Prima lettura: Deuteronomio 6,2-6
Mosè parlò al popolo dicendo: “Temi il Signore tuo Dio osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così sia lunga la tua vita. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore”.
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Come purtroppo diverse volte avviene per i brani liturgici, il testo biblico è stato ritagliato in modo non rispettoso dell’andamento originario. Nel suo tenore completo e primario il testo consterebbe avere due sezioni.
La prima va dal v. 1, escluso dalla versione liturgica, al v. 3. Essa è un invito a dare concretezza al «timore di Dio», cioè alla considerazione di Lui per quello che è nella sua divinità e autorità, attraverso l’osservanza di «tutte le sue leggi e di tutti i suoi comandi». Senza entrare nella analisi dei due diversi termini giuridici noteremo qui semplicemente la completezza tipica del linguaggio deuteronomista. Nessuna prescrizione divina deve essere trascurata, nessun giorno della vita può trascorrere senza la premura di custodirle. Tutto l’arco generazionale che un uomo può conoscere da se stesso fino ai suoi nipoti deve costituire anche la durata dell’osservanza.
Altra caratteristica del Deuteronomio è quella di legare all’obbedienza alla legge dei benefici concreti. Il primo è la longevità. Poco prima in 5,16 la lunga vita era già stata promessa come conseguenza dell’osservanza del quarto comandamento. Il secondo è la posterità numerosa, contenuto tipico delle promesse fatte ai patriarchi (Gentile 12,2; 13,14-16; 15,5 ecc.) e prospettiva decisamente appetibile nella cultura dell’antico vicino oriente. Vita e discendenza sono così punto di convergenza delle aspirazioni umane e delle promesse divine; Dio desidera dare all’uomo ciò a cui egli tende. L’ambiente storico entro il quale queste promesse si realizzeranno è la terra promessa, anche qui indicata come la «terra dove scorre latte e miele» (cf. Es 3,8.17; 13,5; 33,3). L’immagine poetica rende assai bene l’impressione che si ha arrivando dal deserto di Giuda alle zone più fertili della terra d’Israele. Per un popolo di nomadi abituati all’aridità e spoliazione del deserto una terra come quella a cui Dio conduceva non poteva che meritare una descrizione come quella che ormai ci è familiare.
La seconda sezione va dal v. 4 al v. 9, ma nella lettura liturgica abbiamo solo i primi due versetti di questo passaggio tra i più noti della letteratura biblica.
Come si sa gli ebrei recitano tre volte al giorno la preghiera dell’ascolta, costituito appunto da Dt 6,4-9. Più che un’orazione esso è una professione di fede. La dichiarazione più importante, cioè «il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» nel testo originale è un accoppiamento di due sentenze nominali, vale a dire di due proposizioni in cui il verbo essere è assente. Oltre alla traduzione ufficiale italiana che lo ripete in entrambe si avrebbe dunque anche la possibilità di lasciare il predicato verbale in una sola delle affermazioni. Si avrebbe così come prima possibilità di traduzione: JHWH è il nostro Dio, JHWH solo. Reso così il testo pone una dichiarazione fortissima di monoteismo, oltre a YHWH non esiste nessun altra divinità. Non si tratta solamente di una affermazione teorica, ma di una dichiarazione che polemizza con l’avversario cananeo del Dio d’Israele Baal, il cui culto esercitava fascino sugli israeliti e trascinava effettivamente al peccato. La seconda possibilità di traduzione sarebbe: YHWH nostro Dio è un solo JHWH. In questo caso la polemica sarebbe con i diversi santuari locali che rischiavano di creare un pluralismo confusionario di tradizioni teologiche, non sempre controllabili nella ortodossia e una conseguente sospetta pluralità di culti. Si ricorderà certamente che il tema portante della tradizione deuteronomista è l’unicità del tempio e del culto a Gerusalemme, tenacemente voluta e realizzata da Giosia. La scelta legittima della versione CEI si pone nella linea della proclamazione del monoteismo più puro.
Se YHWH è l’unico Dio deve essere amato con assoluta totalità. In altre formule in cui si richiede l’impegno dell’israelita il Deuteronomio implica solamente il cuore e l’anima (4,29; 10,12; 11.13; 26,16; 30,1.6.10), nel nostro testo anche le forze, cioè l’attività fisica dell’uomo viene implicata. L’amore a Dio non rimane quindi una questione di semplice interiorità, ma tutte le facoltà umane vengono coinvolte: intelligenza, volontà, sentimenti, fantasia, creatività, ben consapevoli che fermandoci qui l’elenco è molto lontano dall’essere completo.
All’israelita viene chiesto di «amare» il suo Dio. Il verbo ebraico esprime una gamma vasta di relazioni affettive. Con esso si può indicare l’amore coniugale, quello filiale o fraterno, l’affetto che lega due amici. Se ritenessimo Osea uno degli ispiratori del messaggio deuteronomista, e il suo influsso non è certamente da escludere, bisognerebbe dare la precedenza all’affetto filiale (cf. Os 11,1-4 e Dt 8,5; 14,1) e a quello sponsale, largamente impiegato dal grande profeta per indicare l’alleanza tra Dio e il suo popolo tradita da Israele, custodita invece dal suo sposo. A Israele viene dunque chiesto di vivere l’alleanza con il suo Dio come l’esperienza affettiva più intensa, più piena, veramente unica.
Seconda lettura: Ebrei 7,23-28
Fratelli, [gli Israeliti] sono diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo; Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore. Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli; che non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso. La legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a umana debolezza, ma la parola del giuramento, posteriore alla legge, costituisce tale il Figlio reso perfetto in eterno.
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Nella sezione 7,20-25 la lettera agli Ebrei parla della immutabilità del sacerdozio di Cristo. Al centro del brano vi è la citazione di Sal 110,4 che riporta il giuramento divino: «tu sei sacerdote per sempre». Il brano liturgico illustra il contrasto tra il sacerdozio numericamente molteplice e qualitativamente insufficiente dei ministri della alleanza antica e il perfetto, intramontabile sacerdozio di Cristo. La causa principale dell’imperfezione del sacerdozio della vecchia economia era la morte. Impedendo agli addetti al culto di durare, ne imponeva la sostituzione e i limiti spaziali a cui l’essere umano è soggetto se ne esigeva anche un grande numero.
Il compito del sacerdote è quello di esercitare una mediazione. Attraverso l’offerta di sacrifici, libera gli uomini dai peccati e li rimette in comunione con Dio. Dopo la sua risurrezione Gesù rimane a pieno titolo nella sua dimensione di eternità e vi rimane anche con la sua glorificata umanità. Non più soggetto alla morte, il suo sacerdozio è intramontabile sia nell’aspetto dell’intercessione sia in quello dell’offerta. Per quanto riguarda l’intercessione, la lettera agli Ebrei aveva già presentato questo ruolo di Gesù in 4,14-16 e vi ritornerà sopra la prossima domenica in 9,24. Circa l’offerta, invece, la presente lettura è uno dei passaggi più decisi nell’affermare l’unicità dell’offerta di Cristo al v. 28. Gli altri punti in cui la nostra lettera ribadisce questo insegnamento sono: 9,12.25-28; 10,12-14.18.
Così l’ufficio sacerdotale di liberare dal peccato e riavvicinare a Dio è perfettamente compiuto da Gesù.
Nel v. 26 una serie di aggettivi tratteggia il ritratto ideale di sacerdote che Gesù realizza. In primo luogo Egli è definito «santo». In questa qualifica si assommano le relazioni fondamentali della persona che anche Gesù vive: con Dio, con i fratelli, con se stesso. La santità del resto è la condizione imprescindibile per celebrare e per partecipare al culto e di conseguenza è la prima caratteristica che il Sacerdote unico ed efficace deve innanzitutto possedere. L’aggettivo «santo» si riferisce ai rapporti con Dio vissuti nell’espletamento di tutti i doveri verso di Lui; si tratta della «pietà» come coltivazione dei doveri religiosi nella più assoluta delicatezza e fedeltà. Viene poi l’attributo «innocente» con il quale si illustra il rapporto con il prossimo, dal quale rapporto è esclusa ogni malizia, ogni doppiezza, ogni inganno o falsità per prevaricare sull’altro. La relazione con il prossimo che viene qui illustrata non conosce ombra di male. Infine il Sacerdote ideale è definito «senza macchia», qualifica che nel testo originale è espressa con un solo termine, un aggettivo appunto. Qui si parla del rapporto interno che il soggetto ha con se stesso, con la propria coscienza anch’essa estranea al male. Così si capisce perché e in che modo al Sacerdote era necessario essere separato dai peccatori. Non si trattava di una distanza fisica, cosa che per altro Gesù non ha mai vissuto venendo anzi qualificato «amico dei peccatori» (Mt 11.19; Lc 7,34), ma di una differenza interiore che costituisce l’unicità di Gesù anche nella sua umanità.
La nuova condizione nella quale il Figlio si trova è il santuario celeste (4,14; 9,1). Lì espleta nella vera e piena intimità col Padre l’ininterrotta e fruttuosa mediazione per l’umanità.
Il v. 27 accenna ad una attività quotidiana che il sommo sacerdote ebraico in realtà non espletava. Il culto giornaliero nel tempio infatti era officiato da ministri di grado inferiore. Può darsi che l’autore sacro alluda ad una offerta di farina che si teneva tutti i giorni a spese del sommo sacerdote a ricordo ed espiazione della tolleranza che Aronne ebbe verso gli israeliti quando fabbricarono il vitello d’oro (Es 32). In ogni caso è fuori discussione che quando presiedeva le solenni celebrazioni il sommo sacerdote non si collocava al di sopra del popolo, ma all’interno di esso, solidale con la condizione peccaminosa d’Israele e bisognoso come gli altri di perdono.
Gesù invece costituisce una eccezione spiegata dal testo sacro non tanto in virtù dell’ontologia di Cristo, alla quale specialmente il prologo della lettera era stato dedicato (1,1-4), ma per la perfetta coincidenza tra sacerdote e vittima che esclusivamente in Gesù viene riscontrata. Egli ha offerto se stesso non solo fisicamente, ma ancora di più tale offerta consumata è frutto di un’adesione totale e spontanea alla volontà del Padre, come ben mostrato in 10,3-10, che per altro pure si conclude con la perentoria affermazione dell’unicità del sacrificio di Cristo.
Nel v. 28 viene posta una distinzione tra il sacerdozio della vecchia economia, basata sulla legge, e quello di Gesù che ha come fondamento un giuramento divino, ricordato al v. 21, che non appartiene alla versione liturgica. Distinto è il fondamento della funzione sacerdotale, ma soprattutto differente la qualità. Il sacerdozio di Cristo è perfetto per quanto Egli ha sofferto (2,10) e per l’intercessione perpetua e valida che Egli sempre esercita a nostro favore (6,20).
Vangelo: Marco 12,28b-34
In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”. Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
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Esegesi
Nell’ultima settimana della sua vita, trascorsa a Gerusalemme, Gesù frequenta assiduamente il tempio svolgendovi una intensa attività didattica. Marco raccoglie nel capitolo 12 del suo vangelo l’insegnamento impartito dal Signore prima della sua passione e lo conclude con l’episodio dell’offerta della vedova, che sarà il brano evangelico della prossima domenica.
Il v. 28 viene praticamente tralasciato dalla lettura liturgica. Esso invece spiega perché lo scriba si rivolge a Gesù. Egli aveva assistito al modo in cui Gesù aveva risolto il caso propostogli dai sadducei per mostrargli come fosse arduo e ingenuo sostenere la dottrina della risurrezione e così costringere Gesù ad arrendersi alle loro credenze narrando una situazione alla quale, secondo loro era impossibile dare equa soluzione. Il modo in cui Gesù aveva sostenuto la controversia e l’aveva risolta aveva suscitato fiducia nello scriba accendendo in lui la convinzione che avrebbe potuto ricevere da un simile personaggio la soluzione per un problema ben più importante. Nella selva di precetti in cui il giudaismo di allora si era inceppato non era per nulla facile trovare l’albero dal quale avere la vita, e ai grandi studiosi della legge e caposcuola della sua interpretazione non veniva risparmiata la domanda su quanto fosse essenziale riassumesse in sé la pratica di tutta la religiosità ebraica. A conti fatti risultava che i precetti da vivere erano 613 divisi in prescrizioni e divieti. I primi erano calcolati in 248, cifra che secondo l’anatomia di allora elencava le diverse membra del corpo; i secondi invece corrispondevano al numero di giorni dell’anno: 365.
Un grande maestro di aperte vedute vissuto prima di Gesù aveva sintetizzato la pratica religiosa con parole che anticipano la regola d’oro: «Non fare agli altri ciò che non piace a te» (cf. Mt 7,12; Lc 6,31). Un altro maestro che si lasciò coinvolgere nella seconda rivolta giudaica morendovi martire, Rabbi Aqiba, proponeva l’amore del prossimo.
La risposta di Gesù parte dall’uso già invalso al suo tempo di recitare quotidianamente la preghiera dell’Ascolta, proponendo così, come passo essenziale per arrivare alla vita, la fede nell’unico Dio e le pratiche conseguenze che ne derivano e che risultano evidenti nella prima lettura.
Mentre la domanda dello scriba chiede che si offra un solo comandamento come vertice della prassi religiosa, spontaneamente Gesù ne aggiunge un secondo, preso da Lv 19,18: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Normalmente con il termine «prossimo» si intendeva una persona appartenente al popolo d’Israele, non si debordava dunque dai confini nazionali, religiosi e razziali. Per quanto riguarda l’amore, l’altro veniva identificato come colui con il quale si ha in comune quanto è fondamentale nell’identità. Sebbene poco più avanti rispetto alla regola proposta da Gesù, e precisamente in Lv 19,34, si ingiunga di estendere questo amore anche al forestiero che abita in Israele con la motivazione che gli stessi ebrei sono stati forestieri nel paese d’Egitto, non si è mai superata la barriera religiosa e razziale nella prassi dell’amore al prossimo. Gesù intende dare invece a questa seconda norma un respiro certamente universale. Nel vangelo di Marco non abbiamo passi che affrontino direttamente il problema della identità del prossimo, come avviene invece in Luca con la parabola del buon samaritano (10,29-37); tuttavia credo che l’aver scelto un centurione romano come soggetto della più importante professione di fede nel suo vangelo (15,39) sia una prova di come l’orizzonte universalistico di Gesù sia stato da lui assai ben percepito.
Con la sua risposta Gesù ha creato un legame indissolubile tra l’amore di Dio e quello del prossimo. Rimane certamente una chiara scala di valori per cui l’amore a Dio mantiene la precedenza assoluta, ma saldamente legato all’amore ai fratelli senza preclusioni.
L’entusiasmo dello scriba per la risposta di Gesù si esprime in un commento che istituisce un paragone tra amore e culto. Il primo, vissuto nella prospettiva data da Gesù, mantiene di gran lunga la precedenza sull’apparato rituale, anzi è l’amore stesso a diventare la forma più alta di culto, come è avvenuto per Gesù, e come la seconda lettura ha ricordato.
Il v. 34, che conclude il brano, mostra come Gesù abbia riscontrato in questo scriba vera sapienza, e la dichiarazione fatta a suo riguardo: «Non sei lontano dal regno di Dio» è di grande importanza. Anzitutto essa ci dice che Gesù non ha prevenzioni verso nessuno, nonostante che in 12,38 (vangelo della prossima domenica) Gesù inviterà la folla a non prenderli come modello. In 11,27 gli scribi insieme ai sommi sacerdoti e agli anziani avevano assunto verso Gesù un atteggiamento sfavorevole e inquisitorio, mentre in 16,53 e in 15,1 lo stesso gruppo di persone appare come il regista umano della passione di Gesù. In 15,31 gli scribi saranno presenti sotto la croce a schernire Gesù insieme ai sommi sacerdoti.
Questa barriera di odio però per Gesù non ha per lui alcun valore. Egli sa riconoscere il bene che c’è nel cuore anche di chi appartiene ad una categoria ostile incoraggiando questo avversario a proseguire sulla vita che conduce a fare l’esperienza veramente liberante di Dio. Il regno infatti, primo e fondamentale annuncio di Gesù (1,15) altro non è che la potenza di Dio che rende gli uomini liberi dal male conducendoli fino a quella realtà di cui il regno è sinonimo, cioè la pienezza della vita (cf. 10,43-48).
Meditazione
Il Vangelo di questa domenica ci porta nel tempio di Gerusalemme, ove Gesù ha già affrontato i sacerdoti, i farisei, gli erodiani e i sadducei. Interviene ora uno scriba, il quale si inserisce nel dibattito ma con animo diverso da coloro che lo hanno preceduto. Egli pone a Gesù una domanda vera, decisiva: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Da esso, in effetti, dipende tutta la vita, nella sua globalità e nel suo svolgersi quotidiano Gesù, davanti ad una domanda come questa, non fa attendere la sua risposta. Cita anzitutto un passo del Deuteronomio da tutti conosciuto essendo la professione di fede che i pii israeliti recitano ogni giorno, mattina e sera: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4- 5). E poi aggiunge: «Il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba, a differenza della gran parte dei colleghi presenti, concorda con Gesù e nel rispondere cita anche lui, quasi a dimostrare la continuità dell’insegnamento della Scrittura, un brano tratto dal primo libro di Samuele: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12,32-33). E saggio e sincero questo scriba, tanto che Gesù gli rivolge un complimento che ognuno di noi gradirebbe: «Non sei lontano dal regno di Dio». Gesù non disprezza nessuno, neppure coloro che altre volte lo avevano contrastato, anzi coglie il desiderio di quell’uomo che vuole capire.
Ma qual è il contenuto del consenso tra Gesù e il suo interlocutore? È il duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo; due comandamenti, a tal punto uniti, da essere la stessa cosa. E questa unità che Gesù sottolinea. La prima comunità cristiana lo aveva ben compreso. L’apostolo Giovanni, quasi a commento del brano evangelico che abbiamo ascoltato, scrive: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,20-21). L’unione tra questi due comandamenti è un originale e chiarissimo insegnamento di Gesù, sebbene, come mostra la risposta dello scriba, già nel Primo Testamento è presente sia l’amore per l’unico Dio che quello per il prossimo. Gli israeliti, oltre che ad amare Dio sopra ogni cosa, sono altresì chiamati ad amare tutti i membri del popolo, particolarmente i più deboli, i piccoli, gli orfani, le vedove e gli stranieri (furono stabilite anche delle apposite leggi perché tutto ciò fosse attuato). Ma in Gesù questo duplice amore trova il suo compimento, la sua esaltazione sino ai limiti più alti. In lui si uniscono, si fondono, si identificano perché discendono dallo stesso Spirito. Gesù è colui che ama; è il compassionevole, il misericordioso, l’unico buono. È l’uomo che sa amare più di tutti e meglio di tutti.
Gesù ama il Padre sopra ogni cosa. Nelle pagine evangeliche emerge il particolarissimo rapporto tra Gesù e il Padre; un rapporto di dipendenza totale. È la ragione della sua stessa vita. Gli apostoli sono ammaestrati dalla singolare confidenza e dal totale abbandono che egli riponeva nel Padre, sino a chiamarlo con il tenero appellativo di «papà» (Abbà). E quante volte lo hanno sentito dire che l’unico scopo della sua vita era fare la volontà di Dio: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34)! Gesù è davvero l’esempio più alto di come si ama Dio sopra ogni cosa. Gesù ha amato con la stessa intensità anche gli uomini. Per questo «si è fatto carne». Nella Scrittura leggiamo che Gesù ha tanto amato gli uomini da lasciare il cielo (ossia la pienezza della vita, della felicità, dell’abbondanza, della pace e della consolazione) per stare in mezzo a noi. E nella sua esistenza c’è stato come un crescendo di amore e di passione per gli uomini, sino al sacrificio della sua stessa vita.
Ma cosa vuol dire amare «come se stessi»? Bisogna, appunto, guardare Gesù per poterlo capire. Lui infatti sa indicarci qual è il vero amore per noi stessi. Non di rado l’ignoranza in tale campo è notevole. Talora si cerca una felicità che non è tale, un benessere che non scende nel profondo; una libertà che è sottomettersi ancor più supinamente alla schiavitù di questo mondo. Gesù sembra dire: se ti rinchiudi nel tuo egoismo, non ti ami; se sei ripiegato sui tuoi interessi, ti vuol male, rovini la tua vita, ti rattristi; e così via. È, quanto accadde a quell’uomo ricco che non volle lasciare le ricchezze per seguire Gesù. Il senso dell’amare gli altri come se stessi è ben spiegato da altre parole dette da Gesù: «Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35); e ancora: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). Gesù, che ha vissuto per primo e sino in fondo queste parole, suggerisce che la felicità sta nell’amare gli altri più di se stessi. Tuttavia, è così intenso l’amore che ciascuno ha per sé, che almeno riversiamo l’intensità di questo amore sul nostro prossimo, e renderemo migliore la nostra e la vita degli altri.
Si tratta di una parola alta ed ardua. Chi può metterla in pratica? Bisogna rispondere che nulla è impossibile a Dio. Ed in effetti questo tipo di amore non si apprende da soli o sui banchi della scuola degli uomini; al contrario, in questi luoghi si apprende, e fin da piccoli, ad amare soprattutto se stessi e i propri affari, contro gli altri. Il tipo di amore di cui parla Gesù si riceve dall’alto, è un dono di Dio; anzi è Dio stesso che viene ad abitare nel cuore degli uomini. La prima lettura ci ricorda che esso nasce dall’ascolto, come la fede: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze». Ascolto e amore sono strettamente congiunti. Non si può amare Dio se si continua ad ascoltare se stessi, e quindi ad amare se stessi. Ci si dovrebbe onestamente chiedere come mai spesso non cambia la nostra vita, nonostante frequentiamo con fedeltà la casa di Dio. Forse perché non ascoltiamo con il cuore e non ci portiamo nel cuore la parola di Dio, che sola trasforma e converte. Il libro del Deuteronomio insiste su questo comandamento, che è alla base di tutta la legge. Il profeta Geremia interpreterà tutta la storia di Israele e la profezia come una storia di ascolto e non ascolto di Dio: «Il Signore vi ha inviato con assidua premura i suoi servi, i profeti, ma voi non avete ascoltato e non avete prestato orecchio per ascoltare quanto vi diceva» (Ger 15,4-5). Anche oggi ogni ebreo osservante si rivolge ogni giorno a Dio con la preghiera dello Shemà, che comincia proprio con Dt 6,4. Solo ascoltando e riconoscendo l’unicità di Dio sulla propria vita si potrà imparare ad amare Dio e il prossimo.
La santa Liturgia della domenica è il momento privilegiato per ricevere il grande dono dell’amore, quando ascoltiamo la parola di Dio e incontriamo il Sommo Sacerdote, che Dio ha stabilito una volta per sempre, il Signore Gesù che si offre per noi sull’altare, lui, come si legge nella Lettera agli Ebrei, il «santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli». In lui noi troviamo l’amore perfetto, perché egli ci ha amato tanto da dare la sua vita per noi. Per questo, nel giorno del Signore, con gioiosa riconoscenza, avviciniamoci all’altare. Anche noi, come quello scriba saggio, ci sentiremo ripetere: «Non sei lontano dal regno di Dio».
Preghiere e racconti
Parlami della felicità e dell’amore
Durante quel terzo giorno, il giovane principe non aprì quasi bocca. Mi ascoltava e tornava a sprofondare nelle sue riflessioni, come se, sentendo avvicinarsi la fine del viaggio, volesse assorbire tutte le mie esperienze.
“Parlami della felicità e dell’amore”, mi chiese all’improvviso.
“Bell’argomento” esclamai con un sospiro. […] “L’esperienza mi ha insegnato che non esiste la felicità senza l’amore, intenso come una costante passione per la vita e un continuo stupore di fronte a tutto ciò che percepiamo attraverso i nostri sensi: colori, movimenti, suoni, odori o forme che siamo. […] La strada più diretta e più semplice per la felicità è rendere felici le persone attorno a noi”, conclusi.
Dopo una pausa di silenzio, notando che il mio giovane amico mi ascoltava attento proseguii: “Quanto all’amore, la più grande verità mai detta è che si apprende ad amare solo amando. Tutti possiedono una grande capacità di offrire amore, anche solo con un sorriso, che arricchisce chi lo dà e chi lo riceve”. […] “L’amore vero”, proseguii, “si concentra su quello, che fa bene agli altri e dimentica se stesso. Per questo tipo di amore, capace di accettare tutto e perdonare tutto, non c’è niente di impossibile. Se trattiamo gli altri per quello che sono, continueranno a essere sempre gli stessi, ma se li trattiamo per quello che potrebbe diventare, raggiungeranno tutta la loro pienezza. Questo è un amore altruista, che perfeziona tutto ciò che incontra e non lascia nessuno indifferente.”
[…] “E come faccio a sapere chi si merita il mio aiuto e il mio amore?” chiese il giovane principe.
“Spesso risparmiamo il nostro aiuto per offrirlo solo a chi se lo merita davvero. È un grave errore, perché non spetta a noi giudicare i meriti altrui, cosa oltremodo difficile, ma semplicemente amare. Come accade con il perdono, chi più ama più si arricchisce. In fin dei conti, se Dio ama tutti gli essere umani allo stesso modo, che diritto abbiamo noi di escludere alcuni e preferire altri? Chi si approfitta della tua bontà va semplicemente compatito. E in più, se dedicherai la tua vita a scoprire il meglio della gente, finirai per trovare il miglio di te stesso.”
(A.G. ROEMMERS, Il ritorno del giovane principe, Corbaccio, Milano, 2012, 101; 104-105)
Una leggenda irlandese
Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l’Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi. Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affliggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono. Le caratteristiche richieste erano le seguenti: 1) amare Dio e 2) amare gli altri esseri umani.
Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani. Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessario per il viaggio sino al castello. Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente potè mettersi in viaggio alla volta del castello. Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano: «Ho fame e ho freddo. Mi aiuti?»
Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante. Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste. Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno. All’arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente potè accedere nella sala del trono.
Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore.
«Voi… voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada».
«Sì», rispose il re. «Quel mendicante ero proprio io».
«Ma non siete un vero mendicante. Siete il re».
«Sì, sono il re».
«Perché avete fatto questo?», chiese, allora, il giovane.
«Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani. Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d’oro e dai miei abiti regali.
Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale; ma in questo modo non avrei mai saputo com’è realmente il tuo cuore. Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell’amore del tuo cuore.
Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani. Tu sarai il mio successore. Tu avrai il mio regno!»
(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 109-110).
Il mistero dell’Amore
«Auguro a tutti di sentire in voi un po’ di quell’amore che non dipende dal fatto che in questo momento siate amati da una persona o che siate innamorati di qualcuno. L’amore è una qualità divina. Rende magica la nostra vita. Quest’amore è in ognuno di noi e ci circonda nella creazione che ci abbraccia, nella presenza d’amore di Dio che ci avvolge e nelle persone che ci amano.
Auguro a tutti voi che vi sappiate amati e che troviate gusto nell’amore con cui amate gli altri. E ho fiducia nel fatto che, nelle vostre esperienze d’amore, nelle delusioni d’amore e nella gioia che l’amore ha suscitato in voi, riconosciate e percepiate il mistero di un amore che non è più fragile, su cui possiate sempre fare affidamento, che non si esaurisce mai perché si alimenta dalla sorgente dell’amore divino che fluisce in voi. Se avvertite in voi quest’amore, potete stare certi di essere in Dio, che siete iniziati al più grande mistero di Dio, il mistero del suo amore».
(A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 61-62)
Amare Dio
Esiste un terzo oggetto del mio amore: Dio. Oltre a me stesso e agli altri, devo amare il Signore mio Dio con tutta la mia mente, il mio cuore e la mia forza. Amare Dio aggiunge una dimensione nuova e diversa all’amore. Nonostante quanto ci piacerebbe credere, di fatto non possiamo dare a Dio nulla che Egli già non possegga. Dio non ha bisogno di noi come noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Soltanto coloro che sono indigenti provano dei bisogni, e Dio non è indigente. In ogni caso, Dio ci domanda di amarci gli uni gli altri e ci promette che qualunque cosa facciamo per il più piccolo dei suoi figli, lo considererà come fatto a Lui.
(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 71).
Amare il prossimo
Dice Kiekegaard “è proprio dell’amore cristiano scoprire che il nostro prossimo esiste… e che ognuno di noi è il prossimo di qualcuno. Se amare non fosse un dovere, il concetto stesso di ‘prossimo’ non avrebbe alcun significato. Ma solo quando noi amiamo il nostro prossimo, solo allora l’egoismo insito nell’amore preferenziale viene estirpato, e conservato invece il sereno equilibrio dell’eterno.”
(Cit. Leo BUSCAGLIA, Amore, Mondatori, Milano, 1972, 168).
Pioggia dentro
Una sera di pioggia.
Su un marciapiede della città
un vecchio steso per terra.
Inginocchio accanto a lui
mi lascio interrogare dai suoi occhi
annebbiati dal viso.
Il suo sguardo penetra il mio
per raccontarmi,
nel silenzio,
la sua vita infelice,
la solitudine,
il desiderio di amare,
l’attesa d’una famiglia….
Una voce alle mie spalle mi rassicura
che la colpa è della società,
ma arriva un’ambulanza,
raccoglie da terra quel problema
e se lo porta via.
(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 44).
Amare me stesso
«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre». La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri”».
(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).
Saggezza
Una coppia di novelli sposi chiese:
«Cosa dobbiamo fare
perché il nostro amore duri?».
Rispose il maestro:
«Amate insieme altre cose».
Preghiera
O Dio unica fonte di tutto ciò che esiste, tu sei il Padre nostro: donaci l’amore perché, fedeli al tuo comandamento, possiamo amarti con cuore indiviso, cercando te in ogni cosa. Insegnaci ad amarti «con tutta la mente»: illumina la nostra intelligenza, perché libera dal dubbio e dalla vana presunzione sappia scoprire il tuo disegno di salvezza nella storia e nelle circostanze quotidiane.
Fa’ che ti amiamo «con tutte le forze», consacrando a te e al tuo servizio le nostre capacità e i nostri limiti, le nostre azioni e le nostre impotenze, i nostri risultati e i nostri fallimenti. Aiutaci, Signore, ad amarti in ogni fratello che tu ci hai posto accanto e che tu hai amato per primo, fino al sacrificio del tuo Figlio. La sua oblazione eterna ci dia la forza e la gioia di perdere noi stessi nella carità per ritrovarci pienamente in te che sei l’Amore.
* P er l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
PER L’APPROFONDIMENTO: