsi, a donarsi, a spezzare la sua vita e a versare il suo sangue per la salvezza degli uomini.

E l’evangelista Giovanni non manca di sottolinearlo proprio all’inizio del racconto della cena pasquale, mettendo in rilievo la piena consapevolezza di Gesù nel vivere la sua drammatica passione: «prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda… di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle sue mani… si alzò da tavola…» (Gv 13,1-4).

     L’infinita gratuità dell’amore di Cristo, sottolineata da Gv 13,1 con quella stupenda espressione, «amò i suoi sino alla fine», che rivela un amore oltre ogni limite, un amore inaudito e impensabile per l’uomo, è resa plasticamente visibile dai gesti della lavanda dei piedi e del pane e del vino donati. Questi gesti, che si trasformano nella memoria della Chiesa in ‘sacramento’ di una presenza e di un amore che salva, diventano il cuore stesso della liturgia del Giovedì santo. E la liturgia della Parola della messa in Coena Domini, nei testi scritturistici, ci offre una particolare angolatura che ci permette di cogliere questo mistero nella sua totalità. La descrizione del rituale del pasto pasquale ebraico (Es 12,1-14), la narrazione di ciò che Gesù ha compiuto nell’ultima cena (secondo il racconto di Gv 13,1-15) e la celebrazione dell’eucaristia in una comunità cristiana (riportata in ICor 11,23-26) si presentano quasi come un’unica narrazione che scorre misteriosamente nella storia sacra di ogni credente, diventando in essa la memoria viva e il luogo in cui si opera la salvezza. In ognuno dei tre racconti c’è un gesto, un simbolo, una realtà significata: un agnello ucciso e condiviso in un pasto (Es 12,3-8), un catino d’acqua e un asciugatoio usati da Gesù per lavare e asciugare i piedi dei discepoli (Gv 13,3-5), del pane e del vino distribuiti su di una mensa (1Cor 11,23-25). Tre simboli differenti che sorprendentemente formano un’unica icona: quella del dono, quella del volto di Colui che offre la vita per gli amici, l’icona della compassione di Dio per il suo popolo. Altri elementi significativi legano i tre racconti. Il tempo in cui sono collocate le tre scene è la notte, tempo simbolico della morte. E proprio nella notte (che inizia al momento del tramonto del sole) vengono collocati questi tre momenti simbolici che, per la loro forte carica comunicativa (sono gesti di condivisione e di dono) hanno la capacità di squarciare il buio della notte, quasi a capovolgerne il significato: «in quella notte io passerò… Io sono il Signore» (Es 12,12). Un secondo simbolo accomuna i tre racconti: quello del pasto. Nella notte si condivide un pasto: è un linguaggio squisitamente umano che ha la capacità di esprimere la dimensione comunitaria del dono di Dio. E infatti l’agnello viene consumato tra tutti i mèmbri della famiglia; durante il pasto Gesù compie l’umile gesto di servizio verso tutti i suoi discepoli; sulla mensa, nel pane e nel vino condivisi, è posto il mistero dell’amore di Gesù, come presenza perenne in mezzo ai suoi. C’è anche un terzo elemento che lega drammaticamente e misteriosamente le tre scene: quello del sangue, cioè della vita donata, simbolo della morte che apre alla vita (il sangue dell’agnello ucciso, il sangue che viene misteriosamente versato nel gesto di colui che lava i piedi ai discepoli, il sangue donato come comunione di vita nel calice). E, infine, in tutti e tre i racconti, i gesti compiuti non sono un episodio tra i tanti nella storia di un credente. Sono gesti che devono essere rivissuti, ripetuti, gesti che devono trasformarsi in vita per operare la salvezza: «questo sarà per voi un memoriale… lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14)… «vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15)… «ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26). In questi tre eventi è racchiusa la nostra memoria di credenti e tutta la nostra storia; in essi scopriamo continuamente il senso di ciò che facciamo, il senso di ogni evento, il senso della nostra fede; su questi si costruisce la comunione della Chiesa e in essi continuamente la Chiesa si comprende e si purifica.

