Il cardinale Ravasi parla dell’evento del Cortile dei Gentili ad Assisi, del Sinodo di ottobre e di una Nuova Evangelizzazione che deve riflettersi anche in un insegnamento più innovativo della religione
di Salvatore Cernuzio
Al termine della conferenza di presentazione dell’evento del Cortile dei Gentili, “Dio questo sconosciuto. Dialogo tra credenti e non credenti”, che si svolgerà il 5 e 6 ottobre, ad Assisi, ZENIT ha intervistato il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura.
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L’evento del Cortile dei Gentili è stato un evento di pre-evangelizzazione che ha creato terreno fertile per l’imminente Sinodo dei vescovi dedicato appunto alla Nuova Evangelizzazione. Cosa si aspetta, invece, il Cortile dal grande assise di ottobre?
Card. Ravasi: Prescindendo dal fatto che lo stesso Sinodo cita il Cortile dei Gentili nell’Instrumentum Laboris, ciò che noi ci aspettiamo è che la presentazione della fede avvenga in una forma, con un linguaggio, che sia il più possibile comprensibile, non soltanto per i credenti ma anche per l’orizzonte culturale generale. Cioè che non sia soltanto autoreferenziale o legato a formule che, seppur preziose, sono ormai datate.
È qui l’importanza della comunicazione della fede, che è quello che, in un certo senso, facciamo anche noi, senza però voler evangelizzare.
E in questa direzione, quale potrebbe essere una formula efficace per vincere anche quel mare di indifferenza che lei, durante la conferenza, ha accusato essere l’atteggiamento più pericoloso del mondo attuale?
Card. Ravasi: Penso che per vincere la “nebbia” della superficialità, della banalità, dell’indifferenza generica, ci siano due strade. Una è quella adottata da alcune Chiese americane, soprattutto protestanti, che è il proporre l’essenziale, il minimo, impegnandosi, particolarmente, sul versante della carità, del volontariato e dell’impegno sociale. È questa una componente certamente significativa, ma, a mio avviso, insufficiente, in quanto la Chiesa non è “un’agenzia caritativa”.
L’altra via, invece, è quella della verità ultime, ovvero il coraggio di gettare sul tappeto, in un linguaggio comprensibile, i temi della vita, della morte, del bene, del male, della giustizia, della sofferenza, dell’amore.
Tutte quelle domande, cioè, che sono deposte in tutte le persone e che riaffiorano quando attraversano una sofferenza come, ad esempio, un familiare che muore di cancro o anche quando s’innamorano, si trovano a contatto con la bellezza e via dicendo. Tali quesiti devono essere riproposti con un linguaggio incisivo e culturalmente efficace: è l’unica via per far trovare all’umanità una risposta. Solo così la superficialità verrebbe scossa come da un elettroshock.
All’incontro di Assisi si svolgerà un dialogo tra lei e il presidente Giorgio Napolitano. Cosa rappresenta la figura del presidente della Repubblica nel dialogo tra credenti e non credenti?
Card. Ravasi: Rappresenta due componenti fondamentali: da un lato, incarna la figura dell’Italia in tutte le sue dimensioni e quindi di un Paese dalla grande tradizione cristiana. È la voce di un’Italia che ha pur sempre nel panorama della tradizione culturale il tema religioso. Non si può entrare in una pinacoteca o in una città senza “scontrarsi” con cattedrali, monumenti, dipinti che richiamano il sacro.
D’altra parte, il presidente Napolitano rappresenta una grande personalità che ha riproposto i valori, anche in mezzo al degrado culturale, sociale e politico. Egli insiste spesso, soprattutto con i giovani, sul tema dei grandi valori. È proprio lì che si crea una sintonia: quando entrambi cominciamo ad interrogarci sulle questioni fondamentali per la società stessa.
In questi giorni, il ministro per la Pubblica Istruzione, Francesco Profumo, a margine di un Convegno del Miur, ha parlato di una revisione di materie come la religione e la geografia, considerando ormai la forte presenza nelle scuole di studenti di culture e religioni differenti. Qual è il suo pensiero riguardo a questa tematica?
Card. Ravasi: Credo che sia indubbiamente importante rinnovare la didattica, prima di tutto, nel metodo. Pensiamo adesso a come avviene la comunicazione, non più con la carta scritta o il pennino come nella mia infanzia, ma con la tecnologia e altre modalità differenti. Anche nei contenuti, però, è necessario un rinnovamento! Ci sono componenti che sono fondanti da cui non si può prescindere, non solo per la religione, ma anche per le scienze. Allo stesso tempo, però, ci sono interpellanze sempre nuove: pensiamo ai problemi della Bioetica, un termine che 50 anni fa neppure esisteva. Credo, pertanto, che l’insegnamento della religione, in maniera corretta, sulla base del messaggio evangelico e dei grandi insegnamenti cristiani che vanno comunque sempre trasmessi, deve agganciarsi con il mutare della società e l’evoluzione dei tempi e della cultura.
Nella prospettiva di una trasmissione innovativa e, al contempo, essenziale della cultura, come si inserisce un evento interamente dedicato a Dante, come quello da lei annunciato per il 12 novembre alla Chiesa del Gesù di Roma?
Card. Ravasi: È tutto in linea con quello che si diceva. L’eredità che noi abbiamo è talmente alta e gloriosa che non può essere considerata una cosa del passato, marginale o da buttare. È una delle basi più feconde in assoluto. Ricordiamo, però, che il metodo è fondamentale, nel senso che un evento di tale spessore culturale non deve essere presentato come un’operazione filologica, ma come stimolo sul quale costruire oltre. Esprimono al meglio questo concetto, le parole del filosofo Bernardo di Chartres: “Noi siamo nani sulle spalle di giganti, ma è per questo che riusciamo a vedere più lontano”.