Prima lettura: Is 53, 2-3. 10-11 Salmo: Sal 32
Seconda lettura: Eb 4, 14-16 Vangelo: Mc 10, 35-45
Per riflettere…
Liberi di servire
Prima di questo vangelo c’è il terzo annuncio della passione. Già altre due volte Gesù aveva annunciato la sua passione e morte e in entrambe gli apostoli non avevano capito niente. Così Gesù per la terza volta deve ridire la cosa: “Guardate che rischio; guardate che non è come voi pensate; guardate che quelli là forse me la faranno pagare per ciò che dico, per ciò che faccio, per la libertà che io porto, per lo scombussolamento che io porto” (Mc 10,32-35).
Gli apostoli iniziano ad aver paura perché iniziano a capire (Mc 10,32: “Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore”) ma continuano a seguirlo imbevuti delle loro idee in cui ancora credono: Messia forte e potente.
Ed ecco il vangelo di oggi: due apostoli, Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, gli si avvicinano. Soffermiamoci un po’ su questi “figli di Zebedeo”: santi oggi ma non certo all’inizio.
Giovanni lo abbiamo incontrato qualche domenica fa. Vi ricordate? Gli apostoli non riuscivano a guarire dai demoni (9,18) e quando vedono uno che, invece, ci riesce, glielo impediscono. Giovanni è invidioso, geloso: “Ma come? Io che sono un “discepolo doc” non riesco e lui sì?”. E’ difficile accettare che altri sono più bravi di noi e riescono in molte cose. Ma è così!
Un’altra volta questi due fratelli, quando Gesù viene rifiutato dai samaritani, offesisi, gli dicono: “Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li distrugga?” (Lc 9,54). Sono vendicativi: la vendetta è l’incapacità di elaborare un dolore, un lutto, una ferita: “Mi fai fatto del male? Adesso la paghi (mi vendico) e ti infliggo il dolore che tu hai dato a me”.
Proprio per questo venivano chiamati i Boanerghes, i figli del tuono. Ed è Gesù stesso che li chiama così (Mc 3,17). Nel gergo popolare c’è rimasta l’espressione: “Non rompere gli zebedei!”. Come il forte rumore di un fulmine “rompe” il timpano, così erano per carattere Gc e Gv.
La rivista scientifica Science ha pubblicato questo esperimento di De Quervain dell’Università di Zurigo. Hanno studiato cosa fa il cervello (attraverso una PET) di fronte alla vendetta.
Ad un gruppo di persone viene detto che è possibile aumentare il proprio reddito fidandosi dell’altra persona. Alla persona A è data la possibilità di dare un determinato ammontare di denaro alla persona B. Se la persona A accetta, viene quadruplicato l’ammontare di soldi che B riceve. A B allora è data la possibilità di conservare tutti i soldi o dividerli con A. Quando B non condivide ma mantiene i soldi per sé, A ha 3 opzioni per vendicarsi: 1. punire B con un grande importo da versare; 2. punire B con una vendetta a pagamento (più è alta la vendetta e più A paga); 3. sostanzialmente corrisponde a nessuna vendetta (una semplice censura). In un’area del cervello chiamata “caudate nucleus” la soddisfazione è enorme nel primo caso, buona nel secondo e irrilevante nel terzo.
La vendetta, mostra l’esperimento, ci procura soddisfazione, dà un piacere terribile, ma ci rende uguali all’altro. Da feriti ci fa diventare degli altri punitori, castigatori. Così l’altro non solo ci ha feriti ma ci ha fatto diventare come lui.
Una donna è stata tradita dal marito e “per vendicarsi” ha fatto lo stesso: “Così adesso sai cosa vuol dire!”. Ma cos’hai cambiato? Cos’hai risolto? Pensi che questo ti tolga il tuo dolore interno? Non sei adesso come lui, proprio come lui che condanni? E se perdonassi?