     Ma con ogni probabilità, il racconto che maggiormente provoca la nostra vita di credenti, nella sua quotidianità e concretezza, è il gesto che Gesù compie verso i suoi discepoli e che la liturgia del Giovedì santo pone come momento di sintesi di tutto il mistero celebrato: «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua… e cominciò a lavare i piedi dei discepoli…» (Gv 13,5). Se nella nostra vita di uomini riusciamo ancora, in qualche modo, a spezzare il pane, sicuramente questo gesto, ci è estraneo: estraneo per cultura, estraneo per sentimenti, estraneo soprattutto per incapacità di comprenderlo. «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (v. 7). Quando incominciamo a capire questo gesto? Quando Gesù lo fa a noi, quando diventa vita in noi, quando noi diventiamo questo gesto per gli altri. Allora questo gesto così lontano dalla nostra cultura, dal nostro modo di vivere, dai nostri rapporti quotidiani, ci apre lo sguardo sull’amore folle di Dio. Ecco perché non possiamo capire questo gesto: è folle perché è totalmente gratuito. E tutto ciò che è folle e gratuito, può essere solo accolto come dono nella nostra vita. Colui che è Signore e maestro, si alza da tavola e ci insegna la bellezza dell’essere servi. Addirittura fa qualcosa di più: depone le vesti. Mentre l’uomo cerca sempre di indossare le vesti della potenza, tutte quelle maschere con cui vuole nascondere a se stesso e agli altri la sua povertà, il Signore depone la sua gloria per indossare l’abito della debolezza e della misericordia, della mitezza e dell’umiltà, l’abito del servo. E così vestito si china sul punto in cui l’uomo si confonde con la terra, il punto in cui l’uomo sperimenta tutta la fatica di essere creatura. Nessun uomo ha il coraggio di collocarsi così in basso. Ed è proprio in questo luogo limite, il luogo della terra dell’umanità, che il Signore rivela la sua potenza. Ed è quella che passa attraverso il gesto della compassione: lavare i piedi di chi è stanco e affaticato, renderli puliti e asciugarli perché l’uomo possa riprendere il cammino nella consolazione e nella certezza che qualcuno custodisce ogni suo passo, che qualcuno è sempre pronto a lavarli e ad asciugarli. In qualunque situazione umiliante l’uomo si trovi, scoprirà ai suoi piedi, al di sotto di lui, un volto ancora più umiliato del suo, il volto del suo Signore che è lì, pronto ad avvolgere i suoi piedi nella compassione.

     Ma il discepolo di Cristo non può dimenticare che tutti i gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena sono accompagnati da un imperativo: «fate questo in memoria di me… come ho fatto io fate anche voi…». Quei gesti non rimangono in quella sala del banchetto, su di una mensa o ai piedi del discepolo. E nemmeno rimangono come stupita memoria nel cuore. Da quella mensa e da quei discepoli essi ripartono, come un cammino ininterrotto lungo la storia, per fermarsi sulla mensa e ai piedi di ogni uomo. Il dono del pane e del vino, il dono della vita di Dio e il suo volto di compassione, hanno un suo luogo di verità: quando li ritroviamo, con lo stesso splendore, ai piedi di ogni fratello. E a quei piedi, se sapremo inginocchiarci, scopriremo accanto a noi il Signore e lui ci insegnerà ancora a lavarli e ad asciugarli, con la stessa tenerezza e umiltà con cui ha lavato e asciugato, in quella notte e in quella cena, i piedi dei suoi discepoli. «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo…».

 

Preghiere e racconti 

     Nel suo essere frutto della terra e del lavoro dell’uo­mo, della natura e della cultura, il pane esprime il biso­gno, ciò che davvero è necessario per vivere. Non a ca­so la parola «pane» indica cibo essenziale e non super­fluo: quando diciamo che «non c’è pane», evochiamo fame e carestia, cosi come del fenomeno migratorio non c’è spiegazione più tragicamente semplice dell’eviden­za che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame. Una corsa, quella cui assistiamo oggi – dalle sponde meridionali a quelle set­tentrionali del Mediterraneo – che segue il percorso compiuto proprio dalla cultura del pane quasi cinque­mila anni fa. Pane, allora, anche come cifra della nostra capacità di condivisione, della nostra disponibilità o me­no a spezzarlo perché tutti ne possano avere, pane che, secondo i racconti evangelici, basta per tutti solo  quan­do è spezzato e condiviso.

      E la civiltà del Mediterraneo ha sempre accostato al pane un altro frutto della terra e del lavoro umano: il vino. Anche qui, il gratuito accanto all’essenziale, il do­no accanto al necessario, la gioia accanto alla sostanza: il pane fa vivere, il vino dà gusto alla vita; il pane ritem­pra le forze, il vino rallegra il cuore; il pane fa corpo con il lavoro, il vino ne addolcisce le fatiche. Pane e vino sulla tavola sono lì a ricordarci la grandezza dell’uomo e a interpellare la nostra sensibilità: quanta fatica e quanta speranza sono raccolti in quei due semplici ali­menti, quanti volti appaiono dietro di loro! Il contadi­no e il mugnaio, il fornaio e il vignaiolo, e poi il bottaio e il mercante, le loro famiglie e i loro bambini, le ansie e le speranze di un anno, le grida della vendemmia e i canti della mietitura, il silenzio delle cantine e dei gra­nai, il rumore della mola e il pigiare nei tini … E ora so­no lì, raccolti sulla nostra tavola, a narrarci la qualità della nostra umanizzazione, a interpellarci su chi siamo e su come desideriamo che sia il nostro mondo.

      Forse anche per questo, come ha giustamente osser­vato Predrag Matvejevié, «la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade parallele o contigue o si­mili». Non a caso nell’ebraismo e nel cristianesimo il pane e il vino sono elementi essenziali della liturgia per eccellenza, il memoriale della Pasqua.

      Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristia­ne si riuniscono per celebrare il grande mistero della lo­ro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore». È cosi che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tut­to l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, del­la scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spi­rito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di que­sto mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

     (Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 42-44) 

Vi ho dato un esempio

«Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12). È giunta l’ora di mantenere la promessa che aveva fatto al beato Pietro e che aveva differita quando a lui che si era spaventato e gli aveva detto: «Non mi laverai i piedi in eterno», il Signore aveva risposto: «Quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi, lo comprenderai più tardi» (Gv 13,7). […] Ora, dunque, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: «Lo capirai più tardi». […] «Se dunque», dice, «io il Signore e il maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda. Vi ho dato infatti un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 13,14-15). Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi. Egli ti promise che l’avresti compreso più tardi, quando il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi. […] Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo. Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era, si alimenta il sentimento di umiltà. […] «Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io». Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede.

Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16). È questo l’esempio che ci ha dato il Signore. Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp. 1094.1098-1100)

Pane della condivisione

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Un giorno unico

Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino. Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta. Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta. Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima. Quella volta che facesti il primo sacrificio. Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia. La prima vittima.

(Ch. PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).

Giovedì Santo

Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto. Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15). Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.

Questi due gesti sono intimamente uniti. Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore. Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15). Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19). Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo. Ci chiama a una totale autodonazione.                                                              

Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi. Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.

Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate. E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me». Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.

(H.J.M. NOUWEN, In cammino verso la luce).

O Signore, dove mai potrei andare?

Io volgo il mio sguardo a te, o Signore. Tu hai pronunciato parole così piene di amore. Il tuo cuore ha parlato così chiaro. Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami. Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…

Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me. Voglio che tu condivida in pieno la mia vita. Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre. Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».

Ti sto di nuovo guardando, o Signore. Tu ti alzi e mi inviti alla mensa. Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me. «Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te». Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te». Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine. Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei. Mi doni il tuo stesso io. Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto. Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.

O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto?

(H.J.M. NOUWEN, Da cuore a cuore).

Ogni volta

Ogni volta che celebriamo l’eucaristia e riceviamo il pane e il vino, il corpo e il sangue di Gesù, la sua sofferenza e la sua morte diventano sofferenza e morte per noi. Siamo incorporati in Gesù. La passione diventa compassione, per noi. Veniamo incorporati a Gesù. Diventiamo parte del suo ‘corpo’ e in questa via quanto mai compassionevole, veniamo liberati dalla nostra più profonda solitudine. Per mezzo dell’eucaristia riusciamo ad appartenere a Gesù nella maniera più intima a lui che ha sofferto per noi, è morto per noi ed è di nuovo risorto, così che possiamo soffrire, morire e di nuovo risorgere con lui.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane).

Preghiera

Dio onnipotente ed eterno

la sera prima di soffrire,

il tuo figlio prediletto affidò alla chiesa

il sacrifico della nuova ed eterna alleanza

e istituì il convito del suo amore.

Fa’ che da questo mistero

possiamo ricevere

la pienezza di vita e di amore.

Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

 PER APPROFONDIRE:

Sett santa GIOVEDI SANTO (C)