La vendetta ci rende simili agli animali: ci dà soddisfazione ma non cambia minimamente la realtà.
In Mc 1,20 c’è scritto che quando Gesù passa sulle rive del lago di Galilea, dopo aver già chiamato Simone e Andrea, chiama anche Giacomo e Giovanni, i figli Zebedeo (Mc 1,19). E c’è scritto che questi due “lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono” (Mc 1,20).
Ma è proprio vero che hanno lasciato il loro padre? No, perché per tutto il vangelo vengono sempre chiamati i “figli di Zebedeo”. Cosa ci vuol dire Mc continuando a chiamarli così?
1. Si può lasciare la casa paterna e materna fisicamente ma si può rimanere attaccati a loro.
2. Si può diventare grandi ma non autonomi, indipendenti. Alcune persone invecchiano ma sono sempre “figli”, dipendenti, non sono mai passati a maggiore età dello spirito. Continuano a cercare il parere degli altri e il loro riconoscimento.
Gc e Gv hanno lasciato l’attività del padre ma continuano a pensare come lui. Non sono loro che pensano, ma è il loro padre, la loro famiglia, la loro tradizione che pensa in loro.
Le persone con orgoglio a volte dicono: “Sono come mio padre; io faccio come lui; quando mio padre…; quando io ero piccolo mia madre…”. Ma se tu hai come riferimento solo lui/lei e tu copi ciò che faceva, allora tu non stai vivendo la tua vita ma la loro. “Mio padre faceva, educava, ecc. così… mio nonno anche…”: ma allora non sei tu che vivi, sono loro che vivono in te.
Alla morte del rabbino gli succedette il figlio. La gente gli diceva: “Tu non sei come tuo padre: tu fai tutto diversamente da lui!”. E lui: “No, io sono esattamente come mio padre: lui non assomigliava a nessuno e io… neanche!”.
Se tu non ti sai formare un pensiero diverso, tuo, autonomo, indipendente da quello della tua famiglia di origine, dal tuo paese, dal tuo ambiente, non sei tu che vivi ma gli altri che vivono in te, gli altri che pensano per te, gli altri che scelgono in te. Pablo Neruda: “Talvolta ho vissuto la vita di altri”.
C’è una donna che è in depressione. E’ in depressione perché lei si continua a chiedere sempre: “Ma è giusto quello che faccio? Va bene quello che faccio? Gli altri cosa dicono, cosa fanno?”. Vive del giudizio degli altri; è terrorizzata da ciò che gli altri potrebbero dire e quindi non vive niente di suo. E a forza di tener dentro, tutto si è compresso.
Chi vive del giudizio degli altri è ancora nella casa paterna: “gli altri” di oggi sono il consenso dei genitori. Faccio, mi muovo, dico, se ho il parere di mamma e di papà (oggi sono gli altri, l’autorità, il giudizio sociale). “Ma sei grande: vivi la tua vita, fai le tue scelte e prenditi le tue responsabilità”.
Un giorno un famoso dottore di New York, unico nel suo campo, ricevette quattro telefonate: tutte e quattro le telefonate venivano dalla Francia ed erano i figli di donne anziane che lo consultavano per sapere se portare le loro madri lì da lui. Dopo il consulto ognuno fece delle scelte diverse.
I figli della prima donna portarono la madre da lui: ma il viaggio fu pesante per lei, le condizioni si aggravarono ed essa morì. Così i parenti dissero: “Se la lasciavano a casa almeno forse non sarebbe morta”.
I figli della seconda donna la lasciarono a casa, valutando troppo pesante il viaggio. La donna però morì. I parenti commentarono: “Se almeno i figli avessero provato a portarla a New York”.
I figli della terza donna la portarono da un famoso medico francese. La donna però morì. I parenti commentarono: “L’hanno fatto per risparmiare i soldi”.
I figli della quarta donna portarono la madre a New York. La donna però morì. I parenti commentarono: “Pensavano di salvarla con i loro soldi! Hai visto, invece!”.
Qualunque cosa fai può esser giudicata, quindi tanto vale fare ciò che si vuole. Questo è essere adulti e non più figli: “Vivo la mia vita, non chiedo il consenso, né l’autorizzazione e mi prendo le mie responsabilità senza accusare gli altri”.
Sentite l’ambizione di Gc e Gv: “Noi vogliamo che tu ci faccia” (Mc 10,36). Comandano a Gesù! Loro non chiedono: loro vogliono, esigono, pretendono. Non si discute su questa cosa.
Gesù cade dal mondo delle nuvole. Non ha neppure idea di cosa potrebbero chiedergli e infatti chiede: “Che cosa volete che io faccia per voi?”.
Un attimo prima ha detto: “Vado a Gerusalemme, forse mi prenderanno; forse me la faranno pagare; forse mi uccideranno; ho paura ma devo andare; statemi vicino, aiutatemi” e quando sente la loro richiesta, Gesù rimane sconcertato, allibito: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (Mc 10,37). Ma cos’hanno ascoltato questi qua? Ma quanto interessati a Gesù erano?
Quando uno è preso dai suoi problemi non ti può e non sa ascoltare. Due amiche, una dice: “Sai ho da dirti una cosa: sono preoccupata perché mio figlio lo vedo triste, si chiude speso in camera, non esce più con gli amici…”. Allora l’altra interviene: “Ah, sapessi il mio. Fa’ quello che vuole, non mi ascolta, non è mica come sua sorella che è studiosa…” e parla venti minuti. Ma dov’è l’ascolto qui?
Gesù risponde loro: “Voi non sapete ciò che domandate” (Mc 10,38). Voi siete fuori del tutto. Sì, Gesù un giorno avrà uno a destra e uno a sinistra, ma chi sono? Non sono i suoi ministri ma due ladroni: “Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra” (Mc 15,27).
Sono degli illusi: sono convinti che Gesù vada a Gerusalemme per governare, comandare, dirigere. E loro si vedono già ministri degli esteri e degli interni. Non hanno capito niente perché non lo hanno ascoltato veramente. Hanno sentito la sua voce ma non le sue parole.
E quando Gesù gli dice: “Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui sono stato battezzato” (Mc 10,38), cioè potete seguire il mio destino e la mia missione, questi poveri illusi gli dicono: “Sì, certo!, lo possiamo”. Illusi!
E l’illusione di questi due e degli altri continuò. Durante l’Ultima Cena, che loro non pensano minimamente sia l’ultima e che sia il saluto di Gesù, Pietro (e compagni) “con insistenza diceva: “Se anche dovessi morire, non ti rinnegherò”. Lo stesso dicevano tutti gli altri” (Mc 14,31). Solo che un attimo dopo, quando arrivano ad arrestare Gesù il vangelo dice: “Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono” (Mc 15,50). Ecco qua, tutta la loro presunzione.
Sembrano quelli che dicono: “Ah se ci fossimo noi… ah, io farei tutto diverso!”. Forse!
Poi Gesù dice: “Il calice mio lo berrete… e il battesimo lo riceverete…” (Mc 10,39) ma non come pensate voi. Loro pensano ad un Messia forte, potente, con armi ed esercito: per questo sono disposti a morire. Solo che Gesù non è questo.
Bere il calice era una tipica espressione ebraica che indicava la morte con il martirio. Loro sono disposti a morire per il Messia (potente) ma non per Gesù (debole e indifeso).
E cosa fanno gli altri dieci? Si sdegnarono con Giacomo e Giovanni (Mc 10,41).
E perché si sdegnano? Non per ciò che hanno detto ma perché anche loro volevano stare alla destra e alla sinistra di Gesù. Di che cosa avevano discusso un po’ prima (Mc 9,34)? “Di chi tra di loro fosse il più grande!”.
Ora uno si chiede: se due vanno da Gesù e gli apostoli sono dodici, è ovvio che gli altri sono dieci. Che bisogno c’era di sottolineare, di dire, “gli altri dieci”?
Dobbiamo tornare indietro (gli apostoli conoscevano bene la simbologia): Salomone era stato un re spietato, vanitoso e ambizioso e mise a lavori forzati l’intera popolazione per la sua vanità. Alla morte di Salomone gli anziani del popolo andarono dal figlio Roboamo e gli dissero: “Guarda, tuo padre ci ha succhiato il sangue dalle vene, tu cerca di comportarti meglio”. Lui disse: “Se mio padre vi schiacciava con un mignolo, io vi schiaccerò con un pugno”. E per questo ci fu lo scisma: dieci tribù abbandonarono il regno di Davide e formarono un altro regno; così rimasero solo due tribù.
Qui si ripete la cosa di secoli prima: dieci e due. Quindi si vuol dire che quando c’è l’ambizione, c’è la divisione.
Allora Gesù deve chiamarli a sé e di nuovo parlargli (Mc 10,42). Osserviamo due cose.
1. Gesù li chiama. Ma non li aveva già chiamati (Mc 1,20)? Sì. E non avevano già risposto? Sì. La chiamata è cambiare mentalità, lasciare le rigidità e le illusioni, entrare nella propria umanità e dare un nome, il loro vero nome, a ciò che abbiamo dentro.
Per loro questa chiamata è stata quella di dover riconoscere di essere ambiziosi. Per noi la chiamata è diventare prete o suora, ma per Gesù è prima di tutto cambiare vita e mente.
2. Gesù, e ne aveva ben motivo, non li rimprovera, ma li porta al senso profondo delle cose.
Un bambino di quattro anni picchia un amichetto. Arriva la sua mamma e lo picchia per ciò che ha fatto. Ma cos’ha fatto? Niente! Gli ha solo rinforzato l’idea che il più forte picchia il più debole (lui l’amichetto; la mamma lui). Ma se la mamma gli spiegasse che se fa così, succede colà… che gli amichetti sono fatti per giocare… allora lui un giorno potrà capire.
E’ inutile rimproverare la gente perché non viene in chiesa. Intanto bisognerebbe chiedersi perché non viene. Forse non ci viene perché non trova niente che meriti per venire. Ma detto questo è meglio spiegare loro che fermarsi, ascoltare il vangelo, nutrirsi di silenzio, di comunità, di Dio, ci fa bene, ci rende più umani, più veri, placa le nostre inquietudini e dà stabilità alla nostra vita. Se uno questo lo sente, lo vive, ne è toccato, viene in chiesa perché sa che gli fa bene.
Non condannate: spiegate sempre il senso delle cose e le conseguenze di ciò che si fa o non si fa.
E Gesù spiega: “Chi vuol essere grande sia servitore e chi primo, ultimo” (Mc 10,41-44). Qui si utilizzano due parole che vanno spiegate.
Servitore=diakonos (Mc 10,43). Il diacono (minister in latino) è colui che volontariamente serve a tavola. Non è costretto, ma è colui che si mette a disposizione volontariamente. E perché lo fa? Per amore, per passione, per la gioia che ha dentro.
Perché un ragazzo fa l’animatore o un adulto il catechista? Perché vede i “suoi” ragazzi crescere, essere felici, cambiare, sviluppare le loro potenzialità, ecc.: che c’è di più grande di questo? Perché lo fa? “Per passione, per gioia”. Servire è fare gratuitamente ciò che dà gioia ad altri. Cioè: mi metto a tuo servizio perché tu possa essere il meglio di te.
Un animatore è a servizio della vita dei suoi ragazzi: vuole che essi tirino fuori tutta la loro vitalità. Un animatore è servo perché non ha un piano su di loro ma sviluppa ciò che loro sono.
Ultimo=dulos (Mc 10,44). Il dulos (servus in latino) era lo schiavo: sopra di lui non c’era nessuno. Gesù ci invita non ad essere schiavi nel senso di sottomessi, di insignificanti, ma a metterci all’ultimo posto non perché si è indegni o non si vale niente ma perché se sei ultimo tutti gli altri sono prima di te e quindi tutti meritano onore e rispetto. I capi delle nazioni non fanno così: loro sono primi e mettono tutti gli altri sotto. Ma se tu sei ultimo allora tutti hanno valore, tutti sono importanti, tutti meritano rispetto, amore, attenzione, onore.
Poi Gesù chiude con questa frase: “Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).
Cosa vuol dire “in riscatto”? Riscatto è lytron. Il lytron era ciò che bisognava pagare per togliere una persona dalla schiavitù. In caso di debiti o se prigionieri di guerra, il lytron era la cifra che la famiglia doveva pagare (se poteva) per avere la libertà.
Cosa fa Gesù allora? Mette la sua vita (e si usa il termine psyché), cioè la sua vitalità, la sua energia, la sua forza, la sua fiducia in Dio, la sua conoscenza del Padre, tutto quello che lui ha, a servizio per liberarci, per toglierci dalle nostre prigioni e dalle nostre schiavitù. Lui è venuto e ha messo la sua vita a servizio nostro: perché noi possiamo essere liberi. Questo è l’amore.
Tu hai un bagaglio di soldi, di conoscenze, di generosità, di compassione, di ascolto, di empatia, di abilità manuali, musicali, artistiche, sportive, di passione, di giustizia, di mediazione, di organizzazione, ecc.: che te ne fai? Tanto ciò che hai non te lo porterai di là!
Vuoi tenertelo tutto per te? Amore, servire, è mettere ciò che si ha e ciò che si è a disposizione per il mondo. Allora succedono due cose:
1. Si è utili a questo mondo. Allora la nostra vita fa del bene agli altri. Ciò che siamo crea vita. Allora ci si sente uniti: qualcosa di te vive negli altri.
2. Ci si sente utili e così la nostra vita acquisisce senso: che ci siamo o che non ci siamo non è la stressa cosa. Perché quando sei utile, importante per qualcuno, esserci o non esserci fa la differenza.
E’ famoso l’esperimento di Northfield. In quest’ospedale, dove lavoravano i due psichiatri Bion e Foulkes, erano in cura i soldati malati da nevrosi di guerra. Vi erano cioè i soldati il cui morale era a terra per l’orrore e le difficoltà della guerra e il compito dei psichiatri era quello di convincerli a lottare senza arrendersi alla malattia o ai problemi. Come risollevare il morale di queste gente svogliata, impaurita, restia e diffidente? Iniziarono a chiedere: “C’è bisogno di qualcuno che sappia aggiustare le jeep, chi sa farlo? C’è bisogno di qualcuno che guidi l’attività motoria, chi sa farlo? ecc.”. Riuscirono nell’incredibile, perché? Perché le persone si sentirono utili, importanti, necessarie.
Il peggior dramma è sentirsi inutili: allora non ha senso nulla di ciò che si fa e neanche vivere.
Un famoso filosofo aveva trascorso tutta la sua vita per cercare il significato ultimo dell’esistenza. Aveva consultato i più grandi saggi ma non aveva trovato alcuna risposta soddisfacente. Una sera, nel giardino della sua casa, mettendo da parte i suoi pensieri, prese in braccio la sua bambina di cinque anni che stava giocando allegramente e le chiese: “Bambina mia, perché sei qui sulla terra?”. La bambina rispose sorridendo: “Per volerti bene, papà!”.
Siamo qui tutti per amare, per servire il mondo con la nostra modalità unica e irripetibile di amore che prende la forma di tenerezza, conoscenza, gioco, festa, unione, silenzio, preghiera, ecc.
Pensiero della Settimana
L’anima che può parlare con gli occhi
può anche baciare con lo sguardo